La fine della politica, nell’Occidente capitalista, è ormai un dato di fatto generale. E sarebbe ora di capire perché.
In questi giorni, grande è lo scandalo per la miseria del dibattito tra Trump e Biden, che segna il punto più basso nella storia degli Stati Uniti. Ma nessuno – perlomeno nel mainstream – si chiede come sia possibile che ciò accada nella superpotenza fin qui egemone sul pianeta, senza concorrenti a far data dal 1989-91, quando crollò lo storico antagonista del ‘900, l’Unione Sovietica e il “socialismo reale”.
Sarebbe da idioti concentrare l’attenzione sui due squallidi protagonisti di uno scambio di insulti degno di un saloon stile Hateful Eight. Quelli, infatti, sono la risultante di una selezione interna alla “classe politica”.
Quindi bisogna guardare a cosa sia ridotta “la politica” in quel Paese, dopo un trentennio di “pensiero unico”, in cui nessun leader o partito aveva più bisogno di interrogarsi davvero su come gestire la complessità dello sviluppo contemporaneo.
Tutto era stato infatti risolto con il crollo dell’antagonista. Bastava assecondare il sistema delle imprese, in primo luogo quelle multinazionali che dominavano la “globalizzazione”, ridurre al minimo lo “stato sociale” e i salari, bombardare qualche vecchio complice che si montava la testa (Noriega, Saddam, Osama, ecc), smembrare Stati d’ostacolo a qualche progetto di sfruttamento locale (Libia, Somalia, ecc.) e accaparrarsi tutte le risorse utili possibili, al bisogno.
Anche sul piano economico e finanziario i problemi non esistevano più. “I mercati” avevano raggiunto una potenza di fuoco tale che nessuno Stato – nemmeno gli Stati Uniti, in definitiva – poteva coltivare ambizioni differenti.
Specie negli Usa, la “classe politica” veniva velocemente sostituita da manager di multinazionali o finanziarie (Condoleeza Rice da Chevron, Dick Cheney da Halliburton, gli stessi petrolieri Bush padre e figlio, Lawrence Summers dalla Banca Mondiale, ecc.), che passavano velocemente da cariche private a quelle pubbliche e viceversa.
Restava qualche spazio, nell’establishment, per avvocati di grido capaci di emergere come capacità retorica (i Clinton, Obama), ma ovviamente senza alcuna autonomia possibile rispetto al “potere centrale” (quello dei “mercati”).
A tenere insieme il tutto, anche nei momenti critici, c’era il dollaro, autentica moneta dell’impero, l’unica a poter ricoprire tutte le funzioni: unità di misura del valore di tutte le merci, moneta di riserva internazionale, mezzo di pagamento interno e internazionale. Basta stamparne le quantità necessarie, e nessuno si porrà il problema se accettarlo o no. Un privilegio unico, senza rivali.
In quel mondo, ormai alle nostre spalle, “pensare le alternative” era una fatica inutile. La mediazione tra interessi diversi era l’unica possibilità purché avvenisse all’interno dei margini sistemici concessi.
Tutto era già dato. Bastava seguire i percorsi prefissati.
La decadenza della politica, e dei “funzionari della politica”, è stata una conseguenza inevitabile. Non servivano più “statisti”, bastavano attori capaci di recitare qualsiasi parte (si era già cominciato con Ronald Reagan, ricordiamo), furbi in grado di districarsi nelle budella del potere, attenti solo a non combinare guai e pestare i piedi sbagliati.
Nel frattempo la società si polarizzava, le disuguaglianze si moltiplicavano, la guerra tra poveri – ultima risorsa quando si smette di “distribuire briciole” – seminava o rinfocolava contrasti mal ricoperti da una patina politically correct.
Conquistare consensi e voti, in questo mood, significa abbassare al minimo la complessità dei messaggi, “parlare alla pancia”, promettere l’impossibile, alimentare l’irrazionalità, inventare nemici ad hoc.
Ne sappiamo qualcosa in Italia, dall’irruzione di Berlusconi in poi, che ha sdoganato l’indicibile e l’impensabile come “nuova normalità popolare”. E se ci sembra folle che in piena pandemia ci sia la rissa continua tra governo centrale, regioni e sindaci sulle misure da adottare, ognuno interessato solo al suo spazio di visibilità, basta volgere lo sguardo altrove per vedere le stesse cose.
In Spagna, per esempio, l’assessore alla Sanità della regione di Madrid, Enrique Ruiz Escudero, e la sindaca della capitale, Isabel Diaz Ayuso (entrambi “popolari”, mentre il governo è “socialista”), si oppongono alle nuove limitazioni perché l’epidemia nell’area sarebbe entrata in una fase “stabile” e ci sono “primi segnali di miglioramento”. Solo ieri, a Madrid, sono stati registrati 4.000 contagi, il doppio che in tutta Italia...
Così, non sembra neanche strano che negli Usa un isterico Donald Trump si rifiuti di prendere le distanze dal Ku Klux Klan e minacci di non accettare il risultato delle elezioni.
Sono saltati i parametri che davano stabilità alla “democrazia parlamentare”, a cominciare dalla comune accettazione delle regole del gioco e dell’alternanza. Ovvero quel “gioco truccato” da decenni che, in Occidente, stritola le alternative di sistema riconducendole sempre al “meno peggio”, in una corsa al centro senza fine.
È stato in definitiva ri-piantato e ben innaffiato il seme della guerra civile, nel cuore dell’imperialismo stesso.
Se dovesse aver ragione Stephen Roach, economista statunitense che da tempo vede possibile una “brutale crisi del dollaro”, quel seme avrebbe un grande terreno su cui germogliare...
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