Aristotele nella Politica individua le forme più comuni di costituzione in oligarchica e democratica classificando anche le tipologie di costituzione per lui esistenti, sia in senso oligarchico che democratico. Pone inoltre un problema che, da solo, ha fatto la stessa storia della filosofia politica ovvero quello delle trasformazioni delle costituzioni e quindi dei regimi democratici. Di fronte al dibattito politico sulle modalità di definitiva collocazione di Mario Draghi nelle istituzioni italiane, ricordando che anche le democrazie cambiano, c’è quindi da chiedersi davvero verso quale ulteriore trasformazione si stia avviando la democrazia in Italia.
E il modo con il quale si sta cercando di collocare Draghi non fa pensare tanto a un nuovo spostamento in senso oligarchico dell’asse democratico della costituzione italiana quanto al fenomeno dell’esaurimento della democrazia in Italia che, come tutti i fenomeni storici, ha radici piuttosto lunghe essendo uno dei frutti velenosi della fine degli anni ’70. Certo, una delle trasformazioni più recenti della democrazia deliberativa istituzionale in Italia, quella di essere strutturata attraverso cartelli elettorali liquidi e pensati solo per l’allocazione di corto respiro delle quote di potere ottenute, già faceva pensare all’esaurimento del fenomeno democratico istituzionale, e quindi del relativo regime, nel nostro paese. Non in miglior stato di salute, tra l’altro, troviamo le forme democratiche alternative: assembleari, digitali o legate ad associazioni mostrano crisi di complessità, e lotte interne, non facilmente risolvibili e certamente non proponibili, se non sul piano puramente etico, come modello di governo della società.
C’è poi un elemento, del dibattito politico su Draghi, che va fissato subito: la figura del presidente del consiglio è il nodo sul quale si sovrappongono diverse reti di potere bancario, finanziario, economico nazionale e globale che si servono della politica istituzionale italiana – per l’allocazione di risorse a loro necessarie – ma che ne sono completamente autonome. Ad esempio, quando Draghi, parlando di ambiente al G20, promuove il ruolo strategico del capitale privato, pensando ai grandi hedge fund, si pone al di fuori del regime democratico italiano, che non prevede in nessun modo l’egemonia dei fondi di rischio sui governi in caso di crisi globali, ma entro le esigenze dei flussi finanziari e degli interessi economici di cui è un punto di riferimento. E tutto questo senza alcun dibattito pubblico o istituzionale perché, del resto, i cartelli elettorali presenti in parlamento ascoltano solo il dibattito sulla propria sopravvivenza (data delle elezioni, definizione collegi elettorali, legge elettorale, alleanze, elezione presidente repubblica).
È evidente che Draghi esiste a democrazia esaurita e in modo più accentuato rispetto alle esperienze di governo Ciampi, Dini, Monti nei quali i residui democratici, le forze politiche presenti in parlamento e i sindacati, avevano un ruolo triste ma attivo nella definizione degli obiettivi di governo. Obiettivi che si sostanziavano nel dover soddisfare coloro, per usare una espressione a suo modo sincera di Lamberto Dini, “che votano tutti i giorni” ovvero i mercati finanziari specie con i loro comportamenti sul mercato pubblico obbligazionario. Se Draghi è la risposta, di reti di potere nazionali e sovranazionali, a coloro che votano tutti i giorni è evidente che chi vota ogni cinque anni, entro criteri di democrazia formale, non può e non deve essere un ostacolo. E così le due maggiori ipotesi di collocazione di Draghi, nel dibattito politico, ci sono proprio per evitare che emergano rischi, per chi vota tutti i giorni, da coloro che votano ogni cinque anni. Oltretutto, dai tempi di Lamberto Dini, i mercati non votano tutti i giorni ma ogni frazione di secondo visto che il grosso delle transazioni in borsa si fa col trading ad alta velocità, e il voto quinquennale, in questa dimensione, assume i caratteri arcaici e lontani di una deliberazione della sala della Pallacorda vista dalla prospettiva di una policy interna trasmessa su Whatsapp a un gruppo di consumatori consorziati tra loro. Tutto questo Draghi lo sa, meno i cartelli elettorali ai quali interessa giusto la pura sopravvivenza.
Per cui Draghi viene visto o come presidente del consiglio a prescindere dal risultato elettorale, proposta Confindustria, o come presidente della Repubblica, “che diventerebbe di fatto semipresidenziale” secondo l’interpretazione del ministro Giorgetti. In ogni caso l’indirizzo democratico, quello elettorale, è subordinato alle esigenze di collocazione di Draghi. E qui parlare di “dittatura” non serve se non alle masse di vaganti che si sono viste in piazza queste settimane con gli slogan più bizzarri. Quello che sta accadendo è un fenomeno più profondo di un colpo di stato: l’emergere di un nuovo potere oligarchico, a due teste (nazionale e globale), che occupa gli spazi di una democrazia esaurita. Gridare al ripristino di una democrazia tradita non servirà a molto perché questa democrazia non c’è più. C’è altro e va scoperto nelle sue reali dimensioni.
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