Il governo implementa oggi un altro tassello per il ritorno a quell’odiosa “normalità”, in termini politico-economici, non certo sanitari, registrata prima della pandemia. Infatti, termina oggi il blocco ai licenziamenti anche per le piccole e media imprese (Pmi), aggiungendosi dunque a quello già scaduto per le “grandi”.
In pratica, lo sblocco reintroduce la disciplina del Jobs Act sui licenziamenti anche per quelle imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni, ossia i parametri statistici della grande impresa.
Già da questi numeri si può facilmente immaginare come lo sblocco investa la stragrande maggioranza delle attività economiche presenti sul nostro territorio. I numeri confermano questa impressione, visto che le Pmi rappresentano più del 90% del tessuto produttivo italiano e impiegano più dell’80% della forza lavoro del paese – qui indipendentemente dalla qualifica e dall’inquadramento – quota che aumenta di peso man mano che ci si sposta verso il Mezzogiorno.
Un’altra mannaia per il mondo del lavoro in “uscita” dalla pandemia, che si affianca alla tutt’altro che entusiasmante discussione sul ritorno del sistema pensionistico alla legge Fornero (per ora, posticipata di appena un anno), al topolino partorito dalla riforma degli ammortizzatori sociali targato Orlando (doveva rivoluzionare l’istituto a marzo, impiegare 8 miliardi a luglio, siamo a circa 3,5 nelle legge di bilancio inviata a Bruxelles) e lo spettro della riforma fiscale, i cui tagli affidati alla legge delega ancora non indicano quale delle parti – grandi imprese e lavoratori/piccoli proprietari hanno interessi costitutivamente opposti – beneficerà della riforma.
Tornando allo sblocco, questo riguarda quasi 15 milioni di lavoratori e lavoratrici, la metà dei quali in imprese con meno di 10 dipendenti, concentrati soprattutto nei settori dei servizi, dell’edilizia e dell’agricoltura, ossia quelli, nel reflusso generale, con il più basso tasso di sindacalizzazione.
Non che i grandi confederali come CgilCislUil abbiano dimostrato nell’ultimo mezzo secolo di assicurare di per sé la tutela del posto di lavoro, tutt’altro, ma la “solitudine” del lavoratore o della lavoratrice nei confronti del padrone rischia di far passare sottotraccia, più di quanto già non facciano i grandi media d’informazione, una sforbiciata al malandato mercato del lavoro italiano.
Il blocco dei licenziamenti, introdotto il 17 marzo del 2020, pur nei limiti della sua disciplina ha comunque avuto un effetto cuscinetto nei confronti della sofferente occupazione del paese, probabilmente più grazie ai miliardi sganciati dal governo per le varie tipologie di Cassa integrazione messi a disposizione delle imprese, ma rivelatosi inefficace sia verso i licenziamenti disciplinari (non inclusi nell’istituto e non a caso arrivati a numeri da record in questi 18 mesi), sia verso i contratti a tempo determinato, perlopiù giunti a “naturale scadenza” nel corso della pandemia e ripresi, con moderazione, nel periodo di riapertura estiva.
Il flusso che sarà registrato dalle Comunicazioni obbligatorie dell’Insp su “instaurazione, proroga, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro” dirà, verosimilmente da qui a fine anno, l’impatto dello sblocco sul mondo del lavoro – al netto delle 9-13 settimane di Cassa Covid rinnovate per alcuni settori interessati dalla Cassa in deroga, in aggiunta a tessile, moda e pelletterie.
Ma a giudicare dal forte segno antioperaio impresso dall’esecutivo Draghi (la vicenda Alitalia è solo l’ultima di una serie di casi esemplari) e dalla totale subalternità dimostrata da CgilCislUil al governo (lo spettro dello sciopero per il ritorno alla Fornero non è durato che per qualche ora), di certo non c’è da “stare sereni”.
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