Sembra la trama di un b-movie, una specie di remake di Vogliamo i colonnelli ma gestito da Franco & Ciccio. E invece si tratta del canovaccio reale – con documentazione abbondante – del tentativo di golpe andato in scena un anno fa a Washington, con protagonista il presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, che si rifiutava di lasciare lo scettro a Joe Biden, vincitore per un soffio delle elezioni di novembre.
Non siamo mai stati degli estimatori della democrazia statunitense, per il suo evidente carattere di classe, la scarsità dei votanti (quai sempre intorno al 40%, tranne appunto nelle elezioni di un anno fa), la farraginosità delle procedure per essere abilitati al voto (bisogna dichiararsi votanti di uno dei due soli partiti ammessi), ecc.
Ma questa vicenda va oltre le peggiori opinioni.
Proponendovi l’articolo con cui il quotidiano inglese The Guardian resoconta quanto contenuto in una presentazione PowerPoint, che sintetizzava le mosse da fare per realizzare il golpe mentre “le masse” assaltavano Capitol Hill, invitiamo a riflettere su alcuni punti.
Il primo è la totale assuefazione del potere statunitense alla menzogna. Nulla di quel che viene detto pubblicamente corrisponde a quel che si vuole fare. Si può obiettare che è così in molti altri poteri e regimi. Ma nessuno come gli Stati Uniti ha giocato e gioca sull’autodichiarazione di “superiorità morale” rispetto al resto del mondo.
Se ci pensate un attimo, quella pretesa “superiorità morale” è alla base dell’”ingerenza democratica” nelle vicende di qualsiasi altro paese o area del mondo – dall’Afghanistan all’Iraq, dal Sud America all’Asia – e dunque a fondamento (pretestuoso) di tutte le guerre condotte negli ultimi 30 anni (prima si limitava a un più sincero “interesse strategico degli Stati Uniti”).
La novità – relativa – sta nell’usare lo stesso metodo anche nelle vicende politiche interne. Diciamo “relativa” perché già un altro presidente repubblicano, Richard Nixon, aveva mosso servizi segreti ed Fbi per cercare di tenere la rielezione (lo “scandalo Watergate” che gli costò invece l’impeachment).
Metodi abituali nella repressione dei movimenti di massa e d’opposizione (dalle Pantere Nere a Black Lives Matter), ma usati sempre in modo soft nella “concorrenza” tra le due uniche cordate di potere ammesse a contendersi la Casa Bianca.
Non per “correttezza”, ma per un calcolo anche egoistico delle élite: se vuoi gestire la potenza egemone sul mondo come “campione della democrazia” devi comunque “mantenere un tono” che non ti faccia precipitare al livello di un Pinochet qualsiasi (uno dei tanti dittatori-burattini insediati dagli USA in giro per il mondo). Sgambetti, spiate, provocazioni, si può fare. Ma golpe no...
Più concretamente, “certe cose le facciamo agli altri, non tra noi, se no è finita e ci scanniamo come deficienti”.
E invece questa documentazione dice che quella “regola aurea” della democrazia USA è saltata. E che una parte della società – gli elettori di Trump – lo ritiene del tutto “normale”.
Se si tiene conto che tra un anno Trump potrebbe vincere le elezioni di Midterm e ottenere la maggioranza al Senato, bloccando di fatto l’operatività della già disastrata presidenza Biden, si ha un quadro dello sfacelo prodottosi in quell’assetto istituzionale.
Il secondo elemento di riflessione è conseguente. Come può un simile paese esercitare credibilmente la “guida del mondo” con questa tara in fronte? L’inchiesta in corso – sia che arrivi all’incriminazione di Trump, sia che si fermi un attimo prima – comunque squaderna agli occhi del mondo una crisi irreversibile. Politica, oltre che economica e sociale.
Tre decenni di finanziarizzazione dell’economia, soprattutto USA, hanno reciso le connessioni tra società e classe dirigente. Anche lì sono insomma saltati quei “corpi intermedi” che veicolavano gli interessi delle diverse classi sociali nel Congresso e nell’Amministrazione, traducendosi in scelte politiche sempre devastanti per il resto del pianeta, ma orientate a costruire il consenso interno, se non altro delle figure socialmente “più rilevanti” (l’establishment, non certo “il popolo”).
Salta insomma la coesione interna e si incrina, contemporaneamente, la presa sull’esterno. Difficile poter recuperare la credibilità perduta in così poco tempo, specie se la società resta divisa e senza più un “senso comune” che vada oltre l’orgoglio nazionale.
Certo, gli USA restano una superpotenza militare, pericolosa come tutti gli imperi in crisi, che facilmente ricorrono alle armi quando scarseggiano di altri strumenti. Ma con le sole armi – come con i soli droni, in Iraq e Afghanistan – è più difficile tenere insieme gli alleati (e l’Unione Europea si va autonomizzando, anche su questo piano).
E anche i competitor, specie se abbastanza potenti e socialmente più coesi, possono muoversi con maggior sicurezza, stando attenti a non provocare reazioni scomposte, ma consapevoli che il cambio nei rapporti di forza complessivi è solo questione di tempo.
Non siamo mai stati degli estimatori della democrazia statunitense, per il suo evidente carattere di classe, la scarsità dei votanti (quai sempre intorno al 40%, tranne appunto nelle elezioni di un anno fa), la farraginosità delle procedure per essere abilitati al voto (bisogna dichiararsi votanti di uno dei due soli partiti ammessi), ecc.
Ma questa vicenda va oltre le peggiori opinioni.
Proponendovi l’articolo con cui il quotidiano inglese The Guardian resoconta quanto contenuto in una presentazione PowerPoint, che sintetizzava le mosse da fare per realizzare il golpe mentre “le masse” assaltavano Capitol Hill, invitiamo a riflettere su alcuni punti.
Il primo è la totale assuefazione del potere statunitense alla menzogna. Nulla di quel che viene detto pubblicamente corrisponde a quel che si vuole fare. Si può obiettare che è così in molti altri poteri e regimi. Ma nessuno come gli Stati Uniti ha giocato e gioca sull’autodichiarazione di “superiorità morale” rispetto al resto del mondo.
Se ci pensate un attimo, quella pretesa “superiorità morale” è alla base dell’”ingerenza democratica” nelle vicende di qualsiasi altro paese o area del mondo – dall’Afghanistan all’Iraq, dal Sud America all’Asia – e dunque a fondamento (pretestuoso) di tutte le guerre condotte negli ultimi 30 anni (prima si limitava a un più sincero “interesse strategico degli Stati Uniti”).
La novità – relativa – sta nell’usare lo stesso metodo anche nelle vicende politiche interne. Diciamo “relativa” perché già un altro presidente repubblicano, Richard Nixon, aveva mosso servizi segreti ed Fbi per cercare di tenere la rielezione (lo “scandalo Watergate” che gli costò invece l’impeachment).
Metodi abituali nella repressione dei movimenti di massa e d’opposizione (dalle Pantere Nere a Black Lives Matter), ma usati sempre in modo soft nella “concorrenza” tra le due uniche cordate di potere ammesse a contendersi la Casa Bianca.
Non per “correttezza”, ma per un calcolo anche egoistico delle élite: se vuoi gestire la potenza egemone sul mondo come “campione della democrazia” devi comunque “mantenere un tono” che non ti faccia precipitare al livello di un Pinochet qualsiasi (uno dei tanti dittatori-burattini insediati dagli USA in giro per il mondo). Sgambetti, spiate, provocazioni, si può fare. Ma golpe no...
Più concretamente, “certe cose le facciamo agli altri, non tra noi, se no è finita e ci scanniamo come deficienti”.
E invece questa documentazione dice che quella “regola aurea” della democrazia USA è saltata. E che una parte della società – gli elettori di Trump – lo ritiene del tutto “normale”.
Se si tiene conto che tra un anno Trump potrebbe vincere le elezioni di Midterm e ottenere la maggioranza al Senato, bloccando di fatto l’operatività della già disastrata presidenza Biden, si ha un quadro dello sfacelo prodottosi in quell’assetto istituzionale.
Il secondo elemento di riflessione è conseguente. Come può un simile paese esercitare credibilmente la “guida del mondo” con questa tara in fronte? L’inchiesta in corso – sia che arrivi all’incriminazione di Trump, sia che si fermi un attimo prima – comunque squaderna agli occhi del mondo una crisi irreversibile. Politica, oltre che economica e sociale.
Tre decenni di finanziarizzazione dell’economia, soprattutto USA, hanno reciso le connessioni tra società e classe dirigente. Anche lì sono insomma saltati quei “corpi intermedi” che veicolavano gli interessi delle diverse classi sociali nel Congresso e nell’Amministrazione, traducendosi in scelte politiche sempre devastanti per il resto del pianeta, ma orientate a costruire il consenso interno, se non altro delle figure socialmente “più rilevanti” (l’establishment, non certo “il popolo”).
Salta insomma la coesione interna e si incrina, contemporaneamente, la presa sull’esterno. Difficile poter recuperare la credibilità perduta in così poco tempo, specie se la società resta divisa e senza più un “senso comune” che vada oltre l’orgoglio nazionale.
Certo, gli USA restano una superpotenza militare, pericolosa come tutti gli imperi in crisi, che facilmente ricorrono alle armi quando scarseggiano di altri strumenti. Ma con le sole armi – come con i soli droni, in Iraq e Afghanistan – è più difficile tenere insieme gli alleati (e l’Unione Europea si va autonomizzando, anche su questo piano).
E anche i competitor, specie se abbastanza potenti e socialmente più coesi, possono muoversi con maggior sicurezza, stando attenti a non provocare reazioni scomposte, ma consapevoli che il cambio nei rapporti di forza complessivi è solo questione di tempo.
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La commissione sull’attacco al Campidoglio ottiene il PowerPoint con il piano di Trump per inscenare un colpo di stato
La commissione sull’attacco al Campidoglio ottiene il PowerPoint con il piano di Trump per inscenare un colpo di stato
L’ex capo dello staff della Casa Bianca di Trump, Mark Meadows, ha consegnato al comitato selezionato della Camera che indaga sull’attacco al Campidoglio del 6 gennaio un PowerPoint che raccomanda a Donald Trump di dichiarare un’emergenza di sicurezza nazionale per tornare alla presidenza.
Il comitato selezionato è certo che ci sia stato almeno un certo coordinamento tra la Casa Bianca di Trump e gli organizzatori della manifestazione del 6 gennaio.
Il fatto che Meadows fosse in possesso di un PowerPoint il giorno prima dell’attacco al Campidoglio che dettagliava i modi per inscenare un colpo di stato, suggerisce che era almeno a conoscenza degli sforzi di Trump e dei suoi alleati per impedire che la certificazione di Joe Biden avesse luogo il 6 gennaio.
Il PowerPoint, intitolato “Election Fraud, Foreign Interference & Options for 6 Jan“, ha fatto a Trump diverse raccomandazioni su aziojni da fare al fine di mantenere la presidenza per un secondo mandato, sulla base di bugie e cospirazioni sfatate sui diffusi brogli elettorali.
Meadows ha consegnato una versione della presentazione PowerPoint che ha ricevuto in una e-mail e si estende per 38 pagine, secondo una fonte che ha familiarità con la questione.
Il Guardian ha esaminato una seconda versione di 36 pagine del PowerPoint segnato per la diffusione con i metadati del 5 gennaio, che aveva alcune differenze con quello che il comitato selezionato ha ricevuto. Ma il titolo del PowerPoint e le sue raccomandazioni sono rimaste le stesse, ha detto la fonte.
I senatori e i membri del Congresso dovrebbero prima essere informati sulle interferenze straniere, ha detto il PowerPoint, a quel punto Trump potrebbe dichiarare un’emergenza nazionale, dichiarare invalido tutto il voto elettronico e chiedere al Congresso di concordare un rimedio costituzionalmente accettabile.
Il PowerPoint ha anche delineato tre opzioni per l’allora vicepresidente Mike Pence per abusare ampiamente del proprio ruolo cerimoniale alla sessione congiunta del Congresso del 6 gennaio, quando Biden sarebbe stato certificato presidente, e riportare unilateralmente Trump alla Casa Bianca.
Pence avrebbe potuto perseguire una delle tre opzioni, secondo il PowerPoint: far prevalere i voti per Trump negli stati chiave a dispetto delle obiezioni dei democratici, rifiutare un certo numero di voti per Biden, o ritardare la certificazione per consentire un “vetting” e il conteggio delle sole “schede cartacee legali”.
L’opzione finale per Pence è simile a un’opzione che è stata avanzata simultaneamente il 4 e 5 gennaio dai luogotenenti di Trump – guidati dagli avvocati Rudy Giuliani e John Eastman, così come dallo stratega di Trump Steve Bannon – lavorando dall’hotel Willard a Washington DC.
Il Guardian ha rivelato la scorsa settimana che in qualche momento tra la tarda serata del 5 gennaio e le prime ore del 6 gennaio, dopo che Pence si è rifiutato di andare avanti con tali piani, Trump ha pressato i suoi luogotenenti per trovare un modo di impedire che si completasse la certificazione di Biden.
Le raccomandazioni nel PowerPoint, sia per Trump che per Pence, erano basate su affermazioni false e infondate di frode elettorale, tra cui che “i cinesi hanno sistematicamente ottenuto il controllo del nostro sistema elettorale” in otto stati chiave.
L’allora procuratore generale ad interim, Jeff Rosen, e il suo predecessore, Bill Barr, entrambi nominati da Trump, il 5 gennaio avevano già stabilito che non c’erano prove di frode elettorale sufficienti a cambiare il risultato delle elezioni del 2020.
Gli investigatori della Camera hanno detto che sono venuti a conoscenza del PowerPoint dopo quanto emerso in più di 6.000 documenti che Meadows ha consegnato al comitato. Il PowerPoint doveva essere presentato “sulla collina”, un riferimento al Congresso, ha detto il pannello.
Il powerpoint è stato presentato il 4 gennaio a un certo numero di senatori repubblicani e membri del Congresso, ha detto la fonte. Agli avvocati di Trump che lavorano all’hotel Willard non è stata mostrata la presentazione, secondo una fonte molto interna alla vicenda.
Ma il comitato ristretto ha detto di aver trovato nel materiale consegnato da Meadows, i suoi messaggi di testo ad un membro del Congresso, che riferiva di un piano “altamente controverso” per approvare un certo numero di voti per Trump inviandoli alla sessione congiunta del Congresso.
Meadows ha risposto: “Lo adoro [questo piano, ndr]“.
L’ex capo dello staff di Trump alla Casa Bianca aveva consegnato materiale al comitato ristretto fino a quando l’accordo di cooperazione si è rotto martedì, ossia quando l’avvocato di Meadows, Terwilliger, ha bruscamente detto agli investigatori della Camera che Meadows non avrebbe più collaborato con l’indagine.
Il comitato ristretto ha annunciato mercoledì che in risposta, avrebbe deferito Meadows per un’azione penale per aver sfidato una citazione in giudizio. Il presidente del comitato ristretto, Bennie Thompson, ha detto che il voto per imputare Meadows di disprezzo del Congresso arriverà la prossima settimana.
“Il comitato ristretto si riunirà la prossima settimana per presentare un rapporto in cui si raccomanda che la Camera citi il signor Meadows per oltraggio al Congresso e lo deferisca al Dipartimento di Giustizia per un’azione penale“, ha detto Thompson in una dichiarazione.
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