Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

06/12/2021

La Troika vuole il Quirinale

Una crisi costituzionale è il momento in cui le molte differenze – o aperte contraddizioni – tra la “costituzione reale” e quella “formale” di un Paese non sono più mediabili dal normale gioco politico.

In primo luogo perché poteri neanche previsti dall’impianto costituzionale originario sono diventati così forti e pervasivi da non tollerare più il vecchio abito “formale”, e premono senza più molti limiti per farsene cucire addosso uno nuovo, adatto alle proprie esigenze.

In secondo (e di conseguenza) perché i partiti politici non esistono di fatto più, liquefatti – nella propria funzione e ruolo – proprio da quei poteri che hanno scavato gallerie destabilizzanti nel vecchio edificio costituzionale, a forza di “ritocchi” che ne hanno compromesso la struttura.

Molti ricordano la “riforma del Titolo V” – responsabilità assoluta del Pd, o come si chiamava allora quella banda criminale – che ha “regionalizzato” molte competenze dello Stato centrale, a cominciare dalla sanità pubblica.

L’effetto promesso era una “maggiore vicinanza agli interessi dei cittadini”, il risultato concreto è stato l’opposto (con intere aree del territorio ormai prive di strutture ambulatoriali, ospedaliere, di medicina territoriale).

Un deserto voluto, in cui ha potuto svilupparsi la privatizzazione della sanità e della stessa “politica”, ridotta a complicità con interessi aziendali espliciti o anche innominabili.

Ma neanche quella riforma è stata fatale per la “Costituzione nata dalla resistenza”, per quanto privasse tutti noi di un diritto certo esigibile in egual misura in qualsiasi angolo del territorio nazionale.

Fatali sono state invece due altre “riforme” passate con l’approvazione pressoché unanime di tutte le bande presenti in Parlamento (464 sì, 0 no e 11 astenuti alla Camera, 255 sì, 0 no e 14 astenuti al Senato, in prima lettura).

Quella dell’articolo 81, che ora prevede: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte».

Si tratta dell’obbligo al pareggio di bilancio, che implica l’impossibilità di spendere in deficit per far fronte a situazioni di crisi e dunque vincola ogni possibile scelta politica – con qualsiasi maggioranza di governo – a rispettare un equilibrio ideale che nella realtà non esiste mai.

Ma ancor più decisiva e “distorcente” è la nuova versione dell’art. 119: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.”

L’”autonomia” di ogni istituzione della Repubblica italiana, ad ogni livello, è quindi subordinata per Costituzione alle decisioni “superiori” della UE. Una subordinazione che fissa – come si vede con le 528 “condizionalità” del Recovery Fund – non soltanto i limiti di bilancio entro cui si possono prendere decisioni diverse, ma anche le priorità nelle decisioni di spesa e di entrate fiscali.

Con queste due norme “costituzionalizzate” l’autonomia del Paese è stata di fatto annullata. Possiamo mettere insieme una squadra per vincere i campionati europei in qualsiasi sport, ma non si può più scegliere quale destino, quali obiettivi, quali priorità sociali vogliamo soddisfare.

Sono vincoli politici imposti per via economica e con la forza dei trattati internazionali (non sottoponibili a referendum!), che inchiodano per sempre le scelte di qualsiasi governo futuro (anche “socialista”, in astratto) al ricettario classico del neoliberismo senza freni adottato come marchio di fabbrica nella UE.

Ma se la politica è vincolata, è chiaro che la presenza di partiti tra loro diversi è un lusso che non ci si può più permettere. Ognuno dovrà e potrà promettere in campagna elettorale solo quello che effettivamente può fare (nulla o quasi, sulle questioni economiche essenziali, decise preventivamente dalla UE) o qualcosa di abbastanza shoccante sulle questioni che costano poco (diritti civili sì o no, trattamento dei migranti, sia regolari che non, politiche securitarie... robetta così, insomma).

Poi, certo, si può promettere la luna in qualsiasi campo. Ma dopo dieci anni – tanti ne sono passati da quest’ultima riforma costituzionale, fatta su ordinazione durate il governo di Mario Monti – è chiaro anche per un terrapiattista che si tratta solo di chiacchiere.

Ma una classe politica che non ha più la possibilità di decidere nulla sulle questioni strategiche – politiche economiche e industriali, alleanze militari o diplomatiche, ecc. – inevitabilmente decade al livello dell’amministrazione di condominio. Con le “qualità”, la “lungimiranza”, l’”autonomia decisionale” e persino lo stile linguistico di un’assemblea di condominio.

È a questo punto che arriva l’investitura di Mario Draghi come monarca pro tempore del vicereame d’Italia. È stato un componente fondamentale della Troika che ha distrutto la Grecia con un “esperimento” che doveva valere come monito per tutti i 27 paesi della Ue. A lui non c’è necessità di spiegare pazientemente cosa va fatto e cosa va distrutto.

L’arco temporale da assicurare sono i sei anni di durata del Recovery Fund (con le misure racchiuse nel PNRR), con impegni che richiedono grande “stabilità” nella governance, altrimenti la “rivoluzione reazionaria neoliberista” prevista da quelle norme fissate in Trattati verrebbe messa a rischio.

Casualmente, questo arco temporale coincide quasi completamente con il nuovo settennato della Presidenza della Repubblica. Ed è meglio, molto meglio, per i poteri multinazionali ed “europeisti”, che il loro esponente Mario Draghi continui a guidare “la transizione” da quello scranno.

Non si può infatti rischiarlo in una normale competizione elettorale (nel 2023, a fine legislatura), perché la società spaventata e incazzosa potrebbe facilmente rovesciare anche su di lui il livore per un impoverimento crescente di cui non si vede il fondo né la fine. Potrebbe insomma fare la fine di Mario Monti, alle elezioni del 2013.

Dal Quirinale, invece, potrebbe continuare a formare governi – con chiunque e/o tutti dentro – per assicurare la continuità di una politica subordinata alle decisioni europee, ovvero del capitale multinazionale qui basato.

L’istituto della Presidenza ha del resto perso, nel corso degli anni, molte delle sue caratteristiche “notarili”, di puro rispetto formale delle decisioni politiche del Parlamento. Le antiche “esternazioni” di Francesco Cossiga furono probabilmente la prima manifestazione di questo mutamento di ruolo che è venuto consolidandosi negli anni. Ma sono nulla rispetto a quello che hanno poi fatto i suoi successori (Ciampi, Scalfaro, Napolitano, Mattarella), che hanno deciso quali governi potevano esser composti e quali invece stoppati, quali sostenuti e quali logorati.

Mario Draghi avrebbe insomma una lunga serie di precedenti cui appoggiarsi per mascherare quella che in ogni caso è una forzatura costituzionale verso il presidenzialismo di fatto.

Con due differenze importanti.

Draghi al Quirinale significa mettere in pratica un trasferimento palese di poteri e prerogative dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Rinviando alla prossima legislatura il compito di “formalizzare” questa trasformazione del Presidente in “super-capo del governo”, con una specifica “riforma costituzionale”.

I “precedenti” di protagonismo presidenziale sono stati in fondo tutti “necessitati” dall’impossibilità politica – in determinati momenti – di trovare soluzioni efficaci per tenere insieme interessi sociali in parte di dimensioni “nazionali” e vincoli europei.

L’insediamento di Re Draghi dovrà invece segnare una svolta decisa in direzione della prevalenza dell’”Europa”, come da art. 119.

Per far questo, però, bisognerà fare un’altra piccola serie di forzature costituzionali, alcune delle quali raccolte in un articolo dell’ultra-draghiana Repubblica, che vi riproponiamo. Ma, come detto all’inizio, se tra Costituzione Reale e Costituzione Formale si viene a creare una discrasia violenta, è sempre il potere della realtà a prevalere, scrivendo un “nuovo testamento” che gli stia a pennello.

È un golpe dei Palazzi, naturalmente. Una Restaurazione, contro ogni possibile – e necessaria – Rivoluzione. Che mette fuorilegge non tanto Keynes, quanto la Resistenza.

*****

Quirinale, se Draghi va al colle chi incarica il successore?

L’ipotesi doppia reggenza

Tommaso Ciriaco – La Repubblica

Allo studio degli uffici tecnici dei vertici istituzionali i complicati incastri in caso di elezione del premier come presidente della Repubblica

ROMA – È una specie di rebus costituzionale. E ruota attorno ad un gigantesco dilemma: che succede se il Parlamento sceglie Mario Draghi come Presidente della Repubblica, creando l’inedita condizione di un premier che deve dimettersi nelle mani del Capo dello Stato a cui deve succedere? E che, nello stesso tempo, ha tra le sue principali prerogative quella di gestire la partita del suo successore a Palazzo Chigi? Un rompicapo difficile anche solo a pronunciarsi. Non a caso, nelle ultime settimane anche gli uffici tecnici dei vertici istituzionali si sono consultati, in modo informale e ufficioso. Scambiandosi opinioni, in linea puramente teorica. E scandagliando le possibili tappe di un percorso ordinato.

È un affascinante garbuglio che non può che richiamare l’attenzione degli esperti del Quirinale e della Camera dei deputati, il ramo del Parlamento chiamato a gestire l’iter dell’elezione del nuovo Presidente. A conoscenza delle possibili soluzioni tecniche sono ovviamente anche gli uffici di Palazzo Chigi. Qualcosa sembra ormai pacifico. Qualcos’altro resta in sospeso, per il momento.

Tre, in particolare, i quesiti a cui provare a dare risposta. Il primo: fino a oggi il presidente del Consiglio dimissionario è sempre rimasto in carica in attesa del giuramento del successore, stavolta le dimissioni di un premier eletto Capo dello Stato diventerebbero immediatamente esecutive? Se così è – e così sembra essere – sarebbe allora il ministro più anziano a succedere immediatamente al premier dimissionario? E soprattutto: chi gestirebbe le consultazioni per il nuovo esecutivo?

Alcuni punti fermi sembrano emergere. E vanno esplorati, partendo da un possibile percorso. Primo passo: il Parlamento elegge Draghi Presidente della Repubblica. Secondo: l’ex banchiere si reca al Quirinale per formalizzare dimissioni immediate. La sua elezione al Colle, infatti, dovrebbe essere considerata tra i casi di “impedimento temporaneo” di un premier, previsto dall’articolo 8 della legge 400 del 1988. Se così fosse, dovrebbe subentrare il ministro più anziano. Si tratta di Renato Brunetta, che guiderebbe il governo come fosse un “reggente”.

A quel punto, si aprirebbe una fase del tutto nuova per individuare il nuovo capo dell’esecutivo. E siamo al secondo bivio: chi guiderà le consultazioni, Mattarella o Draghi? Il percorso più lineare – ma anche tecnicamente articolato – dice: l’ex banchiere. Per farlo, serve una condizione prevista dall’articolo 91 della Costituzione: che abbia prestato giuramento da Presidente della Repubblica. Questo passaggio non potrà però avvenire, stavolta, contestualmente alla sua elezione, perché prima c’è da completare la transizione con Brunetta.

Se inoltre l’elezione di Draghi avvenisse prima del 3 febbraio 2022 – data di scadenza del settenato di Mattarella – occorrerebbero le dimissioni del Presidente per accelerare l’insediamento del nuovo Capo dello Stato. Dimissioni a cui seguirebbe la convocazione delle Camere e il giuramento in Aula. Anche facendo molto in fretta, ci sarebbe probabilmente la necessità di una seconda “reggenza”, quella al Colle. Magari anche solo di poche ore, affidata alla presidente del Senato Casellati.

Un incastro complicatissimo, come detto. A meno che l’elezione di Draghi al Colle non avvenga dopo il 3 febbraio. L’attuale Presidente, infatti – come ha ricordato il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica – resta in carica anche oltre la scadenza, fino al giuramento del suo successore. Questo scenario dovrebbe evitare almeno il passaggio delle dimissioni anticipate. Non è escluso, tra l’altro, che Roberto Fico decida di convocare le Camere attorno al 26 gennaio, favorendo questo schema. L’alternativa, già circolata, è che si parta molto prima, tra il 18 e il 20 gennaio. In questo caso, è possibile che si proceda con un solo scrutinio al giorno, anche in chiave anti-Covid. Esiste teoricamente anche un’altra possibilità. Non è però priva di problemi, secondo alcune fonti addirittura insormontabili. Parte da una precondizione: l’accordo politico per eleggere Draghi dovrebbe essere accompagnato da un patto altrettanto solido attorno al nuovo premier.

La maggioranza di unità nazionale, insomma, oltre a votare Draghi assumerebbe contestualmente un impegno politico sul nuovo presidente del Consiglio. Se così fosse, Draghi potrebbe salire al Quirinale per dimettersi. E potrebbe essere il Presidente della Repubblica uscente a convocare immediatamente dopo la personalità a cui conferire l’incarico per Palazzo Chigi. In poche ore, giurerebbe con i suoi ministri. Si eviterebbe la reggenza, che sulla carta potrebbe anche durare mesi. Con il governo in sicurezza, inoltre, si potrebbe attendere anche la scadenza naturale del settennato. Questa strada, però, presenta un ostacolo. Sarebbe il Capo dello Stato uscente – e non quello appena eletto – ad assumere la decisione più rilevante fra quelle che gli spettano: la scelta del premier.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento