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08/12/2021

L’inflazione esplode? Ringraziate la Bce (e Draghi)

Nei giorni scorsi ci aveva pensato la Banca Centrale Cinese a criticare la sua omologa europea (oggi guidata da Christine Lagarde, subito dopo Mario Draghi). Una politica monetaria troppo “espansiva”, che non stimola affatto l’economia reale perché resta nelle mani degli istituti finanziari: e una politica fiscale inesistente, visto che ogni stato dell’Unione fa come gli pare (pur dentro i vincoli stabiliti dalla Ue), addirittura con una concorrenza al ribasso per “attirare capitali”.

Oggi arriva una conferma, sul piano più discreto dell’analisi, grazie a un editoriale di Milano Finanza, opera del sempre acuto Guido Salerno Aletta: l’impennata improvvisa dell’inflazione ha tra le concause le immense “iniezioni di liquidità” che Federal Reserve e Bce continuano ancora oggi a praticare.

L’intenzione originaria era fermare il tracollo del sistema finanziario internazionale – in realtà soprattutto occidentale – che si sarebbe certamente trasmesso anche all’economia reale, tagliando di fatto le già scarse fonti di finanziamento delle imprese (molte banche cominciarono, all’indomani del crollo di Lehmann Brothers, a chiedere ai clienti di far “rientrare” i prestiti erogati e finanche gli “scoperti temporanei”).

Fu grossomodo il momento in cui Mario Draghi, dalla poltrona di presidente a Francoforte, pronunciò il famoso whatever it takes che gli è valso il riconoscimento unanime del neoliberismo occidentale.

In realtà, la frase era riferita a una solo problema. “I mercati” avevano iniziato a “scommettere” contro l’euro, provocando una svalutazione importante, anche perché molti paesi dell’Unione presentavano livelli di debito pubblico molto alti, che la Bce – per statuto – non poteva alleviare comprando titoli di stato (al contrario di quanto accade negli Usa o in Gran Bretagna, e che avveniva anche in Italia fino al 1981 e in Europa anche dopo).

La sfida era dunque al presunto immobilismo della Bce di fronte a un problema che il suo statuto – bloccato sulla sola lotta all’inflazione – non aveva previsto. Draghi, con il suo “faremo tutto quello che è necessario, e vi assicuro che sarà abbastanza”, avvertiva “i mercati” che quella scommessa era sbagliata.

Di lì in poi, infatti, con l’acquisto di innumerevoli asset finanziari – spazzatura “derivata", in genere, ma anche titoli di stato di paesi con alto debito, pur se in misura marginale – la Bce immetteva liquidità così abbondante da rendere impossibile qualsiasi speculazione sull’euro.

Una questione di “munizioni”, in fondo. I mercati gestiscono migliaia di miliardi di euro e dollari, ma la Bce (e la Fed) li possono stampare a volontà. Se vogliono.

Unico inconveniente, che comincia a diventare evidente ora, a valle di una crisi pandemica ed economica mondiale, è che tutta quella liquidità che fin qui è rimasta dentro i forzieri o nella speculazione di borsa (i valori azionari sono sempre ai massimi, anche quando le economie arretrano), ora comincia a trasferirsi verso l’economia reale.

Ma lo fa nel suo modo bastardo.

Invece di nutrire prestiti ad aziende e famiglie, favorendo investimenti produttivi e consumi, si fionda sull’intermediazione di merci e materie prime improvvisamente diventate scarse.

O a causa di una domanda esplosa con la ripresa della produzione (è il caso delle materie prime energetiche, dei semiconduttori, del grano e altri prodotti agricoli, ecc.), oppure per effetto dell’entrata in produzione di nuove tecnologie che richiedono grandi quantitativi di minerali prima “meno interessanti” (litio, grafite, cobalto, terre rare, ecc.).

L’”intermediazione” tra domanda e offerta nei comparti a più alta redditività può valersi a questo punto del fiume di denaro pompato nel sistema finanziario dalle principali banche centrali. E i prezzi, inevitabilmente, salgono.

Del resto, tutta quella liquidità inutilizzata aveva prodotto fin qui l’assurdo di una denaro a costo zero, con l’azione delle banche centrali sui tassi di interesse. O addirittura negativo (per esempio: comprando Bund tedeschi, da anni, si accetta di ricevere qualcosa in meno di quanto prestato, perché sono titoli più sicuri di altri).

Ora c’è l’occasione di far rendere quella liquidità in eccesso. Non solo nell’azzardo dell’investimento in borsa – con tutti i rischi che implica – ma su cose molto più sicure, perché fisiche, tangibili, indispensabili.

L’immateriale della finanza prova a riprendere una forma fisica ma, dopo un decennio di “ipertrofia stimolata” (con gli anabolizzanti forniti da Bce e Fed), distrugge ogni abito che prova ad indossare. Sapendo, oltretutto, che se le banche centrali interrompono bruscamente i flussi di liquidità provocherebbero l’esplosione dei debiti pubblici di parecchi Stati e una contrazione violenta dell’economia, congelando di fatto qualsiasi ipotesi di “ripresa”.

Si chiama inflazione. E l’ironia della Storia è che è stata prodotta proprio da chi sta al mondo soltanto per combatterla.

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In fondo alla fiammata dei prezzi c’è l’eterno bazooka della Bce

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

La violenta, inattesa e generalizzata fiammata inflazionistica di questi mesi sta mettendo in allarme tutti, dai cittadini alle imprese, dai governi alle banche centrali.

Per interpretarne le cause e valutarne i primi effetti occorre partire dalla cronaca di questi anni e dal modello di sviluppo su cui si è innestata la crisi sanitaria pandemica dall’inverno del 2020: fino ad allora infatti veniva stigmatizzata una sorta di nuova stagnazione secolare, analoga a quella che si ebbe nella seconda metà dell’800, caratterizzata da bassa crescita e costante deflazione dei prezzi.

Così come quella fu determinata dalla drammatica combinazione tra il ribasso dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime derivante dall’ingresso sul mercato dei Paesi di più recente colonizzazione e la competizione manifatturiera della seconda rivoluzione industriale che determinava a sua volta enormi economie di scala, così è accaduto alla fine degli anni '90 del '900, a partire dalla dissoluzione dell’URSS.

Da una parte le continue delocalizzazioni produttive nei Paesi a più basso costo del lavoro fino all’ingresso della Cina nel Wto e dall’altra la competizione distruttiva determinata dalla terza rivoluzione industriale basata sull’ICT hanno indotto un’enorme pressione sia sui salari sia sui prezzi: anche il miglioramento tecnologico delle merci è stato svenduto.

Ma fu soprattutto l’ingresso di nuovi produttori a basso costo del lavoro a stroncare finalmente i processi inflazionistici «da domanda», che dapprima negli Usa e poi in Europa erano stati determinati fino agli anni '80 dalle crescenti rivendicazioni salariali.

Due violente fiammate inflazionistiche «da costi», la prima nel 1973 e la seconda nel 1980, furono invece causate dall’aumento del prezzo del petrolio: le tensioni geopolitiche sottostanti andarono a modificare strutturalmente le ragioni di scambio e i rapporti di forza tra i Paesi manifatturieri e quelli produttori di petrolio.

Per quanto riguarda l’Italia, mentre la prima crisi petrolifera fu assorbita mediante una consistente ma transitoria caduta del prodotto e poi con la ristrutturazione delle produzioni e la riduzione dei consumi ad alta intensità energetica, la seconda crisi fu affrontata ben diversamente: una politica fiscale seppur moderatamente espansiva contribuì alla perdita di controllo degli aggregati monetari.

La forte inflazione «da costi» imbarcata dall’estero si sommò a quella interna preesistente «da domanda» che era alimentata contemporaneamente dal deficit pubblico strutturale, dal suo finanziamento con nuova moneta e dal meccanismo iterativo della scala mobile salariale. Fu un inferno.

Per l’inflazione di questi mesi si deve rammentare che all’origine c’è un vertiginoso aumento del prezzo dei prodotti energetici, delle materie prime e dei prodotti agricoli.

C’è dunque un’inflazione «da costi»: dai prezzi all’importazione cresciuti in pochi mesi anche più del 20-30% è derivato un aumento del 5-6% del livello generale dei prezzi al consumo. Si sono aggrovigliati i fattori più diversi: le tensioni geopolitiche nei confronti della Russia non militano a favore di un aumento incondizionato delle sue forniture di gas all’Europa; i Paesì aderenti all’Opec+ hanno l’assoluta necessità di recuperare le enormi perdite di ricavi accumulate nel biennio scorso per via del crollo dei consumi determinato dalla crisi sanitaria; la transizione energetica decisa da Cop26 per salvaguardare gli equilibri ambientali, con la conseguente messa al bando a medio termine delle fonti fossili, sta rappresentando per i Paesi produttori una minaccia esistenziale, la strategia green dell’amministrazione Biden ha drasticamente ridimensionato le precedenti ambizioni di usare a fini strategici le risorse energetiche risultanti allo sfruttamento dei giacimenti di scisto.

Le tensioni sui prezzi, sulla catena logistica e sugli approvvigionamenti si sono presentate non appena l’economia mondiale ha cominciato a riprendersi dopo l’affievolimento della crisi sanitaria, cioè dalla metà di quest’anno.

Alla politica monetaria, ancora estremamente accomodante in termini di liquidità aggiuntiva e di tassi nominali addirittura negativi, si è aggiunto il contestuale e generalizzato sostegno alla domanda aggregata da parte dei bilanci pubblici, tutti in forte deficit, con la riduzione delle tasse, il sostegno ai redditi più modesti e dunque ai consumi, la ripresa di investimenti infrastrutturali per favorire la transizione ambientale tecnologica.

Politiche monetarie e fiscali concordi e fortemente espansive stanno dunque magnificando gli effetti dell’aumento dei prezzi sui mercati internazionali dei prodotti energetici, delle materie prime e delle derrate agricole, che sono assai influenzati dall’uso degli strumenti di intermediazione finanziaria.

È sintomatico al riguardo l’andamento dei prezzi dei cereali, al rialzo nonostante la produzione dell’ultima annata agraria sia stata complessivamente superiore a quella della precedente.

Secondo l’Usda (United States Department of Agricolturé), nel 2021 la produzione mondiale di grano è aumentata di ben 4,5 milioni di tonnellate (mt), passando da 775,8 a 780,3. Nel frattempo rispetto a dicembre scorso i future sul frumento sono passati da 588 a 825 dollari per tonnellata.

Addirittura meglio è andata la produzione del mais, con un incremento di 80,7 milioni di tonnellate, passando complessivamente da 1.117,1 a 1.197,8 mt: ma, anziché scendere, il prezzo per tonnellata è salito da 403 a 578 dollari.

Cambiano i prezzi e chi può approfitta per recuperare i margini scaricando i rincari a valle, in un processo opaco e totalmente fuori controllo, non solo verso i consumatori finali ma soprattutto nei rapporti tra le imprese e tra i diversi Stati, Tutti contro tutti.

Se salgono i prezzi del grano, della benzina o della elettricità non è colpa dei consumi spropositati ma della liquidità immessa dalle banche centrali praticamente senza soste da oltre un decennio: non rimane più confinata nell’ambito finanziario investita in azioni quotate ormai a livelli assai elevati in termini di rapporto prezzi/utili né tantomeno in titoli di debito che hanno rendimenti nominali negativi.

Si riversa a fiumi intermediando le transazioni dei prodotti energetici, delle derrate alimentari e delle materie prime: se questi prezzi salgono a livelli stellari, come è stato finora per gli indici di borsa, è per la troppa moneta in giro, irrimediabilmente svalutata.

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