A leggere i titoli dei peggiori giornali di regime sembra che la “rivalutazione degli assegni pensionistici” a partire dal 1 gennaio produrrà effetti formidabili. E che naturalmente sia tutto merito di Mario Draghi e, a seguire, dei vari partiti della maggioranza totalitaria che lo sostiene.
Andiamo perciò a guardare le cose da vicino.
L’adeguamento è un fatto dovuto e, diciamo così, automatico. Dipende dal tasso di inflazione, che da qualche anno era a zero o quasi (in qualche momento persino sottozero) e dunque non aveva provocato alcun adeguamento.
Non che i prezzi fossero rimasti fermi, ma il “paniere Istat” (un certo elenco di merci e servizi ritenuti indispensabili) non comprende l’universo merceologico. Ragion per cui non ogni aumento veniva registrato come suscettibile di provocare un adeguamento anche delle pensioni.
Il 2021 ha rivisto crescere invece un tasso ufficiale di inflazione dell’1,8%, molto inferiore a quello reale sui beni indispensabili (il famoso “carrello della spesa), e non tiene ovviamente conto dei fortissimi rincari delle bollette che diventeranno visibili soltanto nel nuovo anno.
Dunque il meccanismo automatico di rivalutazione ha partorito un aumento dell’1,7%. Ovviamente si tratta di una percentuale cui bisogna applicare le detrazioni Irpef (nazionali, regionali e comunali), e dunque va considerata al lordo.
Un secondo meccanismo “positivo” dovrebbe essere rappresentato dalla riforma delle stesse aliquote Irpef, decisa dal governo e in via di approvazione da un Parlamento che non ha neanche il tempo di leggere i testi che deve votare.
E dunque sappiamo che fino a 15.000 euro lordi annui non cambia assolutamente nulla (23%). Lo scaglione compreso tra 15mila e 28mila euro passa invece dal 27% al 25%, mentre la fascia 28-50mila cambia aliquota dal 38% al 35%.
Scompare l’aliquota al 41% e resta al 43% quella per i redditi sopra i 50.000.
Naturalmente queste aliquote si applicano per la quota di reddito eccedente lo scaglione precedente, altrimenti un reddito poco superiore – per ipotesi – ai 15.000 euro verrebbe falciato da una tassa maggiore e quindi, per assurdo, produrrebbe un reddito netto inferiore.
Calcoli relativamente complessi, ma che fanno dire ai giornali: “si sommano due meccanismi redistributivi, quindi gli assegni saranno più ricchi”.
Il problema è cosa si intendere per “ricchezza”, a questo mondo.
La pensione minima, per esempio, passerà dagli attuali 515,58 euro mensili a 524,34 euro, mentre l’assegno sociale sale da 460,28 a 468,10 euro mensili. Meno di 9 euro nel primo caso e meno di 8 nel secondo. Roba da darsi alla pazza gioia, no?
Appena sopra questa soglia da fame nera, i titolari di pensioni (o di salario) fino a 15.000 euro annui riceveranno soltanto l’adeguamento dell’1,7% lordo, perché per loro l’aliquota fiscale resta al 23%. Per capirci: chi prende 10.000 euro annui vedrà salire la cifra lorda a 10.170, cui vanno tolti 2.339 euro di Irpef, per un totale netto di 7.831 euro netti annui. Fin qui ne aveva presi 7.700: quasi 11 euro in più al mese, dunque. Come fai a non darti allo champagne?
Salendo nelle fasce di reddito gli effetti diventano leggermente migliori, ma non di tanto e comunque solo fino ai 2.062 euro mensili, quota oltre cui la “rivalutazione” dell’assegno pensionistico diventa minore (l’1,53% invece dell’1,7) e così via a salire.
Contemporaneamente c’è l’effetto della riforma fiscale, e quindi scende – di poco – anche la sottrazione dovuta all’aliquota, per un effetto finale di qualche centinaio di auro annui, al massimo.
Insomma, incrementi con i quali non si riuscirà nemmeno a far fronte all’aumento delle bollette, non parliamo poi del “carrello della spesa”.
In chiusura c’è da sottolineare il meccanismo profondamente ingiusto alla base di questa pseudo “redistribuzione”. Come abbiamo visto si concede una miseria alle fasce medie (stiamo parlando di lavoratori dipendenti o ex, non di “ceto medio” o piccola borghesia), e nulla a quelle più povere. Con automatismi che approfondiscono le diseguaglianze anche quando promettono di redistribuire.
Il prezzo di una qualsiasi merce, infatti, è uguale per tutti: poveri, “galleggianti”, benestanti e ricchi sfondati. Ma è il reddito a fare la differenza davanti allo stesso bancone. E i meccanismi esistenti, confermati e rafforzati anche dal governo Draghi, accentuano le differenze di reddito.
L’unico meccanismo parzialmente “redistributivo” sarebbe insomma l’aumento uguale per tutti, in termini assoluti (esempio: 100 euro al mese in più su ogni assegno, sia basso che medio-alto). Oppure a scalare, diminuendo man mano che il reddito sale. Ma non questa schifezza delle percentuali minime sul niente.
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