Tutti i governanti della UE stanno lanciando il nuovo hashtag politico: economia di guerra. Che poi vuol dire la guerra nell’economia.
Dal 1914 ad oggi economia di guerra vuol dire due scelte di fondo. La prima è la riconversione bellica del sistema produttivo. La seconda è la redistribuzione ulteriore delle ricchezze a danno della grande maggioranza della popolazione e favore di piccole minoranze di super ricchi, soprattutto quelli che con la guerra faranno giganteschi affari.
Profitti di guerra ed ingiustizia sociale dilagano assieme.
Così ora ci addestrano alla ineluttabilità dei tremendi sacrifici che ci pioveranno addosso per finanziare l’economia di guerra, di cui uno dei primi pilastri è il riarmo.
La Germania ha già annunciato un mega investimento di 100 miliardi in armi.
Ora il vertice UE di Versailles fa suo quell’obiettivo della NATO che, con la sua nota brutalità, Trump aveva rivendicato agli alleati europei: almeno il 2% del PIL speso per le armi.
L’Italia nel precedente decennio ha costantemente aumentato la spesa militare, compensando questi maggiori costi con i tagli alla sanità e alla scuola. Una bella “scelta di civiltà” e Draghi ha recentemente affermato che che bisogna spendere ancora di più per armarci.
L’ultimo bilancio militare dell’Italia ha fatto toccare per la prima volta la spesa di 26 miliardi all’anno. Ora, se obbediremo alle direttive congiunte UE e NATO, dovremo portare questa spesa a circa 40 miliardi all’anno.
Un aumento spaventoso, 14 miliardi per anno, 140 miliardi in dieci anni. Nel decennio precedente, che pure ha prodotto i danni sanitari e sociali che abbiamo vissuto nella pandemia, l’incremento era stato di “soli” 37 miliardi.
Quindi sanità, scuola, pensioni, servizi pubblici saranno ancor più devastati per armare il paese.
La guerra è un crimine e l’economia di guerra il suo primo complice.
No al riarmo, no alla economia di guerra, no alla guerra.
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