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14/05/2023

Cultura, formazione e ricerca

Nel febbraio del 1990 Romano Alquati è stato invitato dagli studenti della Pantera torinese a confrontarsi con i temi e le questioni poste dal movimento universitario. Alquati, com’era sua abitudine e suo metodo, non si preoccupa di blandire chi l’ha ospitato; al contrario, problematizza e mette a critica le parole d’ordine del movimento, approfondendo nodi politici decisivi legati alla scuola e all’università: dalla formazione al sapere merce, dall’industria della cultura alla soggettività studentesca. All’interno della nostra cartografia dei decenni smarriti pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Alquati, in quanto importanti elementi di riflessione per analizzare il passaggio tra gli anni Ottanta e Novanta. L’intero confronto, successivamente trascritto e fatto circolare da Velleità Alternative nel 1994, a giugno verrà pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi.

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L’università è degli studenti?

Non credo che i nostri padroni vogliano privatizzare la ricerca universitaria molto più di quanto già non sia. Però, a differenza di voi quando dite «l’università è degli studenti», quando loro dicono «l’università è nostra», secondo me hanno più ragione loro; e soprattutto quando dicono che l’università è del popolo italiano e tanto più di quella parte che non ne fruisce, è come se dicessero che essa è loro perché lo stesso «popolo italiano» è di fatto loro. Perché il popolo lo possiedono parecchio, sebbene non del tutto.

Quella degli studenti sull’università che appartiene a loro è un’affermazione ridicola, buffa, anche come utopia: la scuola non è degli studenti, non c’è nessuna possibilità neanche a medio termine che lo sia. Se in qualche modo un po’ lo è ancora, nelle sue pieghe, lo sarà sempre di meno nel prossimo futuro. E gli studenti non potranno farci niente, senza un enorme salto di qualità del movimento. Salto che non è in vista.

Ma si vede che gli studenti universitari del Nord accettano abbastanza la prospettiva di modernizzazione per la quale premono anche gli imprenditori industriali, malgrado le sue contraddizioni, e questo punto non va rimosso. La scuola è di quelli là, ne hanno il possesso i padroni; finché è così, se loro si trovano a parlare di scuola e fissano una strategia di lungo periodo per trasformarla, bisogna starli a sentire. E infatti la maggioranza degli studenti va (addirittura) dietro a loro, e non dietro alla Pantera.

Quali obiettivi per la scuola e la formazione?

Ho detto: il problema per le imprese è di efficienza e di efficacia: ma, richiedo, per quali meta-obiettivi? A voi la risposta.

Intanto, comunque, preparano una scuola macchinizzata e neotaylorizzata, non lontanissima dal modello giapponese anni Ottanta, pre-toyotista. Per ridurne innanzitutto i costi, ma compatibilmente con un’idea obsoleta e negativa dell’utilità di questo servizio riproduttivo di capacità attiva umana, e poi pure idea obsoleta del modo di incrementarla qui dentro. Proprio questo piace ai «riformatori», miopi e in ritardo culturale. Ma è da un lato pazzesco che piaccia anche agli studenti, e dall’altro che se ne disinteressino le varie pantere e panterine: segno che entrambe le componenti studentesche (minoranza rumorosa, di suoni e canti, e maggioranza silenziosa e accettante) non dispongono di idee e strumenti adeguati per capire qual è qui la vera posta in gioco. Il problema ulteriore poi per i padroni «privati» è, come dicevo, che la scuola è pure un servizio pubblico, con questo Stato e questa pubblica amministrazione; e ciò per ora resterà abbastanza così, pure per loro, per qualche anno, non sarà cioè sostanzialmente modificato dalla riforma che adesso vogliono e faranno passare per gradi. Una riforma prevalentemente organizzativa, quindi non vertente granché e direttamente sul metodo didattico.

Ora due ordini di domande ci si impongono subito: l’università è davvero un servizio? E come, perché, con che conseguenze e in che senso è pubblico? Tuttavia, si tratta di questioni già di ordine relativamente secondario. Il centro della faccenda e il problema di primo ordine sono i modelli pedagogici. Con quali modelli pedagogici e organizzativi, e in specie di organizzazione didattica, devono funzionare l’università, la scuola, in generale tutta la formazione separata e specializzata? Qui dovrebbe venire a nudo una divaricazione di scopi, di aspettative e di modelli. Ma quale Pantera pensa in primo luogo a questo, al rapporto tra scopi della formazione e modelli pedagogici e solo poi organizzativi?

[…] Fuga dai problemi veri e aperti

Come sono allora gli studenti nella facoltà e come si pongono rispetto ai professori? La questione fondamentale è di capire come oggi reagisce lo studente universitario tipico di fronte a qualcuno che gli ponga un problema, e perché. Il sessanta per cento di fronte al fatto che gli si pone un vero problema risponde con la fuga repentina: questa è la situazione maggioritaria, ma forse non assolutamente prevalente[1]. Di fronte a un problema «solo» il sessanta per cento fugge; però fugge angosciato, non nell’indifferenza! Fugge perché ha fiutato qualcosa che non capisce, è in crisi e non sa reggere di fronte all’esistenza di un problema vero, ossia un problema non pre-risolto. Lo studente universitario arriva già formato dalla scuola media in un modo per cui il problema lo terrorizza, gli dà l’angoscia, il senso del vuoto, perciò non lo regge e scappa. L’altro quaranta per cento rimane, ma perché si attende che l’insegnante risolva senz’altro quel problema che ha proposto, che ne abbia già la soluzione. Però se il problema alla fine rimane aperto la grande maggioranza ti giudica un cattivo docente. [...]

Università critica

Cambio di nuovo direzione, ma solo in apparenza. La malizia è ora soprattutto quella di chi chiede: come può l’«università critica» andare d’accordo con una popolazione studentesca come questa – specchio di quella esterna – che di fronte a un problema aperto fugge veloce come un razzo? Anche qui, non risolverò nessun problema.

«Università critica»: è anche uno slogan di certe pantere, in specie meridionali (le migliori pantere sono soprattutto meridionali!). Dal mio punto di vista questa espressione crea un mare di equivoci. L’aggettivo critica assume svariati significati, anche molto distanti, il che è evidente a priori. Anche se qualcuno dirà che spesso nel parlare di certuni l’uso di questo aggettivo è frutto di un compromesso politico fra le ortodossie di varie frazioni e componenti, il che tra l’altro è vero[2]. Tuttavia l’espressione «università critica», ereditata dal passato, cosa vuol dire all’atto pratico? Qui incontriamo una contraddittorietà del sistema neomoderno attuale, ovvero ipermoderno.

Qui si vede subito che ci sono le idee più diverse su che cosa significa critica, il che in sé non è certo un male. Tanto più se vi è consapevolezza di ciò. Ad esempio, secondo me l’«università critica» è proprio quella che non risolve tutti i problemi, ma accetta e propone la dimensione della problematicità come tale. Quindi non si propone di tirare fuori le formule che rispediscono le persone laureate a vivere la vita nel sociale con in testa la formula risolutiva appresa a memoria, da applicare automaticamente; formula che permette di realizzare gli obiettivi di successo, garantito (almeno in buona parte) dall’applicazione procedurale di formule già esistenti e modelli esogeni. E qui si riaffaccia la suddetta contraddittorietà. Ripeto ancora, l’università critica è piuttosto quella che fa una didattica che tiene aperti certi problemi, sviluppa la problematicità in quanto tale, insegnando da un lato a cercare e trovare da sé (pensando, immaginando, inventando e riflettendo, anche collettivamente e nell’esperienza) soluzioni originali dei problemi; e in caso contrario, insegnando a convivere con i problemi. Imparare dai propri errori, imparare dall’esperienza ed esperire a esperire.

In fondo critico vuol dire che mette in crisi: insegnare a passare per momenti di crisi, per la propria crisi, a usarla, per crescere. Insegnare e apprendere a convivere con problemi aperti, a cercarne le soluzioni, anche originali, nuove, proprie, a un polo. All’altro polo, opposto, insegnare le metaprocedure risolutive già esistenti. Però, almeno a metà tra i due poli: apprendere e insegnare pezzi di soluzione e ad applicare le presoluzioni parziali già esistenti di classi di sotto-problemi analoghi, che hanno una certa similitudine, relativamente ricorrenti, o almeno della loro strutturazione, criticamente. Ossia mostrando nel merito e nel metodo, ad esempio, come quelle soluzioni parziali siano state originalmente inventate, e poi come e perché banalizzate e standardizzate, e grazie a cosa. E poi i limiti, i significati, le potenzialità di ciò. Ecco, almeno in questa dimensione intermedia funziona già un significato debole dell’aggettivo critica (rispetto a quello più forte del vivere con i problemi aperti, e attraversando crisi), che potrebbe orientare un grande primo passo avanti dell’apprendere e insegnare, almeno universitario. Ritornerò su questo punto.

Attenti: come ho già detto, non si deve certo escludere la soluzione automatica e banale, quindi la sproblematizzazione dell’agire umano. L’ho già accennato e lo ripeto: una certa routinarietà ci vuole e va benissimo. Ma nemmeno possiamo ridurci ad attuare sempre solo questa: è inaccettabile per noi, come genere umano! Ci vogliono entrambe le cose insieme. Questo è e deve essere l’orientamento strategico giusto, per insegnanti e studenti, e a questo devono guardare la didattica, i metodi pedagogici, l’intera formazione. Tuttavia, proprio questo è sempre più difficile e raro nel nostro agire in questa società. E per precise ragioni, sistemiche. Allora, quella che manca è la capacità non procedurale e davvero euristica, soprattutto creativa, inventiva, esperienziale, nella riflessione critica. Ed è quella che ci manca. Quindi, è quella su cui concentrarci. Oltre alla questione di dove sia finita la fondamentale capacità simbolica vera (non quella segnica), oppure la capacità di esperire, che per il fatto che caratterizzò altre precedenti civiltà, al pari dell’oralità (non certo estinta), non solo non cessa di servire[3], ma è adesso alquanto da rivalorizzare[4].

Qui ci sarebbero molti problemi, soprattutto rispetto ai docenti e alla facoltà di Scienze politiche, la quale da sempre si fregia del definirsi una «facoltà critica», dove si userebbero metodologie critiche, didattica critica. Il che ha una sua piccola verità, almeno a confronto con altre facoltà universitarie, ma verità molto parziale e limitata. Chissà che avverrebbe tra docenti se qualcuno proponesse davvero qualcosa di critico, per chiarirsi le idee in concreto sul suo significato nella didattica e nel metodo pedagogico, che è la cosa più importante. Era evidentissimo che quando i docenti a un convegno di facoltà nei giorni scorsi dicevano «noi la didattica critica la stiamo già facendo», ponevano almeno la questione di che cos’è critico secondo loro, ossia un bel problema[5].

Veniamo dunque a una serie di problemi non nella prospettiva del problem solving, ma semmai nella fase precedente, quella su cui Herbert Simon non è stato capace di dire molto. Si comincia dunque con il problem setting, che non è risolvere il problema, bensì identificarlo per capire dove sta e qual è davvero il problema, strutturandolo. Suscitandone così altri, aperti. Però non trovando subito la soluzione, e nemmeno nell’arco della nostra vita terrena. Però avvicinando alla soluzione i nostri discendenti. Questo non vi interessa? Peccato!

La questione per molti studenti del movimento non è ancora risolvere il problema, ma passare dal disagio e dalla confusione grande all’identificazione di alcuni problemi. Io ora questo passaggio non lo risolvo davvero, però può essere anche qui un orizzonte, implicante obiettivi ancora un po’ lontani, che tuttavia ci si può proporre di approssimare. […]

Capacità intellettuale e cultura: le merci odierne più tipiche

Oggi succedono alcune cose che caratterizzano il nostro tempo, almeno nel Nord del mondo: mondo tutto capitalistico e sussunto. L’iperproletariato neomoderno in Italia è ormai un proletariato prevalentemente intellettuale; viceversa, la capacità intellettuale, il sapere, la conoscenza e la cultura sono oggi le merci più centrali e tipiche per il sistema: sia calde, nel corpo dei viventi, sia fredde, accumulate nelle memorie del sistema come capitale mezzi. Allora, anche il sapere e la conoscenza «intellettuale» da anni sono mercificati e assai mezzificati, oltreché combinati; perché la mercificazione serve anche alla mezzificazione.

Cosa sta succedendo da alcuni anni nel Nord del mondo? Nella stagnazione crescente, dovuta al fatto che il mercato dei beni di consumo durevole e voluttuario è ormai saturo e procede solo nella sostituzione forzata, la cultura merce e il consumo culturale diventano l’unico consumo individuale e singolare che ora si possa aggiungere al consumismo di massa, nella distruttività. Con il limite di un consumismo aggiuntivo, integrativo. Ciò avviene anche laddove richieda un certo macchinario[6], con la relativa semplicità dei supporti, o quando si spingano al limite aberrazioni regressive e distruttive come il collezionismo. Tuttavia ci sono limiti intrinseci alla fruizione culturale: malgrado in teoria la grande elasticità di questo consumo sia pressoché infinita, in vero questo consumismo culturale non sembra dar luogo ad aziende processive e non riesce da solo a essere traente di una nuova fase di sviluppo e di accumulazione, come lo è stata l’automobile[7]. Per quanto sia un consumo che smuove e assorbe il movimento di molti importanti settori della tecnologia e in parte anche della scienza applicanda, il consumo culturale – ancorché consistente nell’attuale accumulazione di capitale – non riesce ancora a rompere il ristagno odierno. Da questo punto di vista il mitico Eliseo berlingueriano spesso ricelebrato non offrirebbe molto al capitalista collettivo. E sottolineo ancora quel che ho già detto prima: a partire dagli anni Sessanta in tutto il mondo, anche in Italia, il consumo è un’attività che si è spezzata in due grandi e differenti funzioni, come non avveniva prima. Una funzione del consumare si è staccata dalla riproduzione, per cui abbiamo un consumare che è ancora riproduttivo, e un consumare nuovo che invece non è più riproduttivo di capacità umana, bensì distruttivo (realizzativo). Quest’ultimo è in gradissimo sviluppo contro il primo.

Il consumare riproduttivo di capacità io lo chiamo riproduzione: la riproduzione senza aggettivi. Ed è la riproduzione di quella solita capacità attiva umana che è una merce. Il cui sviluppo non procede molto. Parallelamente si è sviluppato un altro settore che si può chiamare consumo nel vero senso della parola, perché distrugge più che trasformare: distrugge non solo le merci ma soprattutto il consumatore, il suo reddito e il suo tempo di sopravvivenza. Si può ipotizzare che sin dall’inizio il consumo capitalistico tendesse lì ma che solamente ora vi pervenga, nel nuovo consumismo; si può perciò ipotizzare che la natura effettiva del consumo capitalistico si sia dispiegata quando il consumo si è liberato dalle funzioni riproduttive più proprie di un trasformare e incrementare, diventando un consumare e distruggere vero e proprio.

Il consumo vero e proprio ha una funzione che, usando una terminologia di alto livello, si potrebbe dire di sola realizzazione del sovrappiù; usando un linguaggio diverso, la chiamo una «funzione distruttiva» di ricchezza. La funzione del consumo solo realizzativo è di distruggere valore d’uso, utilità, ricchezza in generale. La ricchezza – a differenza del capitale, ma al suo interno – sta nella dimensione del valore d’uso, è un insieme di valori d’uso disponibili. Quindi, dico che il consumo oggi è sempre più consumo distruttivo e distruzione di ricchezza. All’inizio ciò è stato colto e visto moralisticamente, come ad esempio avviene ancora nei dibattiti odierni sull’unificazione della Germania e sull’integrazione dell’Europa dell’est nel nostro capitalismo.

Tra l’altro, continuiamo con questo esempio in apparente digressione. Qualcuno ha chiesto: «perché non può essere la Germania unita un’area disarmata?». Gli hanno risposto: «noi dove distruggiamo tanta ricchezza negli armamenti (se non per loro obsolescenza) se non militarizzando aree e inventando minacce militari cui rispondere? Faremo la guerra anche inventandoci nuove minacce esterne se non riusciamo più a farla distruggendo e ricostruendo ricchezza, perché non abbiamo più il pretesto dell’ideologia e della minaccia comunista, essendocene ormai una sola di ideologia, onnipresente». «Inventeremo altre ideologie contrapposte», diceva ieri un ministro giapponese, «dobbiamo inventarle». Dunque: «inventiamo degli altri pretesti e degli altri nemici minacciosi per armarci, magari senza fare la guerra qui». L’idea della minaccia produce paura, paura di chi è fuori[8]. Ciò per produrre altri armamenti: infatti gli accordi recenti di disarmo atomico hanno rilanciato un ammodernamento in quei missili nucleari di corto raggio che molti credono soppressi, per cui spendiamo in armi più di prima anche in quel settore. Faremo distruggere gli armamenti dal tempo, dall’obsolescenza, distruggendo così infinita ricchezza pur realizzando infinito sovrappiù, senza dipendere dal consumo distruttivo proletario nella vita quotidiana. Difendendo anche per questa via il nostro dominio. Ma se non basterà li distruggeremo anche nella guerra, dove si distrugge tantissima altra ricchezza, spesso irreversibilmente. Ebbene, molta ricerca intellettuale e culturale serve in verità agli armamenti e alla guerra. A partire dagli armamenti il discorso della funzione distruttiva del consumo si sviluppa ed entra nel consumo quotidiano della gente.

Infatti, non ci sono solo le armi e la guerra per distruggere «inutilmente» ricchezza; c’è, ad esempio, anche il nostro consumismo e la moda. La moda nel nostro capitalismo è diventata un fatto strutturale: serve a farci buttare via merci intonse e in-consumate, soprattutto a farcene comprare di nuove malgrado abbiamo le case piene di merci non ancora usate o consunte. Essa è molto distruttiva, nella dépense di massa; ma proprio per questo ci piace, ci rassicura. E così serve al progresso. C’è moda di massa anche nel consumismo culturale, c’è moda perfino nella formazione. Per cui buona parte della vita della gente è asservita al sistema capitalistico non solo per produrre le merci di cui parlavo, ma anche poi per distruggerle. Perché se queste merci non si distruggono prima del tempo, cioè prima che siano davvero consunte, prima che abbiano perso il loro materiale valore d’uso, non se ne domandano altre nuove, dunque non se ne producono in misura sufficiente da mantenere certi tassi di sviluppo e quindi occasioni di investimento. Il sistema si sente soffocare dai rifiuti per domanda insufficiente, malgrado il consumismo distruttivo crescente, estesosi adesso alla merce culturale. E se questi tassi di sviluppo scendono sotto una certa soglia è la stagnazione, la crisi strutturale.

Non si tratta di un fatto congiunturale, bensì stabile. Il ristagno è ormai una dimensione permanente: bisogna fare politiche economiche che riescano a far distruggere valore d’uso nel Nord del mondo, in modo da poter rilanciare il ciclo. Semmai c’è la contraddizione che per far consumare distruttivamente bisogna dare reddito. Da qui la crisi del fordismo (di nuovo: salario come reddito in contraddizione con salario come costo). Bisogna distruggere ricchezza pure in presenza di una crescente povertà strutturale, tagliando il salario – che è reddito nostro ma costo per il padrone.

Quindi, la distruttività ha una strutturalità fondamentale nella produzione del capitale. E ce l’ha pure la nostra distruttività, quella che ci distrugge. Non riguarda solo la distruzione del pianeta, delle foreste, della natura, dei panda, ma la distruzione generale di valori d’uso che funzionerebbero benissimo per altri mille anni e che invece devono essere distrutti. Tuttavia, nel capitalismo e nella sua conflittualità si persegue anche e soprattutto la distruzione di ricchezza di capacità attiva umana. Distruzione di noi.

Però se le merci sono quelle culturali, a un certo punto c’è anche una distruttività nell’iperconsumismo culturale che funziona come autodistruzione diffusa iperproletaria, di cui la droga è solo la punta dell’iceberg. Ciò ha per protagonisti ancora una volta i soliti personaggi del pubblico universitario, che funzionano da un lato come iperproletari in quanto futuri lavoratori produttori, dall’altro fin da subito come consumatori distruttori e autodistruttori (e i distruttori più formidabili e malleabili nel sistema capitalistico sono i bambini e i giovani).

La distruttività e l’autodistruttività nel «consumo culturale» sono un altro bel tema. Ma il fatto da sottolineare è che anche qui di formazione di capacità attiva umana ce n’è poca, e molto spesso non bilancia quel che vi si distrugge. Ripeto: la capacità umana, diventata inutile all’artefattura macchinizzata del capitalismo odierno, è ridotta prima agli usi ludici e poi si estingue.

Un esempio, non casuale. Oggi fruiamo quasi solo sensazioni ed emozioni, assai superficiali e separate, e separatamente dal resto, e altrettanto così siamo fruiti. Non sono formative le sensazioni, le emozioni in sé e per sé, separate dal resto. Chiediamo almeno fruizioni ricompositive, non tanto della nostra capacità segmentata e distribuita sui ruoli molteplici ma tutti vuoti; riusciamo a chiedere che in ciascun ruolo della vita quotidiana anche frammentario il capitalista collettivo trionfante sia magnanimo e ci consumi una capacità ricomposta, seppure come capitale umano? So che sulla ricomposizione molti di voi non sono d’accordo. I giovani sopravvivono più di altri scomposti in pezzettini. Ma ci tenete davvero alla vostra vera formazione?

Note

[1] Evidentemente in Giappone scapperebbero tutti, perché il giapponese medio (prima del toyotismo che si annuncia) non incontra più un vero problema da almeno trenta o quarant’anni, se non nelle sedi dove c’è un particolare tipo di umanità e in casi d’emergenza. E sulla scuola giapponese c’è molta confusione: c’è chi la mette al primo posto nel mondo, c’è chi invece la mette addirittura all’ultimo, dipende dai criteri di valutazione. Io sono con i secondi e la metto in fondo alla fila.

[2] Essendo questa parola identificante certe microaree.

[3] Anche nella quotidianità neomoderna, ma di più nei momenti di crisi, nella nostra epoca e civiltà capitalistiche.

[4] Se non altro da parte di chi da questo sistema voglia uscirne, collettivamente.

[5] Perché nelle visioni e concezioni dominanti, tra gli intervenuti e coloro che assentivano, di davvero critico non c’era proprio niente.

[6] Si pensi al consumo di musica mediante stereo, o alle videocassette di film, documentari, balletti, teatro, o ancora al turismo culturale ecc.

[7] Nemmeno come industria dello spettacolo: spettacolarizzazione della cultura, anche oltre la concezione umanistica.

[8] Così, parlando di multietnicità e multirazzialità, si pone l’accento e si valorizzano dimensioni delle quali fino a ieri non gliene fregava niente a nessuno, tanto che si potrebbe dire che neppure esistevano. E per noi era meglio.

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Romano Alquati (1935-2010) è autore di numerosi articoli e saggi, una parte dei quali è tuttora inedita. Tra le sue principali pubblicazioni si segnalano Sulla Fiat e altri scritti (1975), Dispense di sociologia industriale (1989-92), Lavoro e attività (1997).

Fonte

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