Oggi è il 7 Novembre, anniversario della Rivoluzione che ha “sconvolto il mondo”. Le visioni delle Rivoluzione d’Ottobre con cui abbiamo dovuto fare i conti in questo secolo, possono essere riassunte in almeno due narrazioni:
1) Per la borghesia è stato né più né meno che un colpo di mano, un colpo di stato, da parte dei bolscevichi che hanno così impedito una via d’uscita liberale al crollo dell’autocrazia zarista.
2) Per la “sinistra” è stata una rivoluzione tradita dai suoi sviluppi successivi. Nasce da qui l’ipocrisia dell’antistalinismo che ha impregnato gran parte dell’elaborazione della sinistra occidentale, inclusa quella alternativa.
Contro queste due visioni è stato bene combattere nei decenni scorsi e lo è altrettanto oggi. Soprattutto se, giustamente, si intende riaprire o mantenere aperta la questione della “Rivoluzione in Occidente” che rimane la contraddizione aperta da quando la Rivoluzione d’Ottobre si trovò da sola a dover gestire la rottura rivoluzionaria nell’anello debole della catena imperialista nel 1917.
Non possiamo nasconderci che esiste anche una terza attitudine, più genuina ma altrettanto fuorviante, che è quella di ridurre l’esperienza rivoluzionaria, la concezione del partito leninista e il processo di transizione al potere proletario, ad una sorta di manuale per le istruzioni.
Negli scritti di Lenin e del gruppo dirigente bolscevico ci sono analisi e intuizioni decisive e dirimenti, alcune di straordinaria attualità. Ma non possiamo trascurare il fatto che la Rivoluzione d’Ottobre è stata la prima nella storia dell’umanità che ha portato al potere la classe lavoratrice senza poter avere a disposizione altre esperienze da cui trarre lezione. L’unica ascrivibile come tale, anche se sconfitta, fu la Comune di Parigi avvenuta quasi mezzo secolo prima.
I bolscevichi, incluso Lenin e il gruppo dirigente, hanno proceduto a tentoni, con tentativi, errori, sperimentazioni, decisioni contraddittorie, sulla base dell’analisi concreta della situazione concreta con cui dovevano fare i conti.
Ritenere che la Rivoluzione d’Ottobre sia riuscita solo perché coerente con l’impianto teorico e analitico del movimento operaio del XIX e del XX Secolo, è una forzatura che nessun manuale di marxismo-leninismo può permettersi di riproporre.
In questo senso possiamo dire che la Rivoluzione d’Ottobre e l’egemonia dei bolscevichi si impongono perché erano la soluzione più credibile dentro una gigantesca lotta per la sopravvivenza ingaggiata dalle masse popolari di un paese sterminato e diversificato come la Russia.
Due gli elementi che dobbiamo prendere in esame. Uno di essi è decisivo: la guerra.
La guerra, nella Russia e nell’Europa tra il 1914 e il 1917, non era solo la brutalità e la ferocia dei combattimenti in trincea. Per società sostanzialmente contadine, le mobilitazioni di massa e gli arruolamenti ordinati dagli Imperi Centrali o dai loro nemici, come la Russia, erano una iattura.
Esse infatti sottraevano braccia all’agricoltura che era dominante. Se centinaia di migliaia di giovani uomini venivano strappati alle campagne perché costretti a farsi soldati, la situazione nelle campagne degenerava.
Non solo. In una condizione materiale di vita strettamente legata all’agricoltura e dunque al clima, le carestie erano all’ordine del giorno. Bastava un inverno più rigido o un estate più secca, per vanificare i raccolti e ridurre alla fame milioni di persone senza altre possibilità di sostentamento.
Il corto circuito tra carestie e svuotamento delle campagne a causa della coscrizione obbligatoria di massa, producevano fame e miseria in misura spesso devastante.
C’era poi la guerra vera e propria. La Prima Guerra Mondiale, la “grande carneficina”, è stata una guerra combattuta con schemi dell’Ottocento (gli assalti di massa) ma con armi moderne (mitragliatrici, aviazioni, cannoni a retrocarica, mine, gas venefici etc).
Il massacro di milioni di giovani uomini nelle trincee in Europa diede alla guerra quella dimensione di massa e di insopportabilità che scatenò il fenomeno delle diserzioni, del rifiuto a combattere, dell’odio di massa verso ufficiali, nobili, ricchi che mandavano al macello sostanzialmente contadini e operai in divisa reclutati in tutta la Russia, anche nelle regioni asiatiche.
La Rivoluzione di febbraio e il governo Kerenski, non compresero affatto questa esigenza di sopravvivenza della popolazione contadina e dei soldati, scegliendo invece di proseguire la guerra iniziata dallo zarismo, e ne furono travolti.
Al contrario i Bolscevichi compresero al meglio che le parole d’ordine di “pace e pane” (non si parlava ancora della terra né della socializzazione dei mezzi di produzione), erano in sintonia con le esigenze di sopravvivenza delle sterminate masse proletarie russe e creavano le condizioni migliori per far evolvere la lotta per la sopravvivenza in lotta per l’emancipazione sociale.
Sta in questo la genialità delle intuizioni rivoluzionarie dei Bolscevichi e di Lenin e le forzature che portarono a scegliere “quel momento” per dare avvio al processo rivoluzionario. Le scelte che operarono non erano definite in alcun manuale né erano state sperimentate altrove.
Il progetto e il processo rivoluzionario dell’Ottobre fu la capacità di un partito sostanzialmente di quadri di intervenire dentro le contraddizioni esistenti e di volgerle in rottura della realtà esistente: prima quella dell’autocrazia zarista che aveva esaurito il suo dominio sul popolo e poi quelle tra le aspettative di sopravvivenza delle masse popolari e la continuità del massacro/miseria incarnato dal governo “borghese” di Kerenski.
La rivoluzione democratica, per i settori sociali che l’avevano egemonizzata, non aveva nelle corde la capacità di andare oltre il parlamentarismo e di guardare nel profondo la pancia vuota e la voglia di sopravvivere di contadini, operai e soldati. I Bolscevichi si, perché erano parte di quel proletariato ed avevano scelto soggettivamente di esserlo.
Ricordare la Rivoluzione d’Ottobre significa cercare di guardarne a tutto campo le conseguenze, le lezioni da trarne e l’attualità. E qui si apre una riflessione.
Nel primo lustro di questo XXI Secolo si stanno manifestando contraddizioni fortissime come la guerra e una crisi sistemica del modo di produzione capitalista che mettono a rischio la vita di milioni e milioni di persone. In quale modo le medesime esigenze di lotta per la sopravvivenza possono trasformarsi in emancipazione sociale?
Guardando con gli occhi della storia la situazione dell’oggi somiglia moltissimo a quella della fine della prima globalizzazione (1870-1914).
La globalizzazione capitalista si era realizzata, allora come oggi, in tutto il mondo attraverso la rete dei domini coloniali. È sufficiente rammentare che anche piccoli paesi come il Belgio disponevano di colonie immense come il Congo o che anche l’Italietta aveva i suoi domini coloniali nel Corno d’Africa e in Libia.
Eppure la “Belle Epoque” finì drammaticamente nel 1914, con le maggiori potenze capitaliste e imperialiste impegnate a scannarsi in guerra prima nelle colonie e poi nelle trincee in Europa.
Stiamo assistendo ad un dominio dell’economia capitalista che prevede e produce continuamente distruzione di eccessi di capacità produttiva, soprattutto nelle fasi di crisi senza soluzioni indolori come quella in corso dalla prima metà degli anni Settanta.
In passato questa distruzione di capacità produttive in eccesso, quando si è intersecata con lo sviluppo disuguale dei poli imperialisti in competizione, con l’instabilità e la politica dei fatti compiuti, ha prodotto guerre distruttive, disastrose e “rigenerative” per il sistema capitalista, vedendo prevalere un polo imperialista sugli altri e declinare quelli che prevalevano precedentemente.
Come ci segnala lo storico Graham Allison, il declino di una potenza imperialista dominante, negli ultimi cinque secoli, ha prodotto in dodici casi su sedici una guerra devastante.
Oggi la capacità produttiva in eccesso sembra concentrarsi sul capitale umano. La ristrutturazione produttiva fondata sull’automazione ha già messo in conto 50 milioni di disoccupati nella sola Europa tra quindici/venti anni.
Lo sviluppo disuguale e la rapina delle risorse sta producendo lo spostamento di masse migratorie crescenti verso i poli più sviluppati. L’invecchiamento della popolazione mette in sollecitazione i sistemi di welfare dei paesi a capitalismo avanzato.
Un eccesso di capitale umano che va ridotto distruggendone quote crescenti. È già accaduto in Russia nei primi anni Novanta, dopo il crollo del socialismo reale e l’avvento di un capitalismo brutale. La Russia è stato l’unico paese ad aver perso popolazione senza una guerra ma solo a causa di miseria e crollo degli standard di salute. Una sorte che sembra profilarsi anche in Italia.
I tecnocrati al comando nei paesi capitalisti lo hanno già indicato come scenario plausibile per ridurre i costi sociali. Una sorta di lento ma pianificato genocidio delle classi subalterne per soggiogarne del tutto quelli condannati al lavoro salariato.
In alcuni casi, come quello palestinese, il genocidio viene condotto manu militare da potenze tecnologicamente avanzate.
Si muore di più e si muore prima semplicemente a causa dell’aumento dell’età pensionabile, della diminuzione degli standard del servizio sanitario a disposizione, dello stress dovuto alle disuguaglianze sociali, dell’avvelenamento del Pianeta e l’infarto ecologico, e poi si muore nelle guerre tornate ad essere mattatoi di esseri umani come quelle in corso in Ucraina e Palestina.
Ma se la lotta di classe diventa anche lotta per la sopravvivenza, come, dove e quando cominciamo a cercare il punto di rottura? “Pane e pace” oggi sembrano slogan efficaci per un secolo fa, ma innescarono una rivoluzione vittoriosa: quella dell’Ottobre 1917.
Decenni dopo vale la pena di guardarvi di nuovo, con occhi attenti, antenne dritte e misurandosi con l’urgenza della soggettività capace di coglierne la spinta e l’esperienza.
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