È necessario avviare da subito una riflessione di fondo se davvero l’obiettivo è quello di costruire un’ampia coalizione costituzionale che in Parlamento e nel Paese si opponga a questo goffo tentativo di cambiare la forma di governo parlamentare modificando l’articolo 92 della Costituzione.
Prima di tutto va chiarito che la scelta del premierato in luogo del presidenzialismo è dovuta esclusivamente da ragioni di carattere anagrafico riguardanti la personalizzazione e la bramosia di potere che si sta esprimendo attraverso la “fiamma magica”.
Tenuto conto che nell’eventuale “coalizione costituzionalista” si annidano molti in passato affascinati dal mito della “governabilità” si tratta di ragionare su di un punto: attorno agli anni’70-’80 del secolo scorso era partito il dibattito sul cosiddetto “eccesso di domanda”: dalla società saliva ormai verso la politica la richiesta di un consolidamento e di un allargamento dei meccanismi universalistici del welfare e salivano di tono le rivendicazioni operaie in tema di salario e garanzie del lavoro; richieste ormai non più riservate a determinate e precise aree dell’Occidente capitalistico.
La risposta è stata duplice: da un lato la spinta a recuperare il ruolo prioritario degli “spiriti animali” del capitalismo attraverso il lancio di una forte controffensiva portata avanti su entrambe le rive dell’Atlantico attraverso le opzioni di un “liberismo selvaggio”; dall’altro lato la spinta a ridurre il rapporto tra politica e società attraverso il taglio del cosiddetto “eccesso di domanda”.
Era nato da questo punto il dibattito sulla “governabilità” e la ricerca di nuove forme – autoritative – di governo e sorgeva anche una distinzione tra “governance”, espressione di un potere articolato sul territorio per rispondere, spezzettando le diverse problematiche, in maniera sostanzialmente neo-corporativa ai bisogni espressi dai ceti sociali più forti e “governament” utilizzato per normalizzare le dinamiche sociali più fortemente conflittuali, attraverso l’espressione di un potere centrale fortemente concentrato e posto, attraverso opportuni tecnicismi che dovrebbero includere anche la legge elettorale, al riparo da dibattiti giudicati inopportuni.
Nessuna risposta, insomma, in termini di allargamento democratico, di ruolo delle istituzioni rappresentative, di presenza dei soggetti intermedi (partiti, sindacati), la cui funzione nel frattempo è stata ridotta al solo rango di selezionatori del personale di governo, provvisti di denaro ed elargitori di “incentivi selettivi” e non certo di soggetti propositori della rappresentanza politica e sociale.
Si sono così smarrite le coordinate di fondo dell’appartenenza sociale e del legame diretto tra questa e l’appartenenza politica, si è perso il ruolo di sede di confronto dialettico da parte del Parlamento e l’idea di “governo” come esecutivo è via, via evaporata fino a ricomparire il fantasma della stabilità: una sorta di “Pax romana” della politica che proprio l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dovrebbe definitivamente istituzionalizzare.
Riflettuto su questi elementi fondamentali allora si può entrare nel merito del grande pasticcio varato dal CdM.
L’impianto complessivo appare delineato ed è evidente che si tratta del superamento della flessibilità/adattabilità delle forme parlamentari di governo introducendo invece elementi “forti” di rigidità (senza dimenticare l’idea di riservare ai soli parlamentari della stessa maggioranza la possibilità di essere incaricati della presidenza del consiglio nell’eventualità di uscita di scena del presidente del consiglio eletto: materia per l’Alta Corte).
Inoltre si insiste sull’impossibilità del voto disgiunto come già avviene attualmente e ci sarà una sola scheda per eleggere entrambe le Camere: elezione collegata a quella del Primo Ministro in entrambi i casi.
Una “voglia” di plebiscito e di “listone” del tutto evidenti.
A questo punto è possibile portare avanti obiezioni molto semplici: la prima attiene alla maggioranza non assoluta che può eleggere il primo ministro che resterebbe così imperfettamente legittimato; la seconda riguarda l’assenza di indicazioni di modalità con le quali la non-maggioranza che avesse eventualmente eletto il presidente del consiglio godrebbe in parlamento del 55% dei seggi; la terza riguarda la macchinosità della procedura di una eventuale sfiducia e il tema del rapporto con il Presidente della Repubblica (che rimarrebbe di elezione parlamentare).
Oggetto di attenta analisi dovrà essere anche il tema del ruolo e dei poteri del Presidente della Repubblica che, in questa situazione, difficilmente potrà “preservare i propri poteri” di fronte a un Presidente del Consiglio forte di una elezione diretta.
La destra di governo non dispone dei numeri parlamentari sufficienti per evitare il referendum confermativo (su cui caddero i due tentativi del 2006 e del 2016) anche inglobando eventualmente i voti dei centristi di Italia Viva e Azione.
È dunque possibile che ci si debba attrezzare per un voto popolare ed è per questo motivo che risultano fondamentali un’espressione radicata di pedagogia costituzionale e una forte attivizzazione sociale.
Per arrivare a quella scadenza raccogliendo le forze sufficienti a impostare un confronto vincente è necessario che dall’opposizione si avvii da subito un ragionamento posto proprio sul terreno del rapporto rappresentanza/governabilità.
Infine costituirà fattore di grandissima importanza il collegamento tra l’opposizione alla “deforma” (copyright Felice Besostri) e la proposta di legge elettorale.
I due temi risultano inscindibili e dovranno essere affrontati tenendo ben conto di una indispensabile premessa circa lo svolgimento di una seria valutazione del rapporto tra governabilità e rappresentanza.
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