L’attentato di Kerman aggrava la crisi in cui versa la proiezione internazionale degli Stati Uniti. Questo è il dato di fatto: sia nel caso in cui Washington sapesse dell’attentato che stava per essere realizzato in Iran, sia nel caso in cui non sapesse.
Nella seconda possibilità si dovrebbe prendere atto di deficit sostanziali nelle capacità conoscitive di Washington.
Nella prima, la Casa Bianca potrebbe aver o dato il via libera all’attentato o non essere stata in grado di sventarlo: ciò implicherebbe che la Casa Bianca non sarebbe in grado di impedire che vengano compiuti attentati contro una potenza nucleare – de facto – tra i principali attori del Vicino Oriente dell’Asia centrale.
Tanto più, considerando il momento ed il luogo dell’attentato: il mausoleo del generale Solemaini, ucciso da un attacco statunitense il 3 gennaio 2020 su ordine dell’allora inquilino della Casa Bianca Donald Trump.
Il momento, quello del quarto anniversario dell’eliminazione del generale iraniano – peraltro all’indomani dell’uccisione a Beirut di un capo di Hamas da parte delle forze israeliane – sembra come voler palesare una continuità di propositi tra l’uccisione di Solemaini e l’attentato appena compiuto.
Il quadro degli eventi di Gaza e della Cisgiordania porta a pensare che un attentato di questo tipo difficilmente si sarebbe verificato se le forze israeliane fossero riuscite a liquidare Hamas e la resistenza palestinese in pochi giorni di guerra.
Washington, del resto, negli ultimi mesi non è riuscita in varie occasioni a contenere a suo piacimento le azioni belliche israeliane. Difficilmente un attentato come quello di Kerman – considerando la portata delle sue implicazioni – può essere messo in atto da un qualche gruppo armato – ad esempio l’ISIS o il MEK – senza importanti sostegni alle spalle. Piuttosto insolito, peraltro, il fatto che l’attentato non sia stato tempestivamente rivendicato.
L’ipotesi dell’autoattentato non regge alla prova della logica: l’Iran non ha alcun bisogno di costruire un casus belli, né nei confronti di Tel Aviv, né nei confronti di Washington: le motivazioni con cui Teheran potrebbe legittimare un proprio coinvolgimento bellico eventualmente maggiore senz’altro non mancano.
Nel calcolo di chi ha concepito questo attentato potrebbe esserci l’intento di innescare il coinvolgimento – addirittura diretto – dell’Iran in una guerra frontale con Israele o con gli Stati Uniti o quantomeno quello di mettere alla prova i nervi della dirigenza iraniana.
O se non altro quello di punirla per le mosse degli Houthi nel Mar Rosso e nello stretto di Bab el Mandeb. La risposta di Teheran sarà comunque, presto o tardi, inevitabile.
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