Sabato 3 febbraio Michelle O’Neill, vice-presidente del Sinn Fein, ha preso la testa del governo nord-irlandese, la vice-presidente dell’esecutivo sarà – come da usanza locale – il capo dell’opposizione, l’unionista Emma Little-Pegelly.
È la prima volta dalla firma dei cosiddetti Accordi del Venerdì Santo, di circa 25 anni fa, che hanno posto le basi per una risoluzione del conflitto armato nord-irlandese, che un repubblicano – in questo caso una repubblicana – diviene Prima Ministra.
Le elezioni di maggio 2022 sono state infatti un punto di svolta che lo hanno fatto diventare il primo partito d’Irlanda.
Dal 1998, anno della firma degli Accordi, l’avanzata del Sinn Fein è stata inarrestabile in entrambe le parti dell’isola ,tanto che la vittoria elettorale al Nord – rispetto alle politiche del maggio 2022 – ha fatto segnare una performance ancora migliore nelle amministrative del maggio scorso.
Anche i sondaggi al Sud, pur vedendolo ancora all’opposizione, registrano un consenso maggiore di quello ottenuto con l’exploit del febbraio 2020, data delle ultime elezioni politiche a Dublino, con Mary Lou McDonald, leader della formazione repubblicana.
Dopo due anni di “boicottaggio” degli unionisti che si erano opposti alle disposizioni commerciali post-brexit, la situazione si è sbloccata ed O’Neill è stata designata primo ministro.
Infatti per tutto il campo unionista, egemonizzato dalla DUP, quelle disposizioni contrattate da un governo conservatore erano percepite come una minaccia per la collocazione dell’Irlanda del Nord all’interno del Regno Unito.
Nella notte tra il lunedì 29 gennaio e martedì 30, Jeaffrey Donaldson del Partito Unionista Democratico (DUP) è riuscito a convincere la maggioranza dei 130 membri dell’Esecutivo del suo partito che avrebbero dovuto partecipare all’Assemblea regionale nord-irlandese (nel palazzo di Stormont), e accettare l’esito di un accordo raggiunto faticosamente con il governo britannico.
Donaldson ha promesso ai suoi “nessun controllo, nessun verifica sui prodotti che si muovono all’interno del Regno Unito”.
Nel 2019 la DUP, temendo di perdere l’egemonia nel campo unionista a favore dell’ala più oltranzista nella comunità protestante, che ha una forza paramilitare piuttosto bellicosa, ha sbattuto la porta di Stormont, rifiutandosi di avallare il nuovo statuto dell’Irlanda del Nord uscita dalla Brexit, negoziato tra l’allora primo ministro conservatore Boris Johnson e Bruxelles.
Secondo quell’accordo l’Isola sarebbe rimasta – a differenza dal resto della Gran Bretagna – parte del mercato unico europeo, con un controllo doganale che avrebbe riguardato i prodotti che avrebbero attraversato il Mare d’Irlanda con la Gran Bretagna.
L’opposizione a questa ipotesi si era sviluppata sia tra le fila del più moderato UPP che della più oltranzista TUV, che consideravano questa sorta di confine marittimo un attentato alla loro identità britannica, proprio in un momento in cui le tendenze demografiche all’interno della comunità protestante e lo sviluppo politico repubblicano, contribuivano in prospettiva a ridurne il peso sull’Isola.
Questo ha portato alla paralisi amministrativa l’Irlanda del Nord, con un’Assemblea Legislativa che non poteva neanche insediarsi perché, secondo quanto previsto dall’architettura istituzionale disegnata dagli Accordi del Venerdì Santo, il potere esecutivo e legislativo devono essere divisi in maniera paritaria tra le forze repubblicane e quelle unioniste a Stormont.
Ad inizio 2023 un nuovo accordo siglato dall’attuale capo dell’esecutivo britannico Rishi Sunak con la Commissione Europea, detto «Windsor Framework», prevedeva un significativo alleggerimento dei controlli doganali per i beni provenienti dalla Gran Bretagna e diretti al mercato nord-irlandese.
Ma la situazione non si era comunque sbloccata, e le voci critiche permangono nonostante i soldi (3,3 miliardi di sterline) che Sunak ha promesso alla regione per “indorare la pillola”. Era il sintomo di una crisi dell’unionismo nel giungere ad una sintesi politica in grado di costituire un’alternativa al Sinn Fein, confermando così la tradizionale alleanza con i conservatori britannici.
Il DUP mantiene una certa presa, come dimostra il suo consenso, sostanzialmente invariato, alle amministrative dello scorso anno: “controlla” 122 comuni, contro i 144 conquistati dal SF.
E proprio i successi del SF nel maggio scorso avevano fatto dichiarare ad O’Neil: “Queste elezioni sono un positivo endorsement del nostro messaggio sul fatto che lavoratori, famiglie e comunità hanno bisogno di sostegno e che il blocco dell’assemblea ad opera di una sola parte deve cessare”.
A diciotto mesi dalle elezioni politiche l’ostracismo unionista non aveva più alcuna prospettiva di fronte al malessere degli abitanti della parte settentrionale dell’Isola, con una situazione sanitaria disastrosa e i funzionari pubblici che – a differenza dei colleghi britannici, scozzesi e gallesi – non hanno ancora potuto ottenere l’aumento degli stipendi per assenza di rappresentanti politici legittimati a negoziarli e validarli.
La lotta di classe ha insomma fatto prepotentemente irruzione nel quadro politico irlandese.
Il malessere che covava da tempo ha portato a metà gennaio al primo sciopero generale da 50 anni a questa parte con differenti categorie (insegnanti, infermieri, conducenti d’autobus e ferrovieri, tra gli altri) che nonostante il freddo glaciale sono scese a migliaia per le strade di Belfast, Derry, Enniskillen e Omagh, per reclamare aumenti salariali.
Circa 170mila impiegati del settore pubblico hanno dato vita a picchetti e manifestazioni, bloccando di fatto l’economia del Nord Irlanda per tutta la giornata, e dimostrando la forza delle circa venti organizzazioni sindacali che hanno promosso la mobilitazione, cui ha aderito circa l’80% dei lavoratori, dando finalmente uno sbocco unitario alle singole vertenze che si trascinavano.
Un’ondata che da quel 18 gennaio non si è più fermata.
Così, tra pressioni della piazza da un lato e possibile recrudescenza della violenza sia da parte cattolico-repubblicana – vi è una “dissidenza” attiva rispetto agli Accordi del ’98 – che protestante-unionista, si è fatto un passo in avanti verso quella che sarà comunque una condivisione dei poteri impegnativa, con una agenda sociale molto serrata.
Michelle O’Neill rappresenta quella nuova leadership irlandese che fa dell’inclusione tra le comunità e del progressismo uno dei suoi tratti peculiari, che la fanno emergere di fronte al settarismo ed al conservatorismo dei dirigenti unionisti. Anche se non perde di vista l’ipotesi di un referendum – previsto dagli stessi Accordi del 1998, seppur in termini piuttosto vaghi – per l’unificazione dell’Irlanda.
È chiaro che il Sinn Fein ha lavorato alacremente in questi anni per creare i rapporti di forza che vanno in quella direzione, con un programma che coniugava politiche popolari progressiste, senza disperdere alcuni dei tratti più significativi del repubblicanesimo irlandese.
Come dimostra tra l’altro lo straordinario sostegno alla causa palestinese e per mantenere la EIRE una repubblica “neutrale” in politica estera, non soggetta ai diktat della NATO, una battaglia insieme alle altre forze “di sinistra” come People Before Profit e lo stesso Labour.
Una neutralità messa in discussione dalla sempre maggiore partecipazione alla PESCO in ambito della UE e all’invio di osservatori alle operazioni dell’Alleanza Atlantica, ma che è sostenuta – secondo i sondaggi – da almeno il 60% della popolazione, ben poco incline a seguire le scelte di Svezia e Finlandia.
La 47enne O’Neill viene da una famiglia della working class di Country Tyrone che ha militato nell’IRA, difende la legittimità dell’IRA nell’uso della violenza e onora i martiri dell’Esercito Repubblicano morti durante i troubles.
Suo padre è stato un prigioniero politico dell’IRA, mentre due suoi cugini sono stati uccisi dalle Security Forces.
Con l’aiuto della famiglia, nonostante fosse una “ragazza-madre” già all’età di 15 anni ha completato gli studi ed è stata eletta nel 2005 nel Dungannon borough Council.
Dal 2007 è stata eletta a Stormont ed ha ricoperto diversi incarichi ministeriali, tra cui all’agricoltura e alla sanità, prendendo il posto dello storico leader irlandese Martin McGuinness, dopo la sua morte nel 2017.
Recentemente ha sostenuto che il referendum sull’unificazione dell’Irlanda potrebbe tenersi entro una decina d’anni.
Quello dell’unificazione dell’Irlanda è un obiettivo strategico a cui il Sinn Fein, nonostante la differente tattica adottata, non ha rinunciato per superare la partizione artificiale che segna ancora l’Isola.
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