Sono in molti a domandarsi come mai, dopo cinque mesi di mattatoio a Gaza, la leadership israeliana continui a disattendere ogni velato o palese segnale della Casa Bianca per “congelare” il conflitto in Medio Oriente.
La “disobbedienza” di Tel Aviv verso Washington può contare certo sulla “doppiezza” degli Stati Uniti. Nella narrazione pubblica borbottano e invocano proporzionalità delle rappresaglie e tregue umanitarie, in quella parallela bloccano con il veto all’Onu ogni risoluzione contro Israele, le inviano armi e preziose informazioni di intelligence, schierano navi militari nel Mediterraneo e nel Mar Rosso contro i “nemici di Israele”.
In pratica ad Israele assicurano sostegno politico e militare, ai palestinesi al massimo vanno aiuti umanitari. Un modo per negare ancora la dimensione politica della questione palestinese e congelarla sulla mera dimensione umanitaria.
Sulle forniture di armi statunitensi l’amministrazione Biden, lungi dal pensare a qualsiasi congelamento, ha chiesto infatti a Israele solo di fornire una lettera di garanzie firmata entro la metà di marzo sulle forniture di armi ricevute e su quelle ancora da ricevere. Un alto funzionario israeliano ha dichiarato che la questione sarà discussa dal gabinetto di guerra israeliano nei prossimi giorni. Il Segretario di Stato Antony Blinken ha tempo fino al 25 marzo per certificare che Israele ha firmato l’impegno richiesto dal memorandum.
I due candidati alla presidenza Usa – Trump e Biden – non hanno posizioni molto diverse su Israele. Un ricambio alla Casa Bianca non lascia prevedere scostamenti nella linea di complicità tra Stati Uniti e Israele.
Quando gli è stato chiesto se fosse favorevole a un cessate il fuoco a Gaza, Trump ha esitato, evitando di prendere una posizione esplicita sullo sforzo militare di Israele che ha causato più di 30.000 morti tra i palestinesi.
Il probabile candidato repubblicano per il 2024 non ha fornito la propria posizione sulla strategia degli Stati Uniti o di Israele durante i cinque mesi di guerra. “Dovete mettere fine al problema”, si è limitato a dire Trump martedì su Fox News quando gli è stato chiesto della guerra. “C’è stata un’orribile invasione che non sarebbe mai avvenuta se io fossi stato presidente”.
The Nation scrive che Biden per molto tempo, è stato più propenso a descrivere Israele come qualcosa di cui l’America aveva bisogno, piuttosto che qualcosa di cui avevano bisogno gli ebrei. Da senatore ebbe a dichiarare che: “Se non ci fosse un Israele, gli Stati Uniti d’America dovrebbero inventare un Israele per proteggere i propri interessi nella regione”.
Entrambi i candidati presidenti, in questo caso, stanno parlando al loro elettorato e ai gruppi di pressione su cui questo è articolato. I due schieramenti e i due candidati – repubblicani e democratici – mentre sull’Ucraina si sono differenziati, su Israele non lasciano intravedere alcuna divergenza, neanche in una fase di aperta e durissima polarizzazione politica. Appare legittimo chiedersi come mai.
“L’importanza della comunità israelitica in America non consiste nel peso elettorale e, a sorpresa, nemmeno in quello finanziario” – scriveva su Limes nel lontano 1995 Maxim Ghilan – “In realtà i gruppi di pressione hanno successo perché i loro obiettivi convergono in buona parte con quelli dell’establishment”.
Ma la scarsa influenza dimostrata fin qui dalla Casa Bianca su Netanyahu forse ha altre spiegazioni che hanno necessità di essere quantomeno conosciute e prese in considerazione nell’analisi.
Lo studioso marxista statunitense James Petras, scriveva, quasi profeticamente già nel 2014 che “Il crescente orrore e l’indignazione hanno fatto sì che la maggior parte dell’umanità, compresi migliaia di ebrei, prendesse le distanze da Israele, ma hanno anche indurito i suoi leader e risvegliato i suoi influenti sostenitori, soprattutto negli USA”.
Sei anni prima, nel 2008, Petras aveva dato alle stampe un libro che ha fatto infuriare tutti i circoli sionisti negli Usa e non solo: Usa. Padroni o servi del sionismo?. Il nostro stesso giornale nel 2016 finì sulla lista nera dei gruppi sionisti per aver pubblicato un articolo di James Petras.
La tesi del libro di Petras, ex docente dell’università di Princeton e autore di innumerevoli libri e saggi, smentiva quella secondo cui le autorità israeliane fanno quello che gli dicono gli Stati Uniti, anzi, secondo Petras sembrerebbe più il contrario. Sarebbero le lobby sioniste per conto di Israele a influenzare materialmente le scelte del Congresso, della Casa Bianca e degli apparati ideologici di stato Usa e non viceversa.
“Coloro che sostengono il sionismo fino alla fine, nelle loro suite lussuose, lanciano la controffensiva. I produttori hollywoodiani denunciano gli attori moralmente indignati che hanno osato criticare i crimini di guerra commessi a Gaza, etichettandoli come antisemiti e minacciandoli con l’esclusione da qualunque progetto cinematografico.
Le potenti organizzazioni sioniste, non solo garantiscono l’opposizione degli USA ad ogni eventuale condanna del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nei confronti di Israele, ma anche l’unanime sostegno (100%) da parte del Congresso e della Casa Bianca per uno “stanziamento d’emergenza” di 250 milioni di dollari, prelevati dal gettito fiscale, per rifornire Israele di bombe e missili. Gli estremisti, che parlano in nome delle 52 principali organizzazioni ebraiche americane, non hanno messo in discussione il loro supporto alla carneficina nemmeno di fronte a centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato in tutto il mondo per sostenere i diritti del popolo palestinese; hanno invece sfoggiato il loro cieco sostegno ai crimini di guerra commessi da Israele”, scriveva James Petras in un saggio del 2014.
Ma l’accusa di Petras, che rovesciava un luogo comune piuttosto consolidato, non era affatto isolata.
Altri due studiosi statunitensi come John Mearsheimer e Stephen Walt, due docenti dell’università di Harvard, nel 2007 davano alle stampe il loro graffiante libro: La lobby israeliana e la politica estera Usa.
Nel marzo 2006, John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt pubblicarono sulla “London Review of Books” un lungo articolo da cui poi è scaturito il libro, suscitando uno dei dibattiti più accesi degli ultimi decenni.
Il loro saggio sulla LRB in soli tre mesi venne scaricato da Internet da trecentomila persone, mentre i due studiosi venivano sottoposti sia a pesantissimi attacchi che ad ampi consensi per chi, finalmente aveva infranto un tabù intoccabile.
Secondo Mearsheimer e Walt, infatti, l’appoggio incondizionato che gli Stati Uniti hanno sempre fornito Israele, in termini economici, militari e politici, non è giustificabile, se non in minima parte, con motivazioni strategiche o morali: la vera ragione di una relazione così speciale, secondo i due studiosi, risiede nel grande potere di influenza che una “coalizione informale di gruppi e individui impegnati nella difesa degli interessi nazionali di Israele possiede nei confronti del Congresso, del governo e della stessa presidenza degli Stati Uniti”.
In una recente intervista al New Stateman, John Mersheimer spiega che: “Dal 7 ottobre ci sono state numerose prove che la lobby abbia giocato duro con politici e personaggi pubblici che sono spuntati fuori e hanno criticato Israele; lo si vede anche nei campus universitari, dove i lobbisti stanno facendo di tutto per disciplinare e punire chiunque osi criticare Israele”.
Per Mersheimer la grande differenza tra quando hanno scritto il libro insieme a Walt e oggi “è che le attività della lobby oggi sono allo scoperto in un modo in cui non lo erano nel 2007. Penso che poche persone allora sapessero molto della lobby. E pochissime persone sapevano molto dell’influenza della lobby sulla politica estera americana, soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente. E penso che abbiamo contribuito a svelarla e ora più persone capiscono cosa sta succedendo.
La lobby è ora costretta a operare molto di più allo scoperto. Dal punto di vista di qualsiasi lobby, è meglio se può operare dietro le quinte ed esercitare un’influenza significativa che il pubblico non vede. Ma la lobby israeliana non può più operare in questo modo”.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi, sarà bene che anche questa visione sia ben presente nell’analisi e nel dibattito pubblico. Sia Biden che Trump hanno adottato e rivendicano politiche di aperto sostegno a Israele.
La complicità negli Usa è apertamente bipartisan, da sempre. Quello che si è rotto negli Stati Uniti rispetto a questo atteggiamento complice e servile è avvenuto nella società e nelle università, non nella politica, ed è in questo che sta la novità politica più rilevante.
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