È passata un po’ in sordina la notizia che la direttiva UE per imporre più alti standard a livello ambientale ed etico a tutta la catena di fornitura delle grandi multinazionali è stata affossata, all’inizio della settimana.
Forse è perché il vero volto della UE, quello di una costruzione politico-economica funzionale alle mire del grande capitale su base continentale, non è più (e non è mai davvero stato) un segreto che crea scalpore. O forse perché l’interesse delle imprese viaggia in tutt’altra direzione, dritto verso il collasso finale.
La Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CS3D) è stata presentata dalla Commissione Europea il 23 febbraio 2022 e il primo giugno 2023 il Parlamento Europeo ne aveva adottato la versione definitiva, che è poi passata al vaglio del Trilogo, ovvero i due organi già ricordati più il Consiglio Europeo.
Doveva poi essere approvata dai paesi membri nel Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper), ma la proposta è stata – appunto – respinta.
La direttiva prevedeva che tutte le società della UE con almeno 500 dipendenti e un fatturato netto di 150 milioni di euro – entro tre anni anche quelle extra-UE che raggiungono i 300 milioni – avrebbero dovuto porre fine alle attività con impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani, e implementare un piano di transizione per partecipare alla riduzione del riscaldamento globale. Altre aziende sarebbero state incluse secondo disposizioni specifiche.
Per le compagnie con più di 1.000 dipendenti il raggiungimento degli obiettivi avrebbe avuto effetti anche sulla remunerazione variabile degli amministratori, e l’aderenza alla direttiva sarebbe potuta diventare anche criterio per l’affidamento di appalti pubblici.
Allo stesso tempo, però, i servizi finanziari sarebbero stati esclusi dall’applicazione di queste regole, almeno per il momento.
Nel caso di inadempienza, oltre alla pubblicazione delle imprese in difetto, ci sarebbero state anche multe e sospensione dei prodotti dalla libera circolazione o dall’esportazione. Insomma, con la direttiva si sarebbero andati a toccare anche alcuni degli «intoccabili principi» del libero mercato per difendere interessi vitali non monetizzabili.
E difatti tutte le associazioni padronali dei principali paesi si erano subito opposte. Le tedesche Bdi e Bda, nonché la francese Medef, si erano dette contrarie a queste nuove norme perché considerate eccessivamente burocratiche. Lo stesso, ovviamente, aveva fatto Confindustria, che per bocca del suo delegato per l’Europa Stefano Pan ha detto che rappresentavano una “una regolamentazione sempre più invasiva“.
Bdi, Medef e Confindustria avevano fatto una dichiarazione congiunta lo scorso settembre, chiedendo che venisse migliorato il quadro normativo a favore delle imprese per aumentarne la competitività. Per loro lo scopo era migliorare la performance, per stare al passo con i concorrenti statunitensi e cinesi. Il resto – umanità e ambiente – che si fotta.
Sotto queste pressioni, la due diligence ha traballato, con la Francia che, per approvarla, voleva annacquarla fino a renderla insignificante (voleva alzare la soglia dei dipendenti da 500 a 5.000). Altri paesi – 14 in tutto – sono stati più diretti, votando contro o astenendosi, come l’Italia e la Germania, impedendo che si raggiungesse la maggioranza qualificata del 65% necessaria per l’approvazione.
Ovviamente i vari schieramenti fintamente green di tutta la UE addosseranno la colpa alla “incompiuta integrazione europea”. Ma è proprio questo modello di governance che permette di sparare alto in alcuni organi, aspettando poi il responso dei singoli governi, che non rispondono di certo ai popoli ma solo alle filiere aziendali.
C’è stata una votazione che non aveva bisogno di numeri bulgari per passare, e ad affossarla sono stati gli interessi concreti della borghesia continentale. Qui si vede tutta la contraddizione tra la propaganda sulla “missione civilizzatrice e ambientale” della UE e la realtà delle sue decisioni se non vanno d’accordo con le opportunità di migliorare la competitività e il profitto.
Difatti, il vero problema di questa direttiva era che le disposizioni dovevano essere applicate su tutta la catena difornitura delle imprese. E se questo può essere spacciato come attenzione alle condizioni di vita dei settori popolari in Europa, ciò avrebbe significato non poter sfruttare in maniera coloniale ciò che si trova nella «giungla» di Borrell. Ovvero i paesi non occidentali.
Nel 1915 Lenin scrisse: “dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo... gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero impossibili o reazionari“. Questo è ciò che è avvenuto, con un’altra evidenza dell’irriformabilità della costruzione europea, senza mettere in discussione alle fondamenta le leve del potere stesso.
Quando la «sinistra» non si era ancora dimenticata delle caratteristiche dell’imperialismo come stadio del capitale con proprie specificità, Di Vittorio criticava la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio come un desiderio del cartello delle grandi aziende del settore per accelerare i preparativi alla guerra.
Oggi la UE è largamente coinvolta nella guerra. E la retorica con cui Borrell presentava i paesi euroatlantici – come il «giardino» dei diritti e della democrazia – si scioglie come neve al sole di fronte al fatto che i bilanci dei «campioni europei» si costruiscono, e si possono solo costruire, sul ricatto salariale in patria e sul rapace approfittarsi di norme più labili per la tutela ambientale e dei lavoratori in paesi esteri.
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