Finalmente il “piano Draghi per la competitività europea” è stato reso noto, e tutte le redazioni (oltre ai governi e alle alle segreterie politiche) si sono messe al lavoro per capire la portata delle trasformazioni “consigliate”. Un eufemismo di circostanza, perché si sa che il “nuovo metodo europeo” è decisamente verticistico: la Commissione delibera, il parlamento europeo (anche quando è recalcitrante) avalla in tempi più o meno lunghi, i governi nazionali devono allinearsi.
Di fatto, quel che c’è scritto lì diventerà il programma di “riforme” continentali. Chi non è d’accordo (e saranno in molti, ci sembra di poter dire) dovranno lavorare parecchio per smussare i punti più pericolosi per i loro interessi. Come sempre, dipenderà dal peso politico ed economico dei diversi soggetti.
Andiamo con ordine.
Ovviamente Draghi parte dall’analisi della situazione europea attuale, segnata da un peggioramento drastico di tutti i fattori chiave per fare della UE un soggetto autonomo e centrale nello scacchiere internazionale.
La cautela politica gli impedisce comunque di chiamare le cose col loro nome o di indicare chiaramente le responsabilità di alleati o membri della UE.
Quasi comica la descrizione di come sia peggiorata la bolletta energetica continentale nell’arco di pochi mesi: “con la normalizzazione delle relazioni con la Russia, l’Europa è stata in grado di soddisfare la propria domanda di energia importata grazie ad ampi gasdotti, che hanno fornito circa il 45% delle importazioni di gas naturale dell’UE nel 2021. Ma questa fonte di energia relativamente a buon mercato è ora scomparsa, comportando un costo enorme per l’Europa. L’UE ha perso più di un anno di crescita del PIL e ha dovuto reindirizzare ingenti risorse fiscali verso i sussidi energetici e la costruzione di nuove infrastrutture per l’importazione di gas naturale liquefatto.”
Insomma, stavamo tanto bene con il gas russo a prezzi stracciati, ma adesso non ce l’abbiamo più. Silenzio sulle responsabilità Usa nello spingere l’espansione della Nato verso est per 30 anni di seguito (basta guardare la cartina e le date per capire di chi è “l’espansionismo”). Silenzio ancora più assoluto sui sabotatori materiali del gasdotto russo (i servizi segreti ucraini, secondo la magistratura tedesca).
Politicamente comprensibile, certo, ma chiaramente questi silenzi macroscopici – insieme a tanti altri – minano profondamente la pretesa di “scientificità” della diagnosi/prognosi stilata da SuperMario.
Detto questo, le “tre grandi trasformazioni” che sfidano l’Unione Europea sono comunque di dimensioni colossali, tali da definire il perimetro di una svolta strategica ad ampio spettro, da articolare con attenzione.
“La prima […] è la necessità di accelerare l’innovazione e trovare nuovi motori di crescita”. Facile a dirsi, tutt’altro che semplice a farsi in un continente che – parole di Draghi – “è bloccato in una struttura industriale statica, con poche nuove aziende che sorgono per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita. In effetti, non c’è nessuna azienda dell’UE con una capitalizzazione di mercato superiore a 100 miliardi di euro che sia stata creata da zero negli ultimi cinquant’anni”.
Silenzio sul perché la struttura industriale europea, per oltre 30 anni, abbia preferito “risparmiare” in ricerca e sviluppo, accontentandosi dei profitti facili garantiti dal modello export oriented imposto dalla Germania e dalla stessa UE, fondato sul congelamento dei salari, ossia sulla competitività di prezzo e non sull'innovazione del prodotto (che richiede forti investimenti).
Avrebbe insomma dovuto accusare la miopia dei paesi “frugali” e delle istituzioni UE di cui lui stesso è stato protagonista. Meglio glissare e indicare la necessità di uscire da questo cul de sac. Anche se qualche frecciatina se la consente: “La promozione della competitività non deve essere vista nel senso ristretto di un gioco a somma zero incentrato sulla conquista di quote di mercato globale e sull’aumento delle eccedenze commerciali. Inoltre, non dovrebbe portare a politiche di difesa dei “campioni nazionali” che possono soffocare la concorrenza e l’innovazione, o all’uso della repressione salariale per abbassare i costi relativi. La competitività oggi è meno legata al costo relativo del lavoro e più alla conoscenza e alle competenze rappresentate dalla forza lavoro”.
Un discorso che si allarga facilmente a tutte le politiche ottusamente perseguite da Maastricht in poi, indirizzate a sviluppare la “concorrenza interna all’area”, smantellare l’industria pubblica, vietare le concentrazioni industriali, ecc.
Altrettanto complicata la seconda “trasformazione”, che impone di “ridurre i prezzi elevati dell’energia proseguendo al contempo il processo di decarbonizzazione e di transizione a un’economia circolare”.
L’Europa è infatti a corto di risorse energetiche proprie e anche nel settore delle energie alternative, dove pure aveva un discreto posizionamento, sta venendo surclassata dalla Cina e altri soggetti. Per un ancora lungo periodo non potrà quindi fare a meno degli idrocarburi (e questo lascia grande spazio alle resistenze retrograde dei costruttori automobilistici), che però provengo da aree progressivamente più interessate da tensioni, guerre, sanzioni, autonomizzazioni strategiche (l’Africa, l’Arabia Saudita, l’Iran, ecc.), oltre che dal ben poco “amico americano” che ci vende il suo gas a quattro volte il prezzo russo.
“In terzo luogo, l’Europa deve reagire a un mondo geopolitico meno stabile, in cui le dipendenze stanno diventando vulnerabilità e non si può più contare su altri soggetti per la propria sicurezza” e quindi lanciare alla grande la spesa per armamenti, anche per imporre i propri interessi al di fuori del continente (in Africa, prima di tutto).
Qui come in altri campi il discorso è complicato dalla frammentazione (“in Europa vengono prodotti dodici diversi tipi di carri armati, mentre gli Stati Uniti ne producono solo uno”) e dalle gelosie-diffidenze tra ex potenze coloniali che si sono fatte la guerra per centinaia di anni. E anche il riarmo sta seguendo la stessa strada (ognun per sé), che mina alla radice le eventuali possibilità operative, necessariamente “unitarie”.
Stabilita l’inutilità di perder tempo sull’analisi delle cause reali della crisi di competitività, Draghi si getta a capofitto nel delineare le soluzioni. Di fatto, piuttosto classiche e ben poco innovative.
“Per competere” l’Unione Europea deve diventare un vero Stato centralizzato, per garantire che le decisioni siano prese rapidamente (“attualmente ci vogliono 19 mesi dalla proposta della Commissione all’approvazione del Parlamento”, sorvolando sul fatto che nelle “democrazie liberali” dovrebbe essere il Parlamento a fare da potere legislativo, non il governo).
Uno Stato che rispolvera il keynesismo militare e l’intervento pubblico, benedicendo “l’emissione di debito comune” (una bestemmia per le orecchie tedesche e olandesi), ma non certo a favore delle popolazioni. Servirebbe e servirà per sviluppare innovazione tecnologica, decarbonizzazione e soprattutto industria militare.
Il tutto al modico prezzo di 750-800 miliardi l’anno, il doppio di quanto – a prezzi correnti – garantì il “piano Marshall” per la ricostruzione dell’Europa postbellica.
Una domanda, su questo punto, andrebbe fatta a Draghi: come mai l’Europa ha bisogno di essere ricostruita dopo 30 anni (da Maastricht in poi) di demolizione dello stato sociale e del peso sindacal-politico dei lavoratori, che secondo i vertici d’allora (Draghi compreso) avrebbero dovuto garantire una crescita super e per tutti? Dopo oltre 30 anni, insomma, che è stato dato “tutto il potere alle imprese” ed è stata imposta una disciplina di bilancio feroce agli Stati nazionali? Dopo 30 anni di neoliberismo senza freni e “piani B”?
Di chi è, insomma, la responsabilità di una crisi di queste dimensioni?
Non risponderebbe, naturalmente.
Meglio, molto meglio, puntare a stringere i bulloni della formazione delle decisioni continentali. “Finora, molti sforzi per approfondire l’integrazione europea tra gli Stati membri sono stati ostacolati dal voto all’unanimità. Dovrebbero quindi essere sfruttate tutte le possibilità offerte dai Trattati Ue per estendere il voto a maggioranza qualificata”.
Il voto a maggioranza qualificata dovrebbe essere “esteso a più aree”, sottolinea l’ex premier, auspicando anche il ricorso alla “cooperazione rafforzata” (gruppi di paesi che mettono in pratica progetti comuni anche senza l’unanimità continentale).
Fine di ogni autonomia per gli stati nazionali e dunque anche per la volontà popolare, come dimostra del resto l’evoluzione della crisi politica in Francia.
Lo stesso ragionamento sull’emissione di eurobond per sviluppare gli investimenti non implica affatto un collare meno stretto intorno alle regole di bilancio. “L’emissione di asset comuni su base più sistematica richiederebbe un insieme più forte di regole di bilancio che garantiscano che un aumento del debito comune sia accompagnato da un percorso più sostenibile del debito nazionale. L’emissione di asset sicuri comuni per finanziare progetti di investimento congiunti potrebbe seguire modelli esistenti, ma dovrebbe essere accompagnata da tutte le garanzie che un passo così fondamentale comporterebbe”.
L’obiettivo principale resta il riarmo, anche per riprendere l’antica postura coloniale di sequestro violento delle risorse e delle materie prime strategiche. “Per ridurre le sue vulnerabilità, l’Ue deve sviluppare una vera e propria ‘politica economica estera’ basata sulla sicurezza delle risorse critiche. A breve termine, l’Ue deve attuare rapidamente la legge sulle materie prime critiche”.
Draghi raccomanda poi d’integrare questa legge “con una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento dei minerali critici, dall’estrazione alla lavorazione al riciclaggio”. Fino a creare “una piattaforma europea dedicata alle materie prime critiche”. Armi alla mano...
I nemici di questo “programma di riforme” sono tanti. E i più incazzati dovrebbero essere i lavoratori, i giovani, i pensionati. Perché il loro ruolo sarà ancora una volta quello dei donatori di sangue (un forte indebitamento comunitario, abbiamo visto, implicherà “regole più stringenti” sui bilanci pubblici).
Ma ci sono e ci saranno, non paradossalmente, anche tutti i soggetti che hanno fin qui prosperato sulle politiche di austerità, sui differenziali dello spread, sui vantaggi competitivi conservati fino a diventare tappi allo stesso sviluppo capitalistico.
E dunque in primo luogo la Germania e gli altri “frugali” del Grande Nord. Basta leggere il commento del ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, su X: «Con il debito comune dell’Ue non risolveremo nessun problema strutturale: le sovvenzioni non mancano alle imprese. Sono vincolati dalla burocrazia e dall’economia pianificata». Vivevamo in un sistema socialista e non ce n’eravamo accorti...
I tempi sono però stretti e gli strumenti ben pochi. Andare avanti come è accaduto finora, tra strategie orientate all’austerità e crisi frequenti che impongono di “sospenderla temporaneamente”, tra egoismi nazionali che premiano chi è già più forte (anche se ora colpito dalla recessione, come Berlino)... insomma come un’armata brancaleone messa insieme obtorto collo, “sarebbe un’agonia”.
Nessun serio salto di qualità nell’innovazione tecnologica è possibile affidandosi soltanto alla buona volontà delle imprese o a qualche colpo di teatro di governi nazionali con qualche “tesoretto” da mettere in campo. Nessuna politica energetica può avere respiro senza un progetto e infrastrutture comuni. Nessun riarmo metterà “l’Europa” in grado di competere, se affidato ad eserciti e tecnologie disallineati.
Anche perché – ed è l’unica vera novità del rapporto Draghi, comprensibilmente la meno strombazzata – i competitor sono fondamentalmente due: ovviamente la Cina, ma anche gli Stati Uniti.
La frammentazione del mercato mondiale, avviata ormai da parecchi anni, sta producendo una differenziazione di interessi strategici anche all’interno dell’“Occidente collettivo”. Presto per parlare di “separazione” – soprattutto l’Unione Europea, per le carenze strategiche indicate dallo stesso rapporto, non se lo può ancora permettere – ma la strada appare oggettivamente segnata.
L’alternativa, dice Draghi e quindi la frazione di capitale finanziario che rappresenta, è la scomparsa “dell’Europa” come soggetto autonomo di un qualche peso internazionale.
In ogni caso, aggiungiamo noi, questa classe dirigente (imprenditori, finanzieri, politici), se lasciata comandare ancora a lungo, può produrre solo devastazione sociale interna e guerra. Oppure crisi e degrado storico, di lungo periodo.
Padella o brace, insomma. Non certo pace, sviluppo e giustizia sociale.
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