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14/07/2013

Timisoara come destino comune, anche per l’Italia


Si chiama “Destinazione Italia”. L’obiettivo è rendere l’Italia come la Romania o lo Slovacchia, una terra di conquista per gli investimenti esteri. In cambio meno tasse, procedure semplificate e tanta flessibilità dei lavoratori.

Era l’anello mancante e l’operazione mediatica gli sta costruendo intorno il solito alone di misura urgente. Gli investimenti esteri in Italia sono diminuiti da 34 a 12,5 miliardi di euro nel 2012. L’Italia è scesa dal 12° al 29° posto per gli investimenti esteri attratti nel paese. I padroni stranieri non investono più nella bella Italia. Spariti gli investimenti “greenfield” (quelli che costruiscono interamente i nuovi impianti) gli investitori stranieri si concentrano ormai nello shopping a prezzi di saldo delle aziende italiane, o meglio dei loro marchi e della loro quota di mercato.

L’ultima è stata Loro Piana, nicchia del lusso, passata al gruppo francese Lmvh, prima ancora era toccato a Gucci o alla Ducati.

In altri casi le aziende italiane sono state acquisite per essere cannibalizzate, ossia per chiuderle e acquisire all’investitore straniero le loro quote di mercato italiano. E’ avvenuto sistematicamente nella chimica e nella farmaceutica, ma anche in pezzi significativi della siderurgia.

In altri casi gli investitori esteri hanno utilizzato tutti gli incentivi messi a loro disposizione dallo Stato o dalle regioni. Una volta finiti gli incentivi se ne sono andati lasciando i lavoratori in mezzo alla strada e i capannoni vuoti. Un caso fra i tanti la multinazionale indiana, Dhoot, diventata proprietaria del colosso dell’elettronica Videocon di Anagni. Dopo aver intascato oltre 100 milioni di euro pubblici per investimenti, gli indiani hanno abbandonato la Videocon, portandola al fallimento, decretato dal tribunale di Frosinone. Oppure i giapponesi della Bridgestone che pretendono 150 milioni di investimenti pubblici per rimanere con il loro stabilimento in Puglia.

Adesso il Consiglio dei Ministri intende lanciare una operazione in grande stile per attrarre di nuovo gli investimenti esteri in Italia. Verrà mobilitata la Farnesina per promuovere all’estero le opportunità di investimento e verranno mobilitati i ministeri del Lavoro e delle Finanze per promuovere un pacchetto di agevolazioni che inducano le aziende straniere ad investire in Italia.

Il progetto “Destinazione Italia” per ora parla di semplificazione delle procedure, soprattutto per quanto riguarda gli affitti, poi verranno studiate le agevolazioni fiscali e doganali. Infine, e qui verranno i dolori, la flessibilità del mercato del lavoro.

I dati ci confermano che ogni paese che ha puntato ad accrescere gli investimenti esteri in entrata ha agito sue due leve fondamentali: meno tasse e totale flessibilità salariale e lavorativa. In un contesto di competizione esasperata sul costo del lavoro, le multinazionali – sia grandi che medie e piccole – puntano a spingere in basso i salari dei lavoratori dei paesi dove erano più alti per compensare il fatto che stanno crescendo nei paesi dove erano più bassi (es. Cina, Corea, etc.).

In questa strettoia non possono che finire i paesi europei Pigs. Già oggi in Grecia stanno riprendendo gli investimenti esteri dopo che quattro anni di misure antisociali hanno abbassato i salari e ridotto i diritti sindacali. Lo stesso sta accadendo in Portogallo (dove ad esempio se ne è andata la Nokia-Siemens di Catania) o la Spagna dove la deregolamentazione del mercato del lavoro è stata totale e oggi sta diventando ancora più vantaggiosa.

Dagli anni Novanta abbiamo spesso sentito parlare del modello Timisoara, il distretto della Romania diventato praticamente un aggregato del Nordest italiano per il numero di imprese italiane che vi hanno delocalizzato. Forza lavoro a basso costo, zero diritti sindacali, sfruttamento intensivo del lavoro, incentivi fiscali a go go, ne avevano fatto il modello ideale per attrarre gli investimenti esteri anche di un “capitalismo piccolo piccolo” come quello italiano.
Adesso i "prenditori" intendono capitalizzare gli effetti della delocalizzazione imponendo un abbassamento generale degli standard salariali e lavorativi in Italia, tale da renderlo competitivo con quelli rumeni, slovacchi, polacchi, serbi, ungheresi e, perché no, cinesi e coreani.

Una pacchia per i padroni, siano esse multinazionali straniere che vengono ad investire in Italia oppure per padroni italiani che magari verranno dipinti come eroi nazionali perché “rilocalizzano” dopo aver sfruttato al massimo i vantaggi della delocalizzazione.

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