Il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione
salariale nei paesi periferici dell’Unione potrebbe esser destinato al
fallimento. L’eventualità di una deflagrazione dell’eurozona è dunque
tutt’altro che scongiurata. Il problema è che le modalità di
sganciamento dalla moneta unica sono molteplici e ognuna ricadrebbe in
modi diversi sui diversi gruppi sociali. Esistono cioè modi “di destra” e
modi “di sinistra” di gestire un’eventuale uscita dall’euro. Ma esiste
una sinistra in grado di governare il processo?
di Emiliano Brancaccio
La crisi dell’Unione monetaria europea è stata interpretata in vari
modi. Una chiave di lettura particolarmente feconda analizza il
travaglio dell’eurozona alla luce di un conflitto irrisolto tra i
capitali delle nazioni che ne fanno parte: in particolare, tra i
capitali solvibili situati nei paesi “centrali” e i capitali
potenzialmente insolventi situati nei paesi “periferici” dell’Unione.
Tra i numerosi indicatori di questo scontro va segnalata l’accentuazione
delle divergenze tra i tassi d’insolvenza. Stando ai dati di Credit
Reform, nel 2011 in Germania le insolvenze delle imprese sono diminuite
del 5,8% e in Olanda si sono ridotte del 2,9%. Al contrario, in Italia,
Portogallo, Spagna e Grecia registriamo una crescita continua delle
aziende dichiarate insolventi, con aumenti rispettivamente del 17, 18,
19 e 27%. Queste divaricazioni, senza precedenti, trovano ulteriori
conferme nel 2012. Al divario tra i dati sulle insolvenze segue poi,
logicamente, un’accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali
deboli ad opera dei più forti. [...]
[...] Chi parlava in tempi non sospetti di un rischio di
“mezzogiornificazione” europea aveva visto giusto: nel senso che il
dualismo economico che si riteneva essere un mero caso speciale,
caratteristico dei soli rapporti tra Nord e Sud Italia, sembra oggi
essersi elevato al rango di caso generale, rappresentativo delle
relazioni tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’intera Europa.
Stando dunque alle dinamiche in corso, in un arco di tempo non
particolarmente esteso i paesi periferici dell’Unione potrebbero essere
ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di
meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà
sempre più spesso a situarsi al centro del continente.
Naturalmente, sarebbe un’ingenuità teleologica considerare scontato
un simile esito. Esso, infatti, incontra forti resistenze da parte delle
rappresentanze politiche dei capitali periferici. Gli sviluppi dello
scontro che ne consegue, tutto interno agli assetti capitalistici
europei, allo stato dei fatti restano incerti. Coloro i quali tuttora
sperano in una ricomposizione degli interessi con i capitali centrali
dell’Unione, invocano di continuo una riforma degli assetti
istituzionali europei, che riequilibri i rapporti tra i paesi membri o
consenta almeno di mitigare i tremendi effetti della
mezzogiornificazione delle periferie. Fino a questo momento, tuttavia,
si è trattato di vani auspici.
Alcuni avevano sperato che la crisi europea potesse costituire
un’occasione per aprire un confronto politico sugli squilibri
strutturali generati dall’attuale regime di accumulazione trainato dalla
finanza privata, e sulla esigenza di sostituirlo con una moderna
visione di “piano”, che conferisse ai poteri pubblici il ruolo di
creatori di prima istanza di nuova occupazione. Fino a questo momento,
tuttavia, questi temi non hanno quasi per nulla attecchito nel dibattito
europeo nemmeno a sinistra, figurarsi tra le istituzioni. A un livello
più modesto, anche la speranza dei partiti progressisti di rinsaldare
l’unità europea tramite l’adozione di “standard” salariali e del lavoro,
è immediatamente naufragata di fronte all’opportunismo della
socialdemocrazia tedesca, ostile a qualsiasi ipotesi di coordinamento
europeo della contrattazione. Ed ancora, persino l’auspicio minimale dei
governi periferici, di mitigare la crisi finanziaria attraverso
un’unione bancaria e una connessa assicurazione europea dei depositi,
sembra venir meno di fronte alla opposizione dei tedeschi, intenzionati a
favorire anche in campo bancario processi di centralizzazione dei
capitali di tipo darwiniano.
La deflazione salariale si sta rivelando inefficace
Stando così le cose, il tentativo di ricomporre il conflitto tra
capitali europei resta affidato a una sola ricetta, ben delineata in
questi mesi dalla Banca centrale europea: la crisi dei capitali situati
nei paesi periferici, e la conseguente mezzogiornificazione delle
periferie europee, potrebbero essere attenuate solo da un abbattimento
dei costi del lavoro per unità di prodotto. Se cioè riducessero il costo
unitario del lavoro, i paesi periferici potrebbero recuperare
competitività e sarebbero quindi in grado di ridurre il loro disavanzo
verso l’estero senza ricorrere alle politiche di austerità o, quanto
meno, ricorrendovi in misura meno accentuata di quanto non facciano
oggi. Tale proposta incontra oggi molti sostenitori presso le
istituzioni europee: Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del consiglio
direttivo della Bce, è uno dei suoi più espliciti sostenitori. Senza
dubbio, essa ha almeno il merito di chiarire che i problemi
dell’eurozona riguardano soprattutto i conti esteri dei paesi membri,
non i conti pubblici.
Ma qual è l’ordine di grandezza del mutamento che tale ricetta
implicherebbe? Olivier Blanchard, capo economista del Fmi, tempo fa
cercò di stimare l’abbattimento del costo del lavoro che sarebbe
necessario per rimettere in riequilibrio i conti esteri dei paesi
periferici: a parità di altre condizioni, i salari nominali dovrebbero
subire un crollo dal 20 al 30%. Per giunta secco, una tantum: in
sostanza, l’operaio portoghese che oggi è pagato 1000 euro, da domani
dovrebbe prendere 700 euro. In verità, quando la formulò per la prima
volta, nel 2006, Blanchard definì «esotica» questa opzione, ritenendola
politicamente inverosimile. La crisi tuttavia ha reso praticabili anche
le soluzioni più ardite e violente.
Ma, siamo certi che l’idea di ristabilire l’unita di classe dei
capitali europei scaricando l’onere del riequilibrio sui salari avrà
successo? Siamo certi cioè che la riduzione del costo del lavoro nelle
periferie consentirà di ricomporre lo scontro capitalistico in atto e
permetterà quindi di salvare l’attuale assetto istituzionale
dell’Unione? Per tentare di rispondere prendiamo il caso della Grecia,
che presenta varie peculiarità ma che ha più volte anticipato gli
andamenti di tutte le periferie dell’eurozona. Ebbene, in Grecia tra il
2008 e il 2012 si registra un calo medio dei salari monetari di tre
punti percentuali, un crollo dei salari reali di diciotto punti e una
caduta della quota salari di oltre quattro punti. E’ interessante anche
notare che il salario minimo fissato dalla legge è precipitato dal 2011 a
oggi del 44%, da 877 a 490 euro. Sono cadute colossali. Eppure,
nonostante tali precipitazioni, e nonostante una politica di depressione
dei redditi senza precedenti storici, la Grecia ha chiuso comunque il
2012 con un disavanzo verso l’estero di 3 punti percentuali in rapporto
al Pil. Il paese cioè continua a importare più di quanto esporti.
La precipitazione della crisi greca insegna che il feroce tentativo
di salvare l’Unione a colpi di deflazione salariale potrebbe anch’esso
esser destinato al fallimento. Se così fosse, la scelta di uscire
dall’euro e svalutare diventerebbe l’ultima carta per tentare di
rimettere in equilibrio le bilance verso l’estero dei paesi periferici.
Su una “exit strategy” dall’euro la sinistra è in ritardo
In uno scenario simile, è curioso che le sinistre insistano ancora
oggi con la riduttiva litania secondo cui «fuori dall’euro sarebbe
l’inferno». Come si fa cioè a non capire che il pigro affidarsi a simili
espressioni apodittiche vanifica qualsiasi sforzo di comprensione delle
reali dinamiche in corso e accentua l’emarginazione politica di tutti
gli eredi, più o meno degni e diretti, della tradizione novecentesca del
movimento operaio? Beninteso, una spiegazione raffinata della
irriducibile fedeltà della sinistra alla moneta unica potrebbe risiedere
nella tendenza storica delle rappresentanze del lavoro a cercare il
proprio antagonista dialettico nel grande capitale, laddove invece con i
piccoli capitali si fatica anche solo ad avviare una lotta per il
riconoscimento.
Se i termini del discorso fossero questi, si potrebbe anche
approfondire la questione. La verità del nostro tempo, tuttavia, si
situa a un livello decisamente più basso: l’adesione a oltranza della
sinistra all’euro costituisce oggi un mero riflesso narcisistico, una
eco del tempo andato, quando la globalizzazione avanzava senza apparenti
ostacoli e ci si illudeva di potere raccogliere residualmente qualche
suo frutto, o anche solo qualche briciola. Con lo sguardo ancora rivolto
a quella fase superata, la sinistra appare oggi più che mai fuori dal
tempo storico. Anche per questo, il suo posizionamento conta allo stato
attuale poco o punto negli sviluppi della crisi dell’Unione. L’eventuale
deflagrazione della moneta unica e al limite la messa in discussione
dello stesso mercato unico europeo dipenderanno dagli esiti di una
partita tutta interna agli assetti proprietari del capitale europeo,
rispetto alla quale il lavoro e le sue residue rappresentanze appaiono
subalterne come non mai. Il problema è che, al di là della grancassa
mediatica favorevole all’euro, nonostante gli impegni assunti dalla Bce
nella erogazione di liquidità, e considerata l’evanescenza delle
decisioni finora assunte in sede europea per l’avvio di programmi di
investimento pubblico nelle aree più in difficoltà, quella partita
continua a svilupparsi lungo un sentiero che a lungo andare rende
insostenibile l’Unione monetaria.
In questo scenario, possibile che le sinistre rifiutino anche solo di
avviare una riflessione sulle decisioni da assumere in caso di
precipitazione dell’Unione? Possibile che tuttora manchi una indicazione
di massima su una exit strategy dall’euro che permetta di
tutelare gli interessi del lavoro subordinato? La questione, si badi
bene, è cruciale. Le modalità di abbandono di un regime di cambi fissi
come l’eurozona sono infatti molteplici, e ognuna può ricadere in modi
diversi sui diversi gruppi sociali. In altre parole: esistono modi “di
destra” e modi “di sinistra” di gestire una eventuale uscita dall’euro. E
la sinistra è in netto ritardo.
Da tempo chi scrive ha cercato di insistere su questo punto, in
verità con scarso successo. Il dibattito italiano di politica economica
sembra infatti ormai riducibile a una mera disputa tra fautori del
cambio irrevocabile e sostenitori della libera fluttuazione delle
monete, come se l’ordine del discorso politico potesse essere in ultima
istanza ricondotto a una scelta del regime valutario. Eppure basterebbe
dare un occhio alla letteratura degli anni Settanta del secolo scorso
per capire che, almeno dal punto di vista dei rapporti sociali di
produzione, la questione è molto più complessa.
Tra i fondamentali aspetti che dovrebbero essere esaminati vi sono ad
esempio i cosiddetti «fire sales», come li definisce Paul Krugman; vale
a dire, la possibilità che lo sganciamento dall’euro, e la conseguente
svalutazione della moneta, possano determinare una caduta del valore dei
capitali nazionali di tale portata da mettere le autorità di governo di
fronte alla scelta tra favorire eventuali acquisizioni estere a buon
mercato oppure contrastarle. Per le sue implicazioni sui rapporti di
produzione, la prima soluzione può esser definita “di destra”. La
seconda soluzione potrebbe invece essere annoverabile tra le strategie
“di sinistra”. Quest’ultima opzione, tuttavia, richiederebbe una messa
in discussione, almeno parziale, non solo della moneta unica ma anche
del mercato unico europeo, con buona pace dei “liberoscambisti di
sinistra”. Le cose, come si può notare, si complicano.
Uscita dall’euro “di destra” o “di sinistra”: gli effetti sui salari
La questione dei fire sales è cruciale, ma le sue implicazioni non
sono di immediata lettura. Per cercare di afferrare in termini più
immediati le differenze tra una opzione di uscita dall’euro “da destra” e
una opzione di uscita “da sinistra”, in questa sede può essere allora
opportuno soffermare l’attenzione su due sole variabili: il salario
reale e la quota salari. A questo proposito, vari studi hanno segnalato
che l’abbandono di un cambio fisso e la conseguente svalutazione
risultano spesso correlati a una riduzione del salario reale, ossia a
una perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni. Tra le ricerche più
influenti, è il caso di menzionare uno studio di Eichengreen e Sachs
sugli effetti delle svalutazioni che si realizzarono nel corso degli
anni Trenta, e un contributo di Lucas e Fallon sugli esiti delle crisi
valutarie che si verificarono negli anni Novanta.
I risultati di ricerche più recenti suggeriscono tuttavia una lettura
maggiormente articolata dei dati disponibili. Consideriamo nove casi di
sganciamento da un cambio fisso avvenuti nell’ultimo ventennio:
Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992, Repubblica Ceca e
Sud Corea nel 1997, Argentina e Turchia nel 2001. Rileviamo che in due
dei nove casi alla svalutazione fa seguito un salario reale stazionario
nell’anno successivo, mentre negli altri sette casi si registra una sua
riduzione. L’entità del calo può essere modesta, come è accaduto in
Italia (meno di un punto percentuale), oppure può essere enorme, come è
il caso del Messico (meno tredici punti) e dell’Argentina (meno trenta
punti). Negli anni successivi gli andamenti sono piuttosto
diversificati: in alcuni casi il declino perdura, in altri la ripresa è
immediata. In tutti i casi tranne uno, tuttavia, dopo cinque anni dalla
svalutazione i salari reali tornano ai livelli precedenti ad essa, e
talvolta li superano.
Riguardo invece alla quota salari – vale a dire la quota di reddito
nazionale spettante ai lavoratori – l’andamento è più univoco e meno
rassicurante. In tutti i casi considerati, un anno dopo la svalutazione
la quota salari si riduce. E in tutti i casi, tranne uno, dopo cinque
anni la caduta della quota salari si fa ancora più consistente: in
Svezia il calo è di due punti percentuali, in Gran Bretagna di cinque
punti, in Finlandia di nove punti, addirittura in Turchia di dodici
punti. Il nesso con lo sganciamento dal cambio fisso è in molti casi
evidente: in Italia, per esempio, nei cinque anni precedenti alla
svalutazione la quota salari rimane pressoché stazionaria, mentre nei
cinque anni successivi cade di ben cinque punti percentuali.
I risultati ottenuti trovano conferme ulteriori ampliando l’insieme
di paesi oggetto dell’analisi. In tutti i casi emerge un ventaglio di
andamenti, dipendenti da una molteplicità di fattori e non tutti
facilmente decifrabili. Tali esiti aiutano tuttavia a chiarire un punto
essenziale: l’effetto di un’eventuale deflagrazione della moneta unica
europea sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente
determinabile. Così come è da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a
sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe
inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo
verticale dei salari reali, così pure risulta infondata la tesi di chi
esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla
distribuzione del reddito. Un elemento certo tuttavia sussiste: l’uscita
da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul
potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito
nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala
mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc. – in grado di
agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività.
Escludere tali meccanismi implica, in buona sostanza, un’uscita
dall’euro “da destra”. Contemplarli significa predisporre un’uscita “da
sinistra”.
La questione salariale e distributiva è solo un tassello degli enormi
problemi che derivano dall’insostenibilità dell’attuale assetto
dell’Unione europea. Cercare di affrontarla in modo fattuale ci aiuta
tuttavia a uscire da una lettura estremista e manichea della fase. I
dati ci dicono che fuori dall’euro non è affatto detto che vi sia un
inferno peggiore di quello che già ci circonda, ma non è nemmeno
scontato che si possa anche solo intravedere il sole di un nuovo
avvenire. Sia come sia, il processo storico è in rapido movimento:
nell’uno come nell’altro caso, il peggio che le residue rappresentanze
del lavoro possono fare è restare passivamente a guardare.
Riferimenti bibliografici
Brancaccio, E. (2012). “Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a European wage standard”. International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
Brancaccio, E. (2013). Dibattito con Lorenzo Bini Smaghi. Facoltà di Economia “G. Fuà”, Ancona, 15 maggio.
Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Il Saggiatore, Milano.
Eichengreen, B., Sachs, J. (1984). “Exchange rates and economic recovery in the 1930s”. NBER Working Paper Series, n. 1498.
Fallon, P., Lucas, R.E. (2002). “The
impact of financial crises on labor markets, household incomes and
poverty: a review of evidence”. The World Bank Research Observer, vol.
17, n. 1.
Estratto di un articolo pubblicato su Alternative per il socialismo, n. 27, luglio-agosto 2013. La riproduzione è consentita specificando il carattere di estratto e citando la fonte.
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