A sostenerlo è Erik Brynjolfsson, professore della MIT Sloan School of Management. Una tesi che molti economisti non condividono. Tutti però ritengono che tecnologia e web abbiano creato più domanda di professionalità molto semplici o molto sofisticate. In mezzo, c'è una curva sgonfia
Erik Brynjolfsson, professore della MIT Sloan School of Management, lo chiama “il grande disaccoppiamento”. Lo spiega con un grafico in cui mostra come gli indicatori della ricchezza e dell’occupazione
abbiano preso negli ultimi dieci anni una direzione divergente. Sale la
produttività, e quindi la ricchezza del paese, ma non sale più la
creazione di nuovi posti di lavoro. Tra il 2000 e il 2009, la crescita
dell’indice di produttività negli Stati Uniti è stato
del 2,5%, il più alto dagli anni ’60, ma il numero di posti di lavoro è
sceso dell’1,1%. Il motivo? Secondo il professore, responsabili
sarebbero tecnologia e Internet. Jeremy Rifkin lo aveva profetizzato già nel 1995 con il suo The end of work:
“Negli anni a venire, software sempre più sofisticato porterà la nostra
civiltà più vicina ad essere un mondo senza lavoro”. L’effetto non
sarebbe limitato al lavoro operaio, vittima dell’automazione industriale
già dagli anni ’80, anzi. Sarebbe il terziario a subire più gravemente
quella che Brian Arthur del Palo Alto Research Center
definisce “economia autonoma”, quella del software che gestisce
attività complesse con grande facilità e costi bassi. A guadagnarci
sarebbero le grandi corporation, che vedono i profitti ad un picco storico negli ultimi 50 anni.
Technology Review riapre il dibattito e in un lungo articolo riporta
le voci di economisti secondo cui i dati macroeconomici di Brynjolfsson
sono troppo difficili da interpretare in maniera univoca. Quindi è
tutto da dimostrare l’effetto deleterio di Internet sul mercato del lavoro.
Ma quello su cui tutti concordano è che le tecnologie digitali
polarizzano la situazione: meno spazio per la classe media, più domanda
di professionalità molto semplici o molto sofisticate, in mezzo una
curva sgonfia. Dice Brynjolfsson: “È lo scheletro nell’armadio
dell’analisi economica. Il progresso tecnologico espande l’economia e
crea ricchezza, ma nessuna legge economica dice che i benefici saranno
di tutti”. Il grande dubbio è se l’essere umano sarà in grado di
evolversi velocemente, o se invece sarà il software ad
imparare per primo quanto esso stesso richiede al lavoratore del futuro.
L’esempio è quello degli algoritmi per le transazioni finanziarie
automatizzate, dette HFT (high frequency stock trading): sono
così sofisticati da non poter esser sviluppati se non con un altro
software specializzato, riducendo la domanda di lavoro per i
programmatori, spiega Charles Hugh Smith su Business Insider. Il pericolo più immediato è la resistenza al cambiamento, l’ostilità alla tecnologia caratteristica dei cosiddetti neo-luddisti.
Brynjolfsson sostiene che l’uomo dovrà imparare a competere grazie alle macchine, e non contro le macchine. John Leonard del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory presso il Massachusetts Institute of Technology,
dice: “Vedo accelerare il progresso, ma vedo anche ripetersi gli stessi
problemi. Vedo quanto è difficile fare le cose con i robot. La grande
sfida è l’incertezza. Persone e robot che lavorano insieme sono la
strada più probabile, la cosa che può succedere nell’immediato. Non
succederà nell’arco della nostra vita di vedere i robot che soppiantano
del tutto l’essere umano”. Gli fa eco Marina Gorbis dello Institute for the Future di Palo Alto, con i toni classici del cyber utopismo:
“Le macchine ci permetteranno di fare cose che non avremmo mai sognato
di poter fare”. Posizioni cui fornisce un supporto più concreto McKinsey nel rapporto Internet matters: in Francia, il digitale avrebbe distrutto 500mila posti di lavoro negli ultimi 15 anni, creandone però 1,2 milioni di nuovi.
Eppure, le voci pessimistiche non mancano nemmeno nel cuore della Silicon Valley: secondo l’imprenditore Martin Ford, autore di Lights in the tunnel,
il 40% dei posti di lavoro americani (circa 50 milioni in valore
assoluto) sarebbero potenzialmente a rischio estinzione a causa delle
tecnologie informatiche moderne. E proprio da un ex guru del progresso tecnologico, Jaron Lanier, arrivano le parole più disilluse. Nel suo nuovo libro Who Owns the Future?, presentato con una lunga intervista a Salon, Lanier attacca la cosiddetta sharing economy
e spiega come ormai tutti noi contribuiamo gratis a creare contenuti e
valore per le piattaforme globali dei social network. I profitti però
vengono distribuiti in forma di piramide rovesciata: pochi dipendenti in
basso, e algoritmi che creano tanto valore a beneficio di pochi. Kodak:
140 mila impiegati, fallita nel 2012. Instagram: 13 impiegati,
acquisita nello stesso anno da Facebook per 1 miliardo di dollari. Il
nostro destino? Dice Lanier: “La democrazia non è stabile se la
distribuzione della ricchezza è ristretta”.
Fonte
Si torna a un argomento che già abbozzai in passato ovvero la progressiva perdita di senso del lavoro intenso come strumento d'emancipazione.
Un processo lento, passato prima per il lavoro come sistema di distinzione e segmentazione sociale che emancipava solo a livello dei consumi fino al definitivo disfacimento della working class, ma a tutti i livelli, con buona apce di quelli che vedevano il futuro nel terziario.
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