Nel 1997 la visitarono 1,1 milioni di persone. L’anno scorso meno della metà: 531mila. Eccola la Reggia di Caserta, altro che la residenza reale voluta da Carlo di Borbone per reggere il confronto con Versailles. Nel parco dove un tempo passeggiavano Luigi XIV e la sua corte, nel 2012 sono arrivati più di 10 milioni di visitatori. Il confronto, quanto meno nei numeri, non regge proprio. E il complesso del Vanvitelli diventa il simbolo dei problemi tutti italiani a valorizzare i beni culturali. Un patrimonio immenso, quasi 5mila tra musei, monumenti e aree archeologiche. Con più siti patrimonio dell’Unesco di qualsiasi altro paese. Ma più che davanti a una ricchezza, spesso pare di trovarsi davanti a un malanno da curare.
Le risorse investite finiscono per perdersi in mille rivoli: “Altri paesi riescono a gestire meglio di noi i loro beni culturali, proprio perché ne hanno di meno”, sostiene Enrico Eraldo Bertacchini,
docente di Economia della cultura all’università di Torino. Finisce
così che il nostro patrimonio storico-artistico non viene valorizzato,
mentre la politica, alla parola ‘cultura’, ne associa quasi sempre un’altra: ‘tagli’. Tanto che il bilancio del ministero dei Beni e delle attività culturali (Mibac) in 13 anni è stato quasi dimezzato. Fa niente se la spesa dei turisti stranieri nel 2011 per vacanze artistico-culturali è stata di ben 10 miliardi di euro. Noi fatichiamo lo stesso a conservare e tutelare quello che già esiste. E in più – accusa Pierluigi Sacco
dello Iulm di Milano – non creiamo le condizioni per riempire di nuovi
contenuti quei settori dell’industria culturale e creativa che sono
redditizi. Per non parlare dell’assenza di investimenti sulle tecnologie
che consentiranno in futuro di fruire di monumenti e opere d’arte in
modo innovativo. Così fra un po’ di tempo noi avremo il Colosseo. Ma i
soldi sulle visite li farà la Corea del Sud.
TUTTI I MUSEI ITALIANI? FANNO UN LOUVRE. Il record di visitatori in Italia, secondo i dati del Mibac, ce l’ha il Colosseo: nel 2012 5,2 milioni di persone
sono entrate nel circuito che oltre all’Anfiteatro Flavio comprende
Foro Romano e Palatino. L’incasso in biglietteria è stato di 37,4 milioni di euro. Segue Pompei, con 2,3 milioni di visitatori che hanno portato 19,2 milioni. Terzo posto per gli Uffizi: 1,8 milioni di visitatori e 8,7 milioni di euro. In tutto, i 202 musei e 221 tra monumenti e aree archeologiche gestiti dallo Stato sono stati visitati da 36,4 milioni di persone, per un incasso di 113,3 milioni di euro. A questi vanno aggiunti gli introiti per i servizi ausiliari, come audioguide, visite guidate, bookshop, bar e ristorante: 6,1 milioni di euro
nel 2011, una parte dei 44,5 milioni incassati dai concessionari
privati che hanno in gestione i servizi. Tanto? Poco? Un confronto
colpisce: se si guarda ancora alla Francia e ci si sposta da Versailles
al centro di Parigi, l’anno scorso al Louvre sono entrati ben 9,7 milioni di visitatori (6 milioni i paganti). E l’incasso in biglietteria è stato di 58 milioni di euro,
a cui si aggiungono 15 milioni in servizi ausiliari, 16 in donazioni di
privati e alcune altre voci, per un totale di entrate proprie pari a 100 milioni. Un Louvre da solo, insomma, fa quasi come tutti i musei, i monumenti e le aree archeologiche in Italia.
Ok,
il Louvre è il museo di tutta la Francia, non è paragonabile – dicono
gli esperti – a nessun museo italiano per dimensioni e quantità di opere
esposte. Ma da noi gli indizi di un patrimonio non valorizzato sono
disseminati un po’ ovunque nella lista dei siti statali. Certo,
valorizzare un bene culturale non vuol dire ricavare il più possibile
dai biglietti. Nemmeno a Parigi, del resto, sotto la piramide di vetro
progettata da Pei, riescono a rifarsi dei costi con gli ingressi, visto
che il Louvre nel 2012 ha ricevuto 116 milioni di sovvenzioni statali. Ma viene da chiedersi una cosa: perché in Italia pagano il biglietto meno della metà dei visitatori?
Da noi 204 tra siti e musei sono gratuiti (11,6 milioni di visitatori
nel 2012), mentre nei 219 a pagamento ben 8,7 milioni di persone sono
entrate gratis. In provincia di Piacenza, tanto per non sparare sempre
sul Meridione, l’area archeologica di Lugagnano Val D’Arda è stata
visitata nel 2012 da 11.412 persone: di queste quelle paganti sono state
appena 489, poco più di una al giorno. Se i resti antichi finiscono per
essere interessanti solo per scolaresche e pensionati, forse un
problema di valorizzazione c’è. E i casi analoghi sono tanti, da nord a
sud.
UN PATRIMONIO IMMENSO. CHE NON RIUSCIAMO A GESTIRE. Oltre ai 423 musei e monumenti statali, ce ne sono più di 4mila che dipendono da enti locali o privati, e poi più di 50mila beni archeologici e architettonici vincolati. Un patrimonio immenso, quello del nostro Paese, che ha anche il record mondiale di siti tutelati dall’Unesco: 49 su 981, tra beni culturali e naturali. Un patrimonio talmente vasto che finisce per essere una grana da trattare.
“Altri paesi hanno pochi siti identificabili e quindi riescono a
gestire meglio di noi il loro patrimonio storico-artistico”, commenta
ancora Bertacchini dell’università di Torino. Con un’altra conseguenza:
“Mentre i paesi del Sud Europa sono più legati a politiche di
conservazione, paesi come Inghilterra e Svezia sono riusciti a mettere
prima l’accento sulla produzione culturale contemporanea”.
Un errore il nostro, fa notare Bertacchini, visto che, senza la
creatività delle epoche passate, oggi di beni culturali non ne avremmo
nemmeno mezzo.
Non che i siti di importanza minore vadano lasciati andare in rovina. Innanzitutto c’è l’articolo 9 della Costituzione
che impone la tutela del patrimonio storico e artistico. E poi –
ricorda Bertacchini – sono tutti i siti nel loro complesso, quelli più
importanti e quelli meno, che creano “un paesaggio culturale,
una dimensione tipica dell’Italia”. Proprio ciò che rende il nostro
Paese uno dei più visitati al mondo. “Ma – si chiede Bertacchini – ha
senso aprire tutti i musei al pubblico e quindi metterli in un sistema
che richiede la presenza di custodi e strumenti di fruizione? Forse si
potrebbe pensare a una razionalizzazione dell’offerta.
Tutti i musei piccoli devono rimanere aperti nelle stesse ore o si può
pensare a una turnazione?”. Valutazioni su cui non tutti gli studiosi
sono d’accordo. “Non bisogna utilizzare logiche aziendalistiche –
sostiene Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte
moderna all’università Federico II di Napoli e blogger de
ilfattoquotidiano.it –. Stiamo parlando di ciò che rappresenta l’identità
passata e futura dell’Italia. E' giusto che rimangano aperti anche i
musei con pochi visitatori e va detto che il patrimonio artistico è
fortemente legato al territorio”. Il problema vero, secondo Montanari, è
che per la cultura investiamo molto meno di quello che in media investe il resto dell’Europa.
CON LA CULTURA SI MANGIA? INTANTO SI TAGLIA. Per giustificare i suoi tagli, l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha scelto uno spot: “Con la cultura non si mangia”. Enrico Letta,
nei suoi primi giorni a Palazzo Chigi, ha fatto invece una promessa:
“Se ci saranno altri tagli, mi dimetto”. Non che ci sia più granché da
tirar via, verrebbe però da dire. Il bilancio del ministero dei Beni e delle attività culturali è passato dai 2,7 miliardi di euro del 2001 (lo 0,37 per cento del bilancio totale dello stato) a 1,5 miliardi previsti per il 2013 (appena lo 0,2 per cento del bilancio dello Stato). Il budget 2013 del Mibac è un terzo di quello dell’omologo ministero francese
(circa 4 miliardi) e corrisponde allo 0,11 per cento del Pil (in
Francia è lo 0,24). La cultura, in Italia, pesa sempre meno. E a tutti i
livelli. Secondo il rapporto annuale 2013 di Federculture, dal 2008 a oggi il settore culturale ha perso in tutto 1,3 miliardi di
euro tra risorse pubbliche e private. Investimenti che sono venuti a
mancare non solo a livello centrale, ma anche a livello di enti locali.
Nel 2008 i comuni spendevano in cultura 2,4 miliardi di euro, scesi a
2,1 nel 2011. Le provincie, nello stesso periodo, sono passate da 295
milioni a 213.
I tagli del ministero vanno a pesare su cinema, spettacoli, e poi su tutto il patrimonio costituito da archivi, biblioteche,
musei e monumenti. I fondi a disposizione per gli interventi di
conservazione programmata finalizzati alla tutela dei beni culturali
sono sempre meno. La programmazione straordinaria finanziata con gli introiti del Lotto
è passata da 60,9 milioni nel 2010 a 29,4 nel 2013. Quella ordinaria è
scesa a 47,8 milioni di euro nel 2013, da 87,6 che era nel 2010. Qualche
passo in avanti è stato fatto dall’attuale ministro Massimo Bray, il primo ad avere contemporaneamente in mano sia la delega dei Beni culturali che quella del Turismo: il decreto Valore cultura, appena convertito in Parlamento, prevede circa 200 milioni per il settore culturale finanziati con accise su alcol e oli combustibili, mentre lo sblocco dei fondi strutturali europei consentirà di utilizzare circa 370 milioni di euro per opere di restauro e riqualificazione di siti archeologici e strutture architettoniche, tra i quali anche la Reggia di Caserta.
CON IL BIGLIETTO NON SI MANGIA, MA… Inutile
fare il conto della serva. Con i biglietti dei musei non si incasserà
mai abbastanza per mantenere e conservare i beni culturali. Ma se si
guarda ai settori per cui i beni culturali sono una risorsa, il discorso
cambia. Secondo i dati diffusi dal Mibac, nel 2011 la spesa dei turisti stranieri per vacanze artistico-culturali è stata di 10 miliardi di euro,
il 32,6 per cento del totale sborsato da chi è venuto da noi in
vacanza: 103,7 milioni di persone, 37 milioni delle quali hanno riempito
hotel e ristoranti dei 352 comuni italiani considerati di interesse storico e artistico.
Ma
occhio. Se si punta solo sul turismo per decantare l’importanza dei
beni culturali si corre il rischio di trasformare il paese in un bed and breakfast a cielo aperto: “Troppo sfruttamento turistico mina la sostenibilità fisica e sociale del nostro patrimonio – sostiene Pierluigi Sacco dello Iulm di Milano -. Prendiamo per esempio Venezia,
ormai è una città che si è svuotata di un tessuto sociale”. Non è solo
per il turismo, quindi, che bisogna investire sui beni culturali. E’
necessario un cambio di logica, secondo Sacco: i beni culturali e gli
spettacoli dal vivo vanno considerati come parte integrante di tutta la filiera del settore culturale, che comprende anche le industrie culturali e creative,
ovvero cinema, musica, editoria, videogiochi, e anche architettura,
design, moda e comunicazione. “Un macrosettore che è uno dei più grandi
dell’economia europea”, spiega Sacco. Nel nostro Paese, secondo il
rapporto 2013 ‘Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza
sfida’, elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere, nel suo
complesso il settore culturale ha prodotto un valore aggiunto di 80,8 miliardi di euro (5,8 per cento dell’economia nazionale).
I
profitti che non è possibile fare con i musei, è quindi possibile farli
con l’industria culturale e creativa. Secondo Sacco, “investire sui
beni culturali, che non sono redditizi, serve a creare le condizioni per
riempire di contenuti i settori redditizi”. Ma in Italia questo non
accade: “Non stiamo incentivando la capacità di essere innovativi sulla
produzione culturale, così da attrarre investimenti per rendere
sostenibile il patrimonio storico-artistico”. Ad Abu Dhabi, ricorda il docente, verrà costruita una nuova sede del Louvre.
L’emirato spenderà più di un miliardo di euro e, senza generare
profitti direttamente dal museo, grazie a questo riuscirà ad attrarre
investimenti su altri settori e magari a dare vita a un’industria
creativa. Ora, il caso di Abu Dhabi non è il nostro, che di musei ne
abbiamo già tanti. Ma qualcosa di analogo è accaduto in Spagna, dove a Bilbao – secondo un’analisi fatta per la Ue dai consulenti di Kea European Affairs – il Guggenheim Museum in nove anni ha portato a ricavi diretti e nell’indotto pari a 18 volte il denaro investito nella costruzione dell’edificio.
SE LA REALTA’ AUMENTATA CONTERA’ PIU’ DEL COLOSSEO. Senza
innovazione rischiamo di perdere la sfida del futuro. “Un museo –
spiega Sacco – non può più essere considerato solo come una collezione
di oggetti con una targhetta. Sta cambiando il concetto di fruizione.
La stessa distinzione tra chi produce cultura e il pubblico sta
diminuendo. Oggi anche i fruitori producono contenuti”. In Italia, da
questo punto di vista, si fa poco. E non si investe sullo sviluppo di
tecnologie che permettano di fruire in modo nuovo dei contenuti, come la
realtà aumentata, l’olografia e l’internet delle cose.
Fra
qualche anno rischierà così di cadere quella che per ora è una
certezza, ovvero che i nostri beni culturali hanno un punto di forza:
non possono essere delocalizzati. “Nella fruizione dei siti la realtà
aumentata giocherà un ruolo sempre più importante – spiega Bertacchini
-. Chi controllerà questa tecnologia nella visita al Colosseo, sarà chi
ci guadagnerà”. E così i prodotti a maggior valore aggiunto saranno in
mano a paesi come la Corea del Sud. E a noi non rimarranno che le
briciole.
Fonte
Manco a farlo apposta scrivevo ieri in merito a questo discorso e tac! ecco la lenzuolata del Fattoquotidiano.
Un pezzo interessante ma, a mio avviso, troppo corroborato di cultura aziendalistica nell'analisi del problema cui si aggiunge il provincialismo tutto italiano in merito alle arti moderne che al sottoscritto fanno cagare e la cui implementazione penso abbia creato innumerevoli scempi in questo paese (ovviamente è tutto calibrato sul mio personalissimi senso del bello). Trovo che sia anche una monata la chiusura dell'articolo dedicata alla realtà aumentata. Francamente non esistono sofisticati virtualismi che tengano: tra contemplare il David di Michelangelo nella Galleria dell'Accademia a Firenze e osservarlo attraverso gli occhiali di Google ci passa la stessa differenza esistente tra farsi una vera scopata e chiavarsi un ologramma riprodotto con un occhialino.
Nessun commento:
Posta un commento