Contestare il reato di
immigrazione clandestina senza aprire una contesa più generale per il
controllo dei movimenti di capitale e per un’alternativa di politica
economica, costituisce un suicidio politico. Spunti di riflessione per
una “sinistra” allo sbando, da tempo incapace di dare coerenza logica
alle fondamentali battaglie contro l’avanzata dei movimenti xenofobi e
razzisti.
di Emiliano Brancaccio
Pubblicato sul Financial Times il 23 settembre scorso, il “monito degli economisti”
denuncia la mancata volontà delle classi dirigenti europee di concepire
una svolta negli indirizzi di politica economica, e individua in tale
mancanza una causa delle “ondate di irrazionalismo che stanno investendo
l’Europa” e dei relativi “sussulti di propagandismo ultranazionalista e
xenofobo”. La recente tragedia di Lampedusa costituisce un esempio
terrificante delle conseguenze di questa palese ignavia politica. Il
riferimento non è solo al raccapricciante tentativo del Presidente della
Commissione europea Barroso di mettere un velo su questa vicenda
ricorrendo a una elemosina. Il problema sta pure nel modo in cui le
forze di sinistra si sono lanciate in una battaglia per l’abolizione del
reato di immigrazione clandestina previsto dalla legge Bossi-Fini.
Naturalmente, nessuno qui nega che sia
giusto cercare di intercettare il moto di sdegno che ha attraversato il
paese, di fronte alla notizia che i superstiti del disastro di Lampedusa
subiranno anche la beffa di essere imputati per il reato di
clandestinità. Ma bisogna rendersi conto che oggi più che mai la
politica non può esser fatta solo di sdegno o di mani passate sulla
coscienza. Soprattutto in tempo di crisi, la politica è alimentata in
primo luogo dalla volontà dei singoli e dei gruppi di difendere i propri
interessi, di dar voce alle proprie istanze. Le forze di sinistra
dovrebbero ricordare che siamo nel mezzo di una catastrofe occupazionale
che dall’inizio della crisi ha visto crescere i disoccupati di 7
milioni di unità in Europa e di un milione e mezzo soltanto in Italia.
Per le forze politiche avverse agli immigrati si tratta di una manna, di
un terreno elettorale fertilissimo. Se non si vuole che la lotta contro
il reato di immigrazione clandestina si trasformi in un boomerang dal
punto di vista dei consensi, occorre allora collocare quella lotta in
una più generale analisi della crisi e in uno sforzo di individuazione
delle risposte politiche realmente in grado di fronteggiarla.
A questo scopo, bisognerebbe iniziare a
fare i conti con il nuovo “liberismo pragmatico” di questi ultimi
tempi, che da un lato difende a spada tratta la deregolamentazione
finanziaria e la relativa, completa libertà di movimento internazionale
dei capitali, e dall’altro lato asseconda aperture alternate a
repressioni sul versante delle migrazioni di lavoratori. Il problema è
che fino a quando i capitali potranno liberamente spostarsi da un luogo
all’altro del mondo, la quota del prodotto sociale attribuita ai
profitti e alle rendite resterà indipendente e quindi prioritaria
rispetto alla quota destinata al lavoro. Prima che arrivino a intaccare
seriamente i profitti, le eventuali pressioni salariali e fiscali
verrebbero infatti inibite dalla minaccia di una fuga dei capitali
all’estero. Per i lavoratori residenti, dunque, sotto queste condizioni
non ci saranno molte possibilità di influire sulla distribuzione del
prodotto sociale. Essi saranno costretti a ripartire con gli immigrati
una parte residuale della produzione. Questa ripartizione del residuo
evidentemente rischia di scatenare la più classica guerra tra poveri,
specialmente in una fase in cui la produzione cade o ristagna. Scopo dei
reati di clandestinità e dei controlli repressivi alle frontiere può
allora consistere nel tenere questa guerra a un livello di bassa
intensità. Queste misure assumono cioè il ruolo di “cuscinetto” tra
nativi e stranieri, che può essere sgonfiato o meno a seconda delle
circostanze, e che permette di gestire lo scontro tra lavoratori interni
ed esterni secondo i fini prioritari della riproduzione del capitale.
Qualcuno avrà forse notato che nel ragionamento suddetto non vi è spazio per alcuni tipici luoghi comuni della politica corrente, come quelli secondo cui «l’immigrazione è indispensabile alla nostra economia» oppure «gli immigrati, in quanto giovani, sono gli unici in grado di evitare il collasso del nostro sistema previdenziale». Queste affermazioni trovano il loro appiglio nei teoremi della economia neoclassica dominante, dai quali scaturisce il fantasioso convincimento secondo il quale la disoccupazione non esiste, e quindi l’immigrato contribuisce automaticamente alla crescita del prodotto sociale. Per quanto costituisca tuttora uno degli alibi preferiti da parte dei policymakers europei, questa tesi è priva di fondamento, è smentita dai dati empirici e dai fatti storici. Né vale la tesi della teoria mainstream più recente, secondo cui i mercati del lavoro sarebbero segmentati, per cui il lavoro svolto dagli immigrati sarebbe complementare e non si sostituirebbe mai a quello dei nativi. La verità è che in condizioni di libera circolazione dei capitali – e di relativo smantellamento della produzione pubblica – non è certo la volontà dei singoli ma è il meccanismo di riproduzione capitalistica, con la sua instabilità e le sue crisi, che decide della distribuzione, della composizione e del livello della produzione e dell’occupazione. In un simile contesto l’immigrato non costituisce di per sé un fattore di crescita della ricchezza. Piuttosto, è la dinamica capitalistica a determinare il suo destino, ossia il suo impiego in aggiunta oppure in sostituzione – e quindi in competizione – con i lavoratori nativi. Bisognerebbe insomma guardare in faccia la realtà, e abbandonare sia gli alibi della teoria dominante sia le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli ultimi epigoni del negrismo. Il migrante, infatti, non rappresenta necessariamente né una “forza produttiva” né una “forza complementare” né tantomeno una “forza sovversiva”, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali.
Alla luce di quanto detto, dovrebbe
esser chiara un’esigenza: alle giuste mobilitazioni contro il reato di
immigrazione clandestina bisognerebbe affiancare, in primo luogo, il
rilancio delle proposte finalizzate al controllo politico dei movimenti
di capitale. Dove per controllo dovrebbe intendersi il ridimensionamento
dei mercati finanziari e il riassorbimento, nell’ambito della
dialettica politica, della questione cruciale del riequilibrio dei conti
esteri. Il ripristino di una rete di controlli sui capitali è una delle
condizioni necessarie per impedire che lo scontro distributivo e
occupazionale continui ad esprimersi solo tra i lavoratori, in
particolare tra nativi e migranti. Potremmo affermare, insomma, che se
l’intenzione fosse davvero quella di “liberare” i migranti allora
bisognerebbe iniziare ad “arrestare” i capitali, ad imbrigliarli cioè in
un sistema di controlli simile a quello che sussisteva fino agli anni
’70 del secolo scorso [1]. Se non sussisteranno le condizioni per
collocare la partita per una più civile legislazione sull’immigrazione
in una contesa più generale sulla politica economica, la predizione del
“monito degli economisti” sarà confermata: una sempre più vasta prateria
di consensi verrà lasciata all’onda nera dei movimenti xenofobi.
Nessun commento:
Posta un commento