di Liliana Adamo
Sessanta
trilioni di dollari. Cifra tonda e di per sé necessariamente
speculativa, l’ammontare che l’economia globale sarebbe costretta a
sborsare semmai avvenisse la temuta fusione dell’Artico. Il nuovo studio
divulgato qualche giorno fa dalla rivista Nature esamina
l’impatto sociale ed economico all’origine di una drammatica “rottura”
del permafrost artico, infiammando un animato dibattito sul fronte
internazionale di chi confuta o no le catastrofiche prospettive. E le
previsioni in gioco sono tutt’altro che il risultato d’amene chiacchiere
accademiche.
La storia ha inizio negli anni novanta, all’avvio
della seconda “rivoluzione energetica”, quando, negli ambienti di
ricerca si comincia a discutere di una particolare sostanza presente sui
fondali oceanici, gli idrati di metano fino allora pressoché ignorati,
ritenuti poco più di una curiosità geologica, privi di qualsiasi valore
commerciale.
Il metano biogenico (o idrato di metano),
rilasciato attraverso processi di decomposizione della sostanza
organica, si va accumulando all'interno dei sedimenti, dove può
concentrarsi e risalire in superficie. Se la superficie è un fondale
marino, il gas che si libera è coeso all'acqua fredda più profonda,
dando forma a una sorta di "ghiaccio", le cui molecole si cristallizzano
formando strutture "a gabbia".
Congelando, l'acqua comprime il
gas e il composto assume un'elevatissima densità. Chimicamente, gli
idrati di metano sono costituiti da una molecola di metano e sei di
acqua (CH46H2O), appartengono alla famiglia dei "clatrati", particolari
composti in cui la normale struttura cristallina del ghiaccio si altera
per “modellare” celle chiuse, dette appunto "a gabbia". Perché questo
processo avvenga, sono necessari fattori concomitanti, una bassa
temperatura (-15°C), elevata pressione ambientale (20 bar,
corrispondenti a una profondità marina di poco meno di 200 m),
disponibilità di metano e molecole d’acqua.
Per le particolari
condizioni in cui questi composti si formano e rimangono stabili, la
loro presenza è limitata a tre habitat fondamentali: fondali oceanici,
terreni interessati da permafrost e ghiacci polari. Le condizioni più
favorevoli alla formazione d’idrati di metano si realizzano su grande
scala sui fondali marini, trovandosi a profondità comprese tra i
trecento e i quattromila metri. Sopra tali profondità la compressione non è
sufficiente alla loro formazione, al di sotto, dove sono ottimali le
condizioni di pressione e temperatura, scarseggerebbe la sostanza
organica che dà origine a questa sorta d’idrocarburo gassoso.
Grandi
quantità d’idrati sembrano quindi depositarsi lungo il declivio
continentale, nelle distese abissali, dove si concentrano i sedimenti,
ricchi di sostanza organica, che scivolano dai continenti verso il mare
aperto lungo gli scoscendimenti terrestri. Tuttavia, se le temperature
sono molto basse, gli idrati di metano si formano a pressioni meno
elevate, come, per esempio nelle calotte polari o nei terreni gelati del
permafrost, in vaste zone dell'Alaska e della Siberia.
Occupano
spazi porosi nei sedimenti, per uno spessore di qualche centinaio di
metri. A profondità più elevate, dove la temperatura aumenta a causa del
gradiente geotermico, gli idrati si dissociano in acqua passando allo
stato gassoso e come nei normali giacimenti, costituiscono una sorta di
"crosta" che racchiude metano allo stato aeriforme.
Costituiti da
"gabbie" di ghiaccio che intrappolano molecole gassose, gli idrati di
metano sono composti stabili solo quando avvengono condizioni d’elevate
pressioni e temperature molto basse. Se aumentano le temperature o si
riducono le pressioni, il ghiaccio fonde e il metano si libera in forma
gassosa: la sopravvivenza degli idrati a pressione e temperatura
ambiente è di pochi secondi.
Per questo anche solo il semplice prelievo di campioni di questa
sostanza è molto complesso, poiché, riportato in superficie, la maggior
parte si disperde, mentre particelle minimali possono essere recuperate
sotto forma di solido. Caratteristica, quest’ultima, che rappresenta una
limitazione all'estrazione del metano immagazzinato, ma, soprattutto, è
fonte di gravi problemi ambientali legati al suo utilizzo.
La
fusione del ghiaccio contenuto negli idrati dei fondali oceanici può
avvenire per diverse cause, ma la principale è sicuramente un aumento
nella temperatura dell'acqua. La liberazione del metano in forma gassosa
provoca la formazione di bolle in gas che risalendo si espandono e, una
volta raggiunta la superficie, si disperdono nell'atmosfera. Questo
origina quel caratteristico "ribollio" delle acque interessate dal
fenomeno.
La seconda “rivoluzione energetica” sembra favorire il
metano, soprattutto in virtù della sua eccedenza tra i combustibili
fossili e al fatto che le multinazionali del settore energetico lo
ritengano relativamente “pulito”. La sua molecola è costituita da
quattro atomi d’idrogeno e uno di carbonio (CH4), bruciando, libera
minor quantità di carbonio, producendo emissioni CO2 inferiori del 25%
rispetto alla benzina e del 50% rispetto a gasolio e Gpl. Inoltre, le
emissioni sono esenti da residui - benzene e polveri sottili - dannosi
alla salute e principali imputati dell’effetto serra.
Si calcola
che sui fondali marini e nelle zone di permafrost siano presenti più di
100.000 milioni di miliardi di metri cubi di metano, intrappolati sotto
forma d’idrati. In pratica, la quantità sfruttabile potrebbe essere due
ordini di grandezza superiore rispetto alla quantità di metano sul
pianeta per fornire circa il doppio dell’energia ricavabile da tutti i
depositi per combustibili fossili presenti allo stato attuale.
Per
questo ci si avvia all’individuazione dei giacimenti, ma la ricerca
appare almeno discutibile. A oggi si utilizzano metodi geofisici che
ottengono il massimo rendimento dalle proprietà nei livelli ricchi
d’idrato che, a loro volta, riflettono onde sismiche. Appositi sistemi
(“cannoni” ad aria compressa per le indagini in mare), provocano
propagazione di onde sismiche, il fenomeno è chiamato Bottom Simulating
Reflectors, attraversando rocce sotto i fondali, si ottengono, fra
l’altro, vere e proprie “ecografie” con “profili sismici” di questi
strati rocciosi.
A scopo scientifico e commerciale, con
l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale,
coadiuvato dalla nave OGS - Explora, pochi sanno che il nostro paese è
all’avanguardia in questo tipo di ricerche. Seguono lo statunitense
Brookhaven National Laboratory, che conduce test sulla creazione di
queste molecole in laboratorio e la Chevron - Texaco, finanziata
direttamente dal Dipartimento dell’Energia e dalla stessa compagnia
petrolifera.
Nel 2005, durante trentacinque giorni di spedizione
nel Golfo del Messico, sono stati studiati e prelevati campioni d’idrati
fino a 1300 metri di profondità, grazie a piccoli sommergibili, molto
funzionali; scopo della missione, ottenere la liberazione del metano
imprigionato nel ghiaccio, senza provocarne la dispersione
nell’ambiente, consentendo la dissociazione e il recupero del gas
direttamente dai sedimenti. Negli Stati Uniti, il Dipartimento
dell’Energia ha avviato un programma che, verosimilmente, potrebbe
passare alla produzione commerciale di metano ricavato dagli idrati, già
dal 2015.
Ciò che ci interessa sapere è in che modo l’idrato
(molto più opaco all’infrarosso della CO2), sia, in realtà, una sostanza
addirittura con effetti più devastanti - venti volte superiori a quello
dell’anidride carbonica - per l’ambiente. Se, fino a oggi, le
conseguenze sono state quasi nulle, testimonianze geologiche dimostrano
senz’ombra di dubbio, che a periodi climaticamente più caldi si
associano aumenti della concentrazione di metano nell’atmosfera.
E
dunque, potenzialmente, lo sfruttamento degli idrati può esporci al
pericolo di liberare grandi quantità di metano (in modo “accidentale”
com’è successo per il petrolio, o come “danno collaterale” di un normale
processo estrattivo). Allo stesso modo, il riscaldamento degli oceani
dovuto al global warming porterebbe alla fusione di grandi quantità
d’idrati, sui fondali, nei terreni e nei permafrost dei ghiacci polari,
liberando metano nell’atmosfera con effetti i cui esiti appaiono
difficilmente prevedibili.
Il “contributo” umano al
surriscaldamento globale si è dimostrato decisivo, ma consideriamo di
bruciare l’intera risorsa di combustibili fossili a nostra disposizione,
ciò equivarrebbe a 200 miliardi di tonnellate di CO2 scaricate
nell’atmosfera terrestre; nulla al confronto con la possibilità che
dagli idrati si scatenino 10.000 miliardi di tonnellate di metano, senza
contare che dai sedimenti continentali, in assenza d’idrati, si
formerebbe materiale non compatto e instabile, con l’innesto di larghi
fenomeni franosi nelle aree soggette a prelievi e “alterazione”
dell'ambiente dovuta al surriscaldamento.
Al
particolare interesse delle multinazionali sulle enormi riserve
intrappolate in Siberia Orientale e in tutto l’Artico (regione
nordamericana dell’Alaska in primis), la scienza oppone un concetto
terribilmente semplice: qualora questi depositi congelati in forma
d’idrati di metano, fossero “liberati”, le retroazioni sarebbero di una
tale portata da far aumentare (drammaticamente), il tasso di
surriscaldamento del pianeta e ciò nondimeno (com’è già avvenuto in
passato), politici e lobby finanziarie fanno orecchie da mercante.
Come sostiene John Vidal (The Guardian),
per sfruttare pozzi ricchi di gas e petrolio, governi e industrie
attendevano con impazienza lo scioglimento delle regioni artiche,
prevedendo in un evento di per sé catastrofico, una “personale
benedizione”. Eppure il rilascio di un singolo impulso dal gigante del
metano ci esporrebbe a cambiamenti climatici apocalittici e a un conto
pari a sessanta trilioni di dollari, un collasso per l’economia globale.
“Una bomba a orologeria” ha commentato Gail Whiteman, analista presso
l’Università Erasmus di Rotterdam, co-autrice, fra l’altro, del famoso
rapporto.
Il ghiaccio nel Mare Artico si ritrae a un tasso senza
precedenti. Il trend negativo è stato raggiunto nel 2012, quando è
crollato sotto i 3,5 milioni di kmq, cancellando la sua estensione del
40% rispetto agli anni ’70. Un vero record, considerando che le età
geologiche della Terra si misurano in centinaia se non in migliaia di
anni. Il manto siderale perde anche il suo spessore a tal punto che gli
scienziati prevedono il totale scioglimento del ghiaccio estivo entro il
2020. Il punto è che se il ghiaccio artico si ritira, il consecutivo
riscaldamento del mare permetterà al permafrost di liberare grandi
quantità di metano: una gigantesca riserva di gas serra sotto forma
d’idrati potrebbe sconvolgere il clima terrestre nei cinquanta anni
successivi.
Fonte
Come cantavano gli Articolo 31 in "2030", finiremo per uscire di casa con la maschera anti-gas, o peggio ancora, la tuta NBC sempre addosso.
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