Una perizia dell'Ispra depositata nel processo "Enel bis" a Rovigo per la prima volta calcola i costi della mortalità e dei danni ambientali per le emissioni in eccesso prodotte dall'impianto termoelettrico a olio. La quantificazione del danno potrebbe costituire un precedente anche rispetto ad altri casi, da Vado Ligure a Brindisi. "Chi inquina paga", esultano gli ambientalisti, ma per i legali della società si tratta di una stima "abnorme".
Un risarcimento da 3,6 miliardi per
danno ambientale e sanitario. Questa la cifra che i periti dell’Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) hanno quantificato, per la prima volta, rispetto all’impatto economico per lo Stato della centrale di Porto Tolle, in provincia di Rovigo: 2,6 miliardi di danni sanitari, essenzialmente per la mortalità in eccesso, più un miliardo per omessa ambientalizzazione. Centrale gestita da Enel, colosso energetico italiano e seconda utility quotata in Europa, a processo per disastro ambientale. A chiedere la perizia, firmata da Leonardo Arru su
incarico dell’avvocatura di Stato, i ministeri di Ambiente e
Salute, parte civile nel procedimento – denominato ‘Enel bis’ – insieme
alle associazioni.
Una notizia che non piace (quasi) a nessuno, tanto che a parlarne è solo la stampa locale. Non piace a Enel che a fine dicembre aveva esultato per una riduzione dell’indebitamento da 42 a 40 miliardi ora virtualmente gravato dal rischio di future, pesantissime, passività. Non piace al governo
che tramite il Tesoro (31,2%) è il primo azionista di riferimento e
carezzava da tempo l’idea di vendere quote per fare cassa. E ora si
trova in mezzo a una surreale disputa tra ministeri in cui lo Stato fa
causa a se stesso. Sarà poi pane per le agenzie di rating che da mesi incrociano un balletto di svalutazioni e rivalutazioni su titolo e prospettive della seconda società italiana per capitalizzazione di Borsa
La perizia è di fine novembre 2013
ma è rimasta confinata nell’ambito del procedimento che si tiene al
tribunale di Rovigo per disastro ambientale che è prossimo alla
conclusione (la sentenza è prevista per marzo 2014). Eppure potrebbe –
secondo il legale di parte civile Matteo Ceruti – diventare un precedente per una serie di situazioni pendenti ad altissimo impatto ambientale oggetto d’indagine o di processi di riconversione: dalla Tirreno Power
(ex Enel oggi gruppo De Benedetti) di Vado Ligure (Savona), per la
quale la locale procura indaga per gli stessi capi di imputazione,
passando per le centrali di Brindisi (Enel), Monfalcone in provincia di Gorizia (A2a), Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia (Enel).
Non a caso associazioni ambientaliste che si sono costituite nel processo, come Greenpeace, ritengono la perizia un significativo passo avanti non solo per l’entità dell’importo risarcitorio richiesto ma perché mette in chiaro il principio per cui ‘chi inquina paga’. Il conto arriva sul Delta del Po per
cause di ordine storico, industriale e perfino politico. La centrale
costruita negli anni Ottanta a pieno regime emetteva più anidride solforosa (SO2 ) di qualunque altro impianto fisso in Italia. Ancora nel 2002 si stima sprigionasse da sola il 10% di tutte le emissioni di
SO2 imputabili a qualsiasi altra fonte sul territorio nazionale. Per i
reati ambientali connessi al funzionamento della centrale, la responsabilità dei direttori dell’impianto e degli amministratori delegati di Enel spa dell’epoca, Paolo Scaroni e Franco Tatò, è stata definitivamente accertata in Cassazione nel 2011 ma i reati erano ormai prescritti: restavano le conseguenze patrimoniali che la corte d’appello di Venezia sta quantificando.
Ulteriori indagini e perizie hanno poi permesso di accertare il nesso causale tra le emissioni e le conseguenze di ordine ambientale e sanitario sulla popolazione, in particolare sui bambini. Così è partito il processo “Enel bis”
che vede oggi imputati una decina di dirigenti Enel che si sono
avvicendati tra il 1998 e il 2009. Secondo la procura di Rovigo, che
procede per disastro doloso, avrebbero trascurato
l’installazione di impianti che avrebbero consentito di tutelare la
salute dei residenti e del territorio provocando un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri
per malattie respiratorie della popolazione infantile. A comparire
davanti al collegio saranno anche l’attuale amministratore delegato Fulvio Conti
e i suoi predecessori. E’ in questo procedimento che il ministero
dell’Ambiente, parte civile insieme a quello della Salute, tramite
l’avvocatura dello Stato distrettuale di Venezia, ha chiesto di valutare
anche i danni economici per lo Stato. Danni per l’appunto quantificati in 3,6 miliardi. Ecco il documento.
“Un anno di vita perso vale 40mila euro” - Gli enti locali a corto di soldi stanno uscendo dal processo penale in cambio di noccioline: 130mila euro a testa per cinque Comuni emiliani, più 500mila euro per il Parco regionale del Delta del Po. In tutto 1,1 milioni
di euro. Di ancor meno si accontentano gli enti locali veneti (fuorché
la Provincia di Rovigo e i Comune di Rosolina e Porto Tolle che sono
rimasti come parti civili). Risarcimenti a fronte dei quali le parti si
impegnano, tra l’altro, a rinunciare a eventuali pretese o azioni
giudiziarie future connesse al funzionamento della centrale sino al
2009. E a questo punto tocca vedere se lo Stato, invece, venderà cara la
pelle.
“Una valutazione cautelativa”: come viene calcolato il danno Il tecnico che ha firmato la perizia ha portato in aula i calcoli fatti per il periodo 1998-2009, riguardo alla diffusione di biossido di Zolfo (SO2) sulla base delle emissioni dichiarate da Enel al registro internazionale delle emissioni. La stima monetaria è stata fatta utilizzando la metodologia elaborata dall’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) e – avverte il perito – “con un orientamento cautelativo” (leggi nel box). Non quantifica, tra l’altro, taluni tipi di impatti come i danni all’ecosistema
da acidificazione e deposito di ozono o quelli agli edifici e al
patrimonio culturale. Ma si avvicina molto al danno presunto, anche
perché alternativa non c’è visto che “non si può stabilire generalmente
il danno ritenendolo linearmente proporzionale ai carichi di
inquinamento”. Si può, invece, circoscrivere l’addendum di emissioni in eccesso
che qualificano e quantificano il peggioramento del profilo emissivo, e
moltiplicarlo per unità di costo-vita, laddove esistano indici di
mortalità correlabili. Ebbene secondo il perito del ministero dal ’98 al 2009 ci sarebbero 2,6 miliardi di euro di danni connessi al rilascio di 418mila tonnellate di SO2 in eccesso rispetto a quelli rilasciati qualora la centrale avesse operato in un ipotetico regime a gas metano,
come imponeva di fare la legge regionale veneta del 1997 istitutiva del
Parco del Delta del Po. Ciascuna tonnellata viene moltiplicata per
diversi coefficienti individuati in sede europea.
La difesa di Enel: “Cifra abnorme e analisi infondata” – Enel, dalla sua, ha già contestato queste cifre come “abnormi”, ritenendo del tutto “infondata” l’analisi dell’Ispra. In
particolare, secondo la difesa del colosso energetico, il consulente ha
preso a riferimento unicamente le emissioni della centrale senza dare
alcuna importanza ai rilevamenti delle cadute a terra di altri inquinanti.
Inoltre, secondo i legali Enel, ha considerato come emissioni in
eccesso tutte quelle superiori a quelle previste dal decreto
ministeriale del 1990 che prevedeva, invece, specifiche deroghe normative per Porto Tolle che la centrale ha rispettato. Ma chi le ha messe quelle deroghe? La politica che sulla vicenda non ha mai mollato la presa. Non solo facendo generose concessioni normative sui limiti di emissioni, ma arrivando a tentare di condizionare l’attività di indagine della procura.
Deroga e dilazioni: 20 anni di politica sotto il traliccioLa politica e
le emissioni, la politica e il colosso nazionale dell’energia. Un
rapporto sempre stretto che si fa strettissimo quando serve. La centrale
di Porto Tolle doveva essere “ambientalizzata”, cioè ricondotta a tetti
di emissione imposti dall’Europa e vigenti per il resto del Paese, fin dal 1990.
E invece fino a oggi ha mantenuto impianti di combustione a olio con
tecnologia da anni Sessanta. Come è stato possibile? Con l’aiuto della
politica che ha sempre trovato, a livello centrale e locale, le giuste deroghe e scappatoie per evitare a Enel un intervento di adeguamento oneroso. Il
primo processo penale, quello che ha visto riconoscere la
responsabilità degli amministratori dell’epoca per i reati ambientali,
ha accertato poi che nonostante le deroghe per l’ambientalizzazione
Porto Tolle è stata tenuta scientemente per ultima con ulteriore danno
per l’ambiente. Da qui le condanne. Avanti dieci anni, si parla di
riconversione ma non a metano, bensì a carbone. Costerebbe a Enel 2,7 miliardi ma
il punto è che non porterebbe mirabili riduzioni degli inquinanti,
anzi. Il progetto tiene banco per anni con le associazioni
ambientaliste, operatori turistici e pescatori che si mettono di
traverso e riescono, nel 2011, a far annullare dal Consiglio di Stato il
decreto di Valutazione di impatto ambientale (Via). I giudici accolgono
i rilievi sollevati e riconoscono che non è stata fatta una valutazione
alternativa rispetto all’ipotesi del carbone. In particolare sul gas
metano, visto che a 10 km dalla centrale c’è il più grande terminale gasifero offshore
al mondo (il rigassificatore di Porto Viro, di proprietà dell’emiro del
Quatar), realizzato proprio nella prospettiva di alimentare la centrale
di Polesine Camerini. Ma i due impianti non saranno mai collegati
perché il metano costa più del carbone. Poi il colpo di scena:
nell’estate del 2011 prima il parlamento e poi Regione Veneto modificano le leggi, statali e regionali, rendendo non più necessarie valutazioni alternative. Una coincidenza temporale? Forse. Fatto
sta che così facendo si consente di porre nel nulla la sentenza del
Consiglio di Stato e di agevolare la nuova Via per il progetto a
carbone, attualmente in corso presso il Ministero dell’ambiente.
Parallelamente la politica trova modo di mettere lo zampino direttamente
sulle inchieste.
Gli interventi a gamba tesa sui magistrati che indagano
Se la politica tenta a frenare i magistrati della Procura
di Rovigo. “Diciamo che è un dato di fatto che tutti quelli che hanno
la lavorato a questa vicenda hanno avuto qualche problema”, ricorda
l’avvocato di parte civile Ceruti. Il riferimento, neanche troppo
velato. Il riferimento, neanche troppo velato, è all’avvocato dello Stato Giampaolo Schiesaro, fatto
oggetto di pressanti consigli, da parte di un agente dei servizi caduto
in disgrazia, di “allentare la presa” sul processo Enel. Ma anche alla
richiesta di azione disciplinare nei confronti del pm Manuela Fasolato avanzata dal Pd Luciano Violante e dal ministro Pdl Angelino Alfano.
Il filo delle future larghe intese, improvvisamente, si stringeva
intorno al collo di chi rischiava di intaccare interessi che non vanno
toccati. La storia è nota. E’ il 2010 e il pm sta lavorando a diversi
filoni d’inchiesta sulla centrale ipotizzando legami tra le emissioni e
l’aumento dell’incidenza di malattie nei territori circostanti
l’impianto. Sulla centrale pende l’iter della Valutazione d’impatto
ambientale per il progetto di riconversione che vale, sulla carta, 4mila posti di lavoro
e 2 miliardi e mezzo di investimento. Il pm comunica però agli enti
interessati, ministero dell’Ambiente e Commissione di Via, le risultanze
di alcune perizie che mettono i dubbio la veridicità dei dati del
progetto depositato da Enel: un via libera senza una loro verifica
avrebbe potuto aggravare il quadro dei reati e comportare ulteriori
conseguenze per ambiente e popolazione. Apriti cielo. A Cortina Incontra, il 5 gennaio 2010, Violante nella inedita veste di presidente della associazione Italia decide, si espone in prima persona chiedendo un’ispezione. Sarebbero solo parole in libertà, se non fosse per un dettaglio: Enel
è tra i soci fondatori di Italia decide. Ma la coincidenza non
impedisce al ministro Alfano di prendere in esame le doglianze di
Violante e di inviare a Rovigo il capo degli ispettori Arcibaldo Miller
(poi coinvolto nell’indagine della cosiddetta P3) con contestazioni
varie e fantasiose (come quella di aver lavorato, su autorizzazione dei
superiori, al processo Enel mentre era impegnata come commissario nel
concorso per gli esami nazionali in magistratura). Fasolato, nel
frattempo trasferita alla Procura generale presso la Corte d’Appello di
Brescia, ha chiesto ed ottenuto dal CSM di essere applicata a questo
processo davanti al Tribunale di Rovigo, ed ancor oggi è ancora lì che
non molla. E la centrale dei veleni pure.
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