Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

15/01/2014

Thailandia, l’opposizione “chiude” Bangkok

di Mario Lombardo

Con l’inizio della settimana ha preso il via in Thailandia il blocco della capitale, Bangkok, minacciato dall’opposizione anti-governativa che chiede da mesi le dimissioni immediate del primo ministro, Yingluck Shinawatra, per procedere con una serie di “riforme” del sistema politico. Alle prime manifestazioni di protesta nella giornata di lunedì hanno preso parte più di 100 mila manifestanti, mentre il governo e gli altri centri di potere thailandesi stanno cercando di trovare una soluzione alla crisi che eviti lo scivolamento nel caos di un paese sul quale continua a pesare la minaccia di un nuovo colpo di stato militare.

Il primo giorno della paralisi di Bangkok ha così costretto alla chiusura molte scuole, negozi ed uffici pubblici, alcuni dei quali hanno però riaperto già martedì. Svariate arterie stradali della capitale sono state inoltre occupate dalle manifestazioni, così che la metropoli di quasi 8 milioni di abitanti è apparsa insolitamente priva di traffico in alcune aree del centro.

Sempre martedì, poi, i partecipanti alle proteste, coordinate dal cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), hanno marciato verso i palazzi dei ministeri degli Esteri, del Lavoro e del Commercio, occupandoli simbolicamente ed evacuandoli poco dopo. Le proteste sono rimaste per ora pacifiche, anche se maggiori tensioni potrebbero causare nei prossimi giorni gli eventuali blocchi del quartier generale della compagnia Aerothai, che gestisce il traffico aereo nel paese, e della sede della Borsa, come minacciato da un gruppo allineato al PDRC, la Rete degli Studenti e del Popolo per la Riforma della Thailandia.

Per cercare di calmare gli animi, la premier Yingluck ha invece proposto un incontro tra le varie parti per discutere una recente proposta avanzata dalla Commissione Elettorale di rimandare di un mese le elezioni anticipate previste per il 2 febbraio, indette dallo stesso capo del governo dopo lo scioglimento del Parlamento seguito alle dimissioni di massa dei deputati del Partito Democratico di opposizione.

Il portavoce del PDRC, Akanat Promphan, ha però fatto sapere che la sua organizzazione non parteciperà alla riunione, così come in precedenza il leader dei manifestanti, l’ex vice-premier e già deputato del Partito Democratico, Suthep Thaugsuban, aveva assicurato i suoi sostenitori che non ci sarebbe stato alcun negoziato né compromesso con il governo.

Yingluck, perciò, dopo avere ribadito la sua intenzione di rimanere al proprio posto fino alla data del voto, mercoledì dovrebbe limitarsi ad incontrare i membri della Commissione Elettorale. Il vertice si terrà significativamente presso una base dell’aeronautica thailandese, a conferma del ruolo fondamentale delle forze armate. Queste ultime hanno finora ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale pur essendo state protagoniste nel 2006 di un golpe che rimosse dalla guida del governo il fratello dell’attuale premier, Thaksin Shinawatra, al culmine di una crisi dai contorni simili a quella odierna.

A dimostrazione dei timori diffusi tra le forze di governo, un portavoce dell’esecutivo qualche giorno fa aveva parlato di un piano segreto dell’opposizione per provocare un colpo di stato militare tramite la messa in scena di un attacco violento contro gli stessi manifestanti. L’unico episodio riconducibile ad una possibile provocazione è stato per ora registrato nella mattinata di lunedì, quando alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi in un locale di fronte alla sede del Partito Democratico a Bangkok.

Episodi simili potrebbero ripetersi in concomitanza con l’escalation della crisi e far scattare un qualche intervento dei militari. Tanto più che la settimana scorsa il potente comandante delle forze armate, generale Prayuth Chan-ocha, aveva avvertito che l’esercito è pronto a intervenire per “proteggere il paese” nel caso una delle parti “violi la legge e l’altra risponda con la violenza”.

Rappresentando gli interessi dei tradizionali centri di potere thailandesi - di cui le forze armate fanno parte - gli organizzatori delle proteste di questi mesi hanno d’altra parte come obiettivo un colpo di mano dei militari per rimuovere l’attuale governo, quanto meno se non fosse possibile ottenere la loro principale richiesta.

Quest’ultima, come è ormai noto, è la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto e formato da personalità legate agli ambienti reali, al potere giudiziario e agli stessi vertici militari, con il compito di implementare una serie di “riforme” che sradichino l’influenza della famiglia Shinawatra dal sistema politico thailandese e rendano impossibili future minacce agli equilibri di potere consolidati.

La colpa dell’ex premier in esilio Thaksin agli occhi dell’opposizione è sostanzialmente quella di avere emarginato i tradizionali detentori del potere in Thailandia, utilizzando metodi sempre più autoritari e al limite della legalità per prolungare la sua permanenza alla guida del paese e favorire i suoi enormi interessi economici.

Nel mettere in atto questo progetto, il clan Shinawatra ha costruito una solida base elettorale soprattutto nelle aree rurali settentrionali, solitamente emarginate dal sistema e che hanno beneficiato di limitate politiche di riforma sociale, come la creazione di un sistema sanitario virtualmente gratuito.

Proprio il timore di una mobilitazione di queste forze e l’esplosione di uno scontro sociale di vaste proporzione sembra essere stato finora il deterrente di una possibile evoluzione della crisi thailandese verso la dittatura militare o l’imposizione di un governo non legittimato dal voto popolare. Lo stesso governo e i gruppi extra-parlamentari vicini alla famiglia Shinawatra, peraltro, stanno cercando di gettare acqua sul fuoco, così da evitare il ripetersi della crisi del 2010, quando a manifestare contro il governo del Partito Democratico imposto dai militari furono i sostenitori di Thaksin e la loro protesta fu repressa nel sangue.

In quell’occasione, come potrebbe accadere a breve, una parte delle centinaia di migliaia di manifestanti appartenenti alle classi più disagiate cominciò ad avanzare richieste di giustizia sociale che andavano ben al di là del programma politico di Thaksin e della sua cerchia. Anche per questa ragione, dunque, i leader delle cosiddette “camicie rosse” continuano ora ad escludere una mobilitazione contro il PDRC, augurandosi che siano le elezioni a riportare la calma nel paese sotto la guida di un nuovo governo dell’attuale premier.

Anche nel caso le elezioni anticipate dovessero andare regolarmente in porto, però, il partito di governo - Pheu Thai - sarebbe con ogni probabilità esposto agli attacchi di un’opposizione che ha deciso di boicottare le urne. A causa delle manifestazioni di protesta, infatti, il processo di registrazione delle candidature per il Parlamento è risultato incompleto, visto che ne sono state presentate a sufficienza solo per coprire il 94 per cento dei seggi della Camera bassa. La costituzione thailandese richiede invece che la quota minima sia almeno del 95 per cento.

Con un simile scenario, la pressoché certa vittoria del partito Pheu Thai finirebbe al centro di una contesa legale che potrebbe stravolgere l’esito del voto, portando ad un nuovo colpo di stato giudiziario, come avvenne nel 2008 con la rimozione in un’aula di tribunale del governo guidato dai sostenitori di Thaksin.

I tentativi di percorrere questa strada sono d’altra parte già risultati evidenti qualche giorno fa, quando la Commissione Nazionale Anti-Corruzione ha aperto un procedimento legale contro oltre 300 parlamentari - quasi tutti del partito di governo - i quali rischiano il bando da qualsiasi attività politica per avere votato a favore di una modifica alla costituzione per rendere elettivi tutti i seggi del Senato thailandese.

Questa iniziativa, successivamente bocciata dalla Corte Costituzionale, era stata adottata dal governo e, assieme al tentativo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito a Thaksin di rientrare in patria nonostante la condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, nel mese di novembre aveva innescato le proteste che stanno tuttora agitando il paese del sud-est asiatico.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento