di Mario Lombardo
Con l’inizio della settimana ha preso il via in Thailandia il blocco
della capitale, Bangkok, minacciato dall’opposizione anti-governativa
che chiede da mesi le dimissioni immediate del primo ministro, Yingluck
Shinawatra, per procedere con una serie di “riforme” del sistema
politico. Alle prime manifestazioni di protesta nella giornata di lunedì
hanno preso parte più di 100 mila manifestanti, mentre il governo e gli
altri centri di potere thailandesi stanno cercando di trovare una
soluzione alla crisi che eviti lo scivolamento nel caos di un paese sul
quale continua a pesare la minaccia di un nuovo colpo di stato militare.
Il
primo giorno della paralisi di Bangkok ha così costretto alla chiusura
molte scuole, negozi ed uffici pubblici, alcuni dei quali hanno però
riaperto già martedì. Svariate arterie stradali della capitale sono
state inoltre occupate dalle manifestazioni, così che la metropoli di
quasi 8 milioni di abitanti è apparsa insolitamente priva di traffico in
alcune aree del centro.
Sempre martedì, poi, i partecipanti alle
proteste, coordinate dal cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma
Democratica (PDRC), hanno marciato verso i palazzi dei ministeri degli
Esteri, del Lavoro e del Commercio, occupandoli simbolicamente ed
evacuandoli poco dopo. Le proteste sono rimaste per ora pacifiche, anche
se maggiori tensioni potrebbero causare nei prossimi giorni gli
eventuali blocchi del quartier generale della compagnia Aerothai, che
gestisce il traffico aereo nel paese, e della sede della Borsa, come
minacciato da un gruppo allineato al PDRC, la Rete degli Studenti e del
Popolo per la Riforma della Thailandia.
Per cercare di calmare
gli animi, la premier Yingluck ha invece proposto un incontro tra le
varie parti per discutere una recente proposta avanzata dalla
Commissione Elettorale di rimandare di un mese le elezioni anticipate
previste per il 2 febbraio, indette dallo stesso capo del governo dopo
lo scioglimento del Parlamento seguito alle dimissioni di massa dei
deputati del Partito Democratico di opposizione.
Il portavoce del
PDRC, Akanat Promphan, ha però fatto sapere che la sua organizzazione
non parteciperà alla riunione, così come in precedenza il leader dei
manifestanti, l’ex vice-premier e già deputato del Partito Democratico,
Suthep Thaugsuban, aveva assicurato i suoi sostenitori che non ci
sarebbe stato alcun negoziato né compromesso con il governo.
Yingluck,
perciò, dopo avere ribadito la sua intenzione di rimanere al proprio
posto fino alla data del voto, mercoledì dovrebbe limitarsi ad
incontrare i membri della Commissione Elettorale. Il vertice si terrà
significativamente presso una base dell’aeronautica thailandese, a
conferma del ruolo fondamentale delle forze armate. Queste ultime hanno
finora ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale pur essendo
state protagoniste nel 2006 di un golpe che rimosse dalla guida del
governo il fratello dell’attuale premier, Thaksin Shinawatra, al culmine
di una crisi dai contorni simili a quella odierna.
A
dimostrazione dei timori diffusi tra le forze di governo, un portavoce
dell’esecutivo qualche giorno fa aveva parlato di un piano segreto
dell’opposizione per provocare un colpo di stato militare tramite la
messa in scena di un attacco violento contro gli stessi manifestanti.
L’unico episodio riconducibile ad una possibile provocazione è stato per
ora registrato nella mattinata di lunedì, quando alcuni colpi di arma
da fuoco sono stati esplosi in un locale di fronte alla sede del Partito
Democratico a Bangkok.
Episodi
simili potrebbero ripetersi in concomitanza con l’escalation della
crisi e far scattare un qualche intervento dei militari. Tanto più che
la settimana scorsa il potente comandante delle forze armate, generale
Prayuth Chan-ocha, aveva avvertito che l’esercito è pronto a intervenire
per “proteggere il paese” nel caso una delle parti “violi la legge e
l’altra risponda con la violenza”.
Rappresentando gli interessi
dei tradizionali centri di potere thailandesi - di cui le forze armate
fanno parte - gli organizzatori delle proteste di questi mesi hanno
d’altra parte come obiettivo un colpo di mano dei militari per rimuovere
l’attuale governo, quanto meno se non fosse possibile ottenere la loro
principale richiesta.
Quest’ultima, come è ormai noto, è la
creazione di un “consiglio del popolo” non eletto e formato da
personalità legate agli ambienti reali, al potere giudiziario e agli
stessi vertici militari, con il compito di implementare una serie di
“riforme” che sradichino l’influenza della famiglia Shinawatra dal
sistema politico thailandese e rendano impossibili future minacce
agli equilibri di potere consolidati.
La colpa dell’ex premier in
esilio Thaksin agli occhi dell’opposizione è sostanzialmente quella di
avere emarginato i tradizionali detentori del potere in Thailandia,
utilizzando metodi sempre più autoritari e al limite della legalità per
prolungare la sua permanenza alla guida del paese e favorire i suoi enormi
interessi economici.
Nel mettere in atto questo progetto, il clan
Shinawatra ha costruito una solida base elettorale soprattutto nelle
aree rurali settentrionali, solitamente emarginate dal sistema e che
hanno beneficiato di limitate politiche di riforma sociale, come la
creazione di un sistema sanitario virtualmente gratuito.
Proprio
il timore di una mobilitazione di queste forze e l’esplosione di uno
scontro sociale di vaste proporzione sembra essere stato finora il
deterrente di una possibile evoluzione della crisi thailandese verso la
dittatura militare o l’imposizione di un governo non legittimato dal
voto popolare. Lo stesso governo e i gruppi extra-parlamentari vicini
alla famiglia Shinawatra, peraltro, stanno cercando di gettare acqua sul
fuoco, così da evitare il ripetersi della crisi del 2010, quando a
manifestare contro il governo del Partito Democratico imposto dai
militari furono i sostenitori di Thaksin e la loro protesta fu repressa
nel sangue.
In quell’occasione, come potrebbe accadere a breve,
una parte delle centinaia di migliaia di manifestanti appartenenti alle
classi più disagiate cominciò ad avanzare richieste di giustizia sociale
che andavano ben al di là del programma politico di Thaksin e della sua
cerchia. Anche per questa ragione, dunque, i leader delle cosiddette
“camicie rosse” continuano ora ad escludere una mobilitazione contro il
PDRC, augurandosi che siano le elezioni a riportare la calma nel paese
sotto la guida di un nuovo governo dell’attuale premier.
Anche
nel caso le elezioni anticipate dovessero andare regolarmente in porto,
però, il partito di governo - Pheu Thai - sarebbe con ogni probabilità
esposto agli attacchi di un’opposizione che ha deciso di boicottare le
urne. A causa delle manifestazioni di protesta, infatti, il processo di
registrazione delle candidature per il Parlamento è risultato
incompleto, visto che ne sono state presentate a sufficienza solo per
coprire il 94 per cento dei seggi della Camera bassa. La costituzione
thailandese richiede invece che la quota minima sia almeno del 95 per
cento.
Con un simile scenario, la pressoché certa vittoria del
partito Pheu Thai finirebbe al centro di una contesa legale che potrebbe
stravolgere l’esito del voto, portando ad un nuovo colpo di stato
giudiziario, come avvenne nel 2008 con la rimozione in un’aula di
tribunale del governo guidato dai sostenitori di Thaksin.
I
tentativi di percorrere questa strada sono d’altra parte già risultati
evidenti qualche giorno fa, quando la Commissione Nazionale
Anti-Corruzione ha aperto un procedimento legale contro oltre 300
parlamentari - quasi tutti del partito di governo - i quali rischiano il
bando da qualsiasi attività politica per avere votato a favore di una
modifica alla costituzione per rendere elettivi tutti i seggi del Senato
thailandese.
Questa iniziativa, successivamente bocciata dalla
Corte Costituzionale, era stata adottata dal governo e, assieme al
tentativo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito a Thaksin
di rientrare in patria nonostante la condanna a suo carico per
corruzione e abuso di potere, nel mese di novembre aveva innescato le
proteste che stanno tuttora agitando il paese del sud-est asiatico.
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