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20/01/2014

Turchia verso il voto, Erdogan pensa alla censura


In Turchia ci si sta preparando alle prossime elezioni amministrative di fine marzo. Per le strade delle grandi città, come sui muri dei paesi, i faccioni con i baffi dei politici turchi fanno bella mostra di sé in ogni dove. Già, sembra che il baffo sia di moda; anche se non mancano delle curatissime barbe e qualcuno che sfoggia una rasatura perfetta. Pochissimi i cartelloni dove io ho visto dei candidati donna, delle candidate, ma ricordo che c’è qualche paese che per dare spazio al sesso debole ha inventato le “quote rosa”.

Partendo da questa piccola fotografia voglio raccontare quello che è successo a Istanbul, la città in cui vivo, negli ultimi tre giorni. Questi ultimi tre giorni, infatti, sono stati importanti per capire quali possano essere i possibili scenari per le prossime elezioni. Poiché era dai tempi degli eventi di Gezi Park che non si vedeva in città una partecipazione così imponente alle manifestazioni.

Tutto è cominciato, a mio avviso, con la manifestazione del 17. Il 17 c’è stata, in mattinata, l’aggressione a uno studente di etnia curda all’Università Marmara da parte di un gruppo di studenti ultra nazionalisti. Già da giorni le contestazioni degli studenti, per il famoso editto sul controllo dei dormitori e per i tagli alla cultura, in quest’università vengono innaffiate dagli idranti dei poliziotti; il 17, dopo che lo studente è stato pestato a sangue (e altri quattro sono stati lievemente feriti) l’università è stata occupata dalle forze dell’ordine.
Non sta a me giudicare se sia stato un bene o un male, di fatto gli scontri sono finiti. Ma quando gli studenti si sono voluti riunire in un’assemblea non gli è stato possibile. E così gli studenti hanno deciso di fare, in maniera spontanea e improvvisata, una manifestazione da Goztepe a Kadikoy: io ne ho contati, più o meno, trecento. E se la gente si è accorta di loro e perché bloccavano la circolazione. Questo è stato il 17, il primo giorno.
Il 18, invece, c’è stata la manifestazione contro il disegno di legge sul controllo internet, in questi giorni in discussione al parlamento turco. Se la proposta diventerà legge permetterà alle autorità preposte di interdire
l’accesso a specifici siti e monitorare l’attività del cyberspazio. Ricordo che internet in Turchia è usato da più di trenta milioni di persone e i turchi, magari anche grazie alle proteste di Gezi Park, sono tra i primi nell’uso dei social. Questa proposta ha scatenato le proteste non solo nel mondo virtuale della rete ma anche nel reale, come la Confindustria turca (Tusiad) e in alcuni partiti dell’opposizione. Per il partito al governo, il Partito giustizia e sviluppo (Akp), occorre legiferare per tutelare i minori e non permettere l’accesso a pagine che “incitano all’odio razziale, religioso e/o etnico e violano la privacy dei cittadini”. La questione è che se questa legge passerà il governo potrebbe limitare arbitrariamente il diritto di espressione e arrogarsi legalmente il diritto di censurare i siti dell’opposizione.

Per questo almeno un migliaio di persone – così le ho contate io, ma i giornali hanno scritto il doppio – il 18 si sono date appuntamento a piazza Taksim, per dire no a questa legge bavaglio che è pericolosa anche in chiave delle prossime elezioni. È stata la prima volta, dai tempi di Gezi Park, che la piazza si riempiva per intero. La manifestazione è finita con l’intervento delle forze dell’ordine, con i soliti gas e spray urticanti, che hanno disperso i dimostranti dopo circa un’ora. Anche se alcuni dimostranti hanno fatto di tutto per rimanere nei pressi di Taksim per fare numero, tra di loro i famosi “Istanbul United”, il gruppo dei tifosi delle squadre di calcio (tutte insieme: Beşiktaş, Galatasaray e Fenerbache).

Il 19, infine, c’è stata una lunga marcia per le strade adiacenti a Taksim per ricordare Hrant Dink. Dink, giornalista turco di origine armena, è stato ucciso sette anni fa davanti ad Agos, il giornale per cui lavorava con tre proiettili sparati alla testa. Proiettili sparati da un minorenne ultra nazionalista, condannato a 23 anni nel 2011, un esecutore materiale di mandanti che ancora non si conoscono poiché la giustizia deve ancora fare il suo corso. Il suo lungo corso. Anche se a settembre scorso è ripreso in appello il processo contro una dozzina di persone sospettate di essere coinvolte nell’omicidio. La gente è scesa per le strade, comunque, per ricordare alle autorità turche che la parola giustizia non è stata ancora scritta su questa storia. Ma perché Dink è stato ammazzato? Bella domanda alla quale, senza nessuna pretesa di chiarire quello che ancora non so per intero, proverò a dare una risposta. Dink si è battuto per tutta la sua vita affinché il genocidio armeno, i massacri subiti dagli armeni durante la prima guerra mondiale e ancor prima durante il regno di Abdul Hamid, fosse riconosciuto in Turchia. Nel lottare ha fatto qualcosa di sorprendente: ha cercato l’empatia delle  persone di etnia turca come di quella curda. Per questo, forse, è stato così amato. E così odiato. Già, è
forse questo che l’ha ucciso. Il voler dialogare con chi è diverso. Perché non è possibile, almeno per me, definire qualcosa di così complesso come il genocidio armeno. Un tema così delicato e controverso sul quale ancor oggi vengono combattute guerre ideologiche e storiografiche, non da me ma da professori di università, sociologi e studiosi. Guerre estremamente politicizzate da opposte fazioni (inter)nazionali, da sinistra e da destra.
Tra chi vorrebbe un riconoscimento pieno e chi lo nega fino alla fine. Tra oltranzismo, nazionalismo, negazionismo, fascismo, kemalismo… sapete chi vince? Hrant Dink. E chi pensa che è con il dialogo che si risolvono le cose. La risposta secca a cos’è il genocidio armeno, per me, non esiste. E pazienza se gli eroi della semantica non saranno d’accordo con me, ho corso rischi più grossi in questi mesi a Gezi Park. E non sto parlando dei gas sparati dalla polizia, sto parlando della possibilità di pensare che non sia l’unico sulla faccia della terra che vuole dialogare. Questo abbiamo fatto durante questi mesi, qui, a Gezi Park. Questa è stata la nostra forza. La manifestazione del 19 è stata un successo anche perché la polizia ha lasciato scorrere il corteo senza intervenire. Più di cinquemila persone – dicono i giornali di oggi – hanno sfilato da Taksim a Sisli, sede di Agos. Ma se questa è un’inversione di rotta, il capire e non intervenire con la forza, non mi è dato sapere. Posso solo capire che i baffi a me non stanno bene.

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