di Mario Lombardo
La cosiddetta
“svolta” asiatica annunciata da qualche anno dall’amministrazione Obama
sta creando sempre maggiori tensioni in Estremo Oriente non solo tra la
Cina e i paesi alleati di Washington ma anche tra questi ultimi, come
conferma, in particolare, la freddezza persistente tra Giappone e Corea
del Sud. Per provare a rilanciare una strategia finora tutt’altro che
vincente, il presidente democratico ha appena rivelato lo svolgimento di
una visita in quest’area del globo il prossimo mese di aprile, quando
si recherà, oltre che a Tokyo e probabilmente a Seoul, in Malaysia e in
uno dei paesi in prima fila nelle manovre USA dirette contro Pechino, le
Filippine.
La trasferta asiatica di Obama dovrebbe servire a
riparare almeno in parte il danno all’immagine e alla credibilità
americana causata dalla cancellazione dell’attesa visita dello scorso
autunno per partecipare al summit dell’Associazione dei Paesi del
Sud-Est Asiatico (ASEAN).
L’itinerario dell’inquilino della Casa
Bianca avrebbe dovuto limitarsi a visite in Giappone, Malaysia e
Filippine ma da più parti sono giunte pressioni per includere anche la
Corea del Sud, in modo da non irritare ulteriormente il governo di
questo paese, i cui rapporti con quello ultra-conservatore di Tokyo sono
sprofondati negli ultimi mesi.
Oltre alle dispute territoriali,
ad accendere gli animi tra Giappone e Corea del Sud è l’atteggiamento di
Tokyo, dove un mix di nazionalismo e militarismo sta caratterizzando
l’azione di governo del premier Shinzo Abe, responsabile di svariate
dichiarazioni di stampo revisionista sul comportamento del suo paese
sulla terraferma asiatica durante il periodo coloniale.
L’atteggiamento
giapponese è stato pericolosamente incoraggiato proprio dagli Stati
Uniti, nel tentativo di fare allineare gli alleati in Estremo Oriente ai
propri sforzi per contenere l’espansionismo della Cina. Questa
politica, scatenando forze reazionarie e innestandosi su rivalità
storiche, ha però prodotto l’effetto indesiderato di dividere Giappone e
Sud Corea, mentre nelle intenzioni americane i due paesi avrebbero
dovuto realizzare una partnership strategica in funzione anticinese che
per il momento non sembra essere nemmeno lontanamente all’orizzonte.
Ancora
più grave è poi lo scontro in atto tra Giappone e Cina, per il quale le
responsabilità principali sono da assegnare nuovamente a Washington.
Qui, la contesa attorno ad un gruppo di isole - Senkaku in giapponese,
Diaoyu in cinese - nel Mar Cinese Orientale ha già fatto registrare
momenti di tensione tra la seconda e la terza economia del pianeta.
Solo
nelle ultime settimane, le relazioni sono sprofondate in seguito alla
dichiarazione da parte della Cina di una propria “zona di
identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) nel Mar Cinese Orientale -
all’interno della quale ogni velivolo è tenuto a fornire informazioni in
merito alla sua rotta, destinazione o qualsiasi altro dettaglio
richiesto dalle autorità - e alla visita del premier Abe ad un tempio
scintoista dove sono sepolti alcuni criminali di guerra giapponesi.
Più
recentemente, Tokyo e Pechino sono tornate a scontrarsi a causa della
dichiarazione di un alto dirigente della rete televisiva nazionale
nipponica NHK, il quale ha sostanzialmente negato il massacro
di Nanchino, in Cina, ad opera delle truppe del proprio paese nel 1937
che fece più di 140 mila morti (300 mila per i cinesi).
A queste
parole, solo parzialmente rettificate alcune ore dopo essere state
pronunciate, il ministero degli Esteri cinese ha risposto duramente e in
un comunicato ufficiale ha condannato il tentativo da parte della
autorità giapponesi di “riscrivere la storia” di un evento attorno al
quale “la comunità internazionale ha da tempo espresso un verdetto
definitivo”.
Alla falsificazione della storia come strumento di
propaganda nelle attuali dispute in Asia orientale ha fatto ricorso poi
questa settimana anche il presidente delle Filippine, Benigno Aquino, in
un’intervista esclusiva alla quale il New York Times ha dato ampio spazio.
Il
figlio della defunta ex presidente, Corazón Aquino, ha cioè paragonato
la Cina odierna alla Germania nazista alla vigilia della seconda guerra
mondiale. Secondo Benigno Aquino, la disputa territoriale del suo paese
con Pechino nel Mar Cinese Meridionale rischierebbe di ricalcare la
vicenda dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1938 che portò all’invasione
hitleriana.
Come la Cecoslovacchia, a detta di Aquino, anche le
Filippine devono oggi fare i conti con “le richieste di cedere
gradualmente parte del proprio territorio ad una potenza straniera”,
così che, per resistere, sarebbe necessario “un più robusto sostegno
internazionale”, a differenza della docilità dei governi occidentali
negli anni Trenta del secolo scorso nei confronti della Germania di
Hitler.
Significativamente, il richiamo alla seconda guerra
mondiale da parte del presidente filippino è giunto pochi giorni dopo
che Shinzo Abe, nel corso del World Economic Forum di Davos, aveva fatto
riferimento al primo conflitto mondiale nel tracciare un parallelo tra
la rivalità di Germania e Gran Bretagna con quella odierna di Giappone e
Cina.
L’evocazione dei due eventi più catastrofici del secolo
scorso indica a sufficienza il livello di tensione raggiunto in Estremo
Oriente a causa della “svolta” asiatica degli Stati Uniti. Soprattutto,
Abe e Aquino intendono ribaltare le responsabilità dell’attuale
situazione, dal momento che la Cina, non essendo una potenza
imperialista al contrario degli USA, non ha mai minacciato l’invasione
di nessun paese, rendendo semplicemente assurdi gli accostamenti alla
Germania imperiale o a quella nazista.
Nel
caso delle Filippine, inoltre, la retorica di Aquino serve a far
digerire ad un’opinione pubblica tutt’altro che entusiasta l’accordo in
fase di negoziazione con gli Stati Uniti per l’utilizzo di alcune basi
nella loro ex colonia. Il presidente filippino, infatti, nella stessa
intervista al Times ha annunciato che Manila e Washington sono
“vicini” ad un’intesa, descrivendo poi la permanenza nel paese di
soldati stranieri come un semplice “avvicendamento”, così da aggirare il
divieto a simili iniziative contenuto nella costituzione delle
Filippine.
L’accordo verrà con ogni probabilità definito in
occasione della visita di Obama a Manila nel mese di aprile, quando
potrebbe essere sollevata anche la questione della partecipazione delle
Filippine al trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP),
recentemente “raccomandata” dal nuovo ambasciatore americano.
Il
TPP, da cui è esclusa la Cina, è un altro strumento promosso Washington
per isolare Pechino, in questo caso economicamente, e include per il
momento dodici paesi asiatici e del continente americano (Australia,
Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù,
Singapore, Stati Uniti e Vietnam).
Il trattato, scritto e
negoziato in gran segreto, sta però sollevando non poche perplessità tra
i paesi che dovrebbero aderirvi, principalmente per le condizioni in
esso contenute che prescrivono lo smantellamento delle regolamentazioni
locali per aprire le varie economie alle corporation statunitensi.
Le
date fissate da Washington per la definitiva approvazione del TPP
stanno perciò slittando una dopo l’altra e più di un problema
l’amministrazione Obama lo sta incontrando anche in patria. Proprio
qualche giorno fa, il leader di maggioranza al Senato, il democratico
Harry Reid, ha bocciato i tentativi della Casa Bianca di incanalare il
trattato in una corsia preferenziale al Congresso, così da ottenerne
l’approvazione senza possibilità di discussioni o emendamenti.
La
presa di posizione del senatore del Nevada è la conseguenza
dell’impopolarità dei trattati di libero scambio, che si traducono
puntualmente in perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma è già
stata criticata dai falchi della politica estera USA, preoccupati per lo
slittamento di una misura ritenuta fondamentale nell’ambito della
“svolta” anti-cinese nel continente asiatico.
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