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07/02/2014

La svolta di Obama agita l'Asia

di Mario Lombardo

La cosiddetta “svolta” asiatica annunciata da qualche anno dall’amministrazione Obama sta creando sempre maggiori tensioni in Estremo Oriente non solo tra la Cina e i paesi alleati di Washington ma anche tra questi ultimi, come conferma, in particolare, la freddezza persistente tra Giappone e Corea del Sud. Per provare a rilanciare una strategia finora tutt’altro che vincente, il presidente democratico ha appena rivelato lo svolgimento di una visita in quest’area del globo il prossimo mese di aprile, quando si recherà, oltre che a Tokyo e probabilmente a Seoul, in Malaysia e in uno dei paesi in prima fila nelle manovre USA dirette contro Pechino, le Filippine.

La trasferta asiatica di Obama dovrebbe servire a riparare almeno in parte il danno all’immagine e alla credibilità americana causata dalla cancellazione dell’attesa visita dello scorso autunno per partecipare al summit dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico (ASEAN).

L’itinerario dell’inquilino della Casa Bianca avrebbe dovuto limitarsi a visite in Giappone, Malaysia e Filippine ma da più parti sono giunte pressioni per includere anche la Corea del Sud, in modo da non irritare ulteriormente il governo di questo paese, i cui rapporti con quello ultra-conservatore di Tokyo sono sprofondati negli ultimi mesi.

Oltre alle dispute territoriali, ad accendere gli animi tra Giappone e Corea del Sud è l’atteggiamento di Tokyo, dove un mix di nazionalismo e militarismo sta caratterizzando l’azione di governo del premier Shinzo Abe, responsabile di svariate dichiarazioni di stampo revisionista sul comportamento del suo paese sulla terraferma asiatica durante il periodo coloniale.

L’atteggiamento giapponese è stato pericolosamente incoraggiato proprio dagli Stati Uniti, nel tentativo di fare allineare gli alleati in Estremo Oriente ai propri sforzi per contenere l’espansionismo della Cina. Questa politica, scatenando forze reazionarie e innestandosi su rivalità storiche, ha però prodotto l’effetto indesiderato di dividere Giappone e Sud Corea, mentre nelle intenzioni americane i due paesi avrebbero dovuto realizzare una partnership strategica in funzione anticinese che per il momento non sembra essere nemmeno lontanamente all’orizzonte.

Ancora più grave è poi lo scontro in atto tra Giappone e Cina, per il quale le responsabilità principali sono da assegnare nuovamente a Washington. Qui, la contesa attorno ad un gruppo di isole - Senkaku in giapponese, Diaoyu in cinese - nel Mar Cinese Orientale ha già fatto registrare momenti di tensione tra la seconda e la terza economia del pianeta.

Solo nelle ultime settimane, le relazioni sono sprofondate in seguito alla dichiarazione da parte della Cina di una propria “zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) nel Mar Cinese Orientale - all’interno della quale ogni velivolo è tenuto a fornire informazioni in merito alla sua rotta, destinazione o qualsiasi altro dettaglio richiesto dalle autorità - e alla visita del premier Abe ad un tempio scintoista dove sono sepolti alcuni criminali di guerra giapponesi.

Più recentemente, Tokyo e Pechino sono tornate a scontrarsi a causa della dichiarazione di un alto dirigente della rete televisiva nazionale nipponica NHK, il quale ha sostanzialmente negato il massacro di Nanchino, in Cina, ad opera delle truppe del proprio paese nel 1937 che fece più di 140 mila morti (300 mila per i cinesi).

A queste parole, solo parzialmente rettificate alcune ore dopo essere state pronunciate, il ministero degli Esteri cinese ha risposto duramente e in un comunicato ufficiale ha condannato il tentativo da parte della autorità giapponesi di “riscrivere la storia” di un evento attorno al quale “la comunità internazionale ha da tempo espresso un verdetto definitivo”.

Alla falsificazione della storia come strumento di propaganda nelle attuali dispute in Asia orientale ha fatto ricorso poi questa settimana anche il presidente delle Filippine, Benigno Aquino, in un’intervista esclusiva alla quale il New York Times ha dato ampio spazio.

Il figlio della defunta ex presidente, Corazón Aquino, ha cioè paragonato la Cina odierna alla Germania nazista alla vigilia della seconda guerra mondiale. Secondo Benigno Aquino, la disputa territoriale del suo paese con Pechino nel Mar Cinese Meridionale rischierebbe di ricalcare la vicenda dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1938 che portò all’invasione hitleriana.

Come la Cecoslovacchia, a detta di Aquino, anche le Filippine devono oggi fare i conti con “le richieste di cedere gradualmente parte del proprio territorio ad una potenza straniera”, così che, per resistere, sarebbe necessario “un più robusto sostegno internazionale”, a differenza della docilità dei governi occidentali negli anni Trenta del secolo scorso nei confronti della Germania di Hitler.

Significativamente, il richiamo alla seconda guerra mondiale da parte del presidente filippino è giunto pochi giorni dopo che Shinzo Abe, nel corso del World Economic Forum di Davos, aveva fatto riferimento al primo conflitto mondiale nel tracciare un parallelo tra la rivalità di Germania e Gran Bretagna con quella odierna di Giappone e Cina.

L’evocazione dei due eventi più catastrofici del secolo scorso indica a sufficienza il livello di tensione raggiunto in Estremo Oriente a causa della “svolta” asiatica degli Stati Uniti. Soprattutto, Abe e Aquino intendono ribaltare le responsabilità dell’attuale situazione, dal momento che la Cina, non essendo una potenza imperialista al contrario degli USA, non ha mai minacciato l’invasione di nessun paese, rendendo semplicemente assurdi gli accostamenti alla Germania imperiale o a quella nazista.

Nel caso delle Filippine, inoltre, la retorica di Aquino serve a far digerire ad un’opinione pubblica tutt’altro che entusiasta l’accordo in fase di negoziazione con gli Stati Uniti per l’utilizzo di alcune basi nella loro ex colonia. Il presidente filippino, infatti, nella stessa intervista al Times ha annunciato che Manila e Washington sono “vicini” ad un’intesa, descrivendo poi la permanenza nel paese di soldati stranieri come un semplice “avvicendamento”, così da aggirare il divieto a simili iniziative contenuto nella costituzione delle Filippine.

L’accordo verrà con ogni probabilità definito in occasione della visita di Obama a Manila nel mese di aprile, quando potrebbe essere sollevata anche la questione della partecipazione delle Filippine al trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP), recentemente “raccomandata” dal nuovo ambasciatore americano.

Il TPP, da cui è esclusa la Cina, è un altro strumento promosso Washington per isolare Pechino, in questo caso economicamente, e include per il momento dodici paesi asiatici e del continente americano (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam).

Il trattato, scritto e negoziato in gran segreto, sta però sollevando non poche perplessità tra i paesi che dovrebbero aderirvi, principalmente per le condizioni in esso contenute che prescrivono lo smantellamento delle regolamentazioni locali per aprire le varie economie alle corporation statunitensi.

Le date fissate da Washington per la definitiva approvazione del TPP stanno perciò slittando una dopo l’altra e più di un problema l’amministrazione Obama lo sta incontrando anche in patria. Proprio qualche giorno fa, il leader di maggioranza al Senato, il democratico Harry Reid, ha bocciato i tentativi della Casa Bianca di incanalare il trattato in una corsia preferenziale al Congresso, così da ottenerne l’approvazione senza possibilità di discussioni o emendamenti.

La presa di posizione del senatore del Nevada è la conseguenza dell’impopolarità dei trattati di libero scambio, che si traducono puntualmente in perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma è già stata criticata dai falchi della politica estera USA, preoccupati per lo slittamento di una misura ritenuta fondamentale nell’ambito della “svolta” anti-cinese nel continente asiatico.

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