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07/02/2014

Utopie Letali/La Società Armoniosa

Alcuni tra i miei amici veg/vegan si sono molto stupiti che il Corriere della Sera abbia aperto un blog di cultura vegetariana. Ma come, si chiedono, noi facciamo una scelta di rottura radicale col sistema borghese, andando a contestare non solo l’economia ma anche l’antropocentrismo, e il giornale della borghesia propaganda la nostra scelta?

La sussunzione delle subculture da parte del capitalismo non è un pranzo di gala.

In Utopie Letali Carlo Formenti porta a compimento un percorso di distacco e critica dalle ideologie post moderne della rete. Provenendo da un’Università come quella di Bergamo dove i paradigmi “post” la fanno da padrone, non posso che essere empatico col percorso che porta l’autore a prendere di petto le costruzioni post-moderne che hanno egemonizzato, specie in Italia, le sinistre, sia quella “riformiste” che quelle “radicali”.

Uno dei punti attorno a cui ruota Utopie Letali è che le nuove ideologie che promettevano una più radicale contestazione del capitalismo hanno finito in realtà per essere sussunte, assorbite e metabolizzate dal sistema borghese molto più facilmente di quanto non abbia fatto il “vecchio” movimento operaio. Seppure sconfitto, quest’ultimo ha impiegato più di un secolo per essere ridotto, quantomeno in Occidente, alla parodia di se stesso o alla stampella del sistema. Le ideologie nate negli anni ’70 e seguenti hanno avuto (o, prevede Formenti, avranno) vita molto più breve. Ovviamente non si tratta di una delegittimazione totale del “nuovo”, il femminismo e l’ambientalismo, sostiene Formenti, hanno colto punti che il movimento operaio tradizionale aveva difficoltà a gestire. Aggiungo io, alcune argomentazioni del “nuovo animalismo” sulla sostenibilità del consumo di carne e sulla necessità di ridurne drasticamente il consumo (se non annullarlo) non possono che essere condivisibili.

Perché queste nuove ideologie sono state così facilmente sussunte? Per Formenti il peccato originale sta nella pretesa degli operaisti per cui la condizione particolare degli anni ’70, in cui le lotte operaie condizionavano lo sviluppo capitalista, fosse estendibile a una legge universale del capitalismo. Da qui, il paradigma della biopolitica avrebbe poi sviluppato l’idea che nell’attuale fase del capitalismo la cooperazione sociale dell’intelletto generale contenga già in embrione i rapporti sociali del comunismo che attendono solo di rompere il guscio di un capitalismo che non organizza e dirige più il lavoro ma si limita a sfruttare. Frantumata così l’analisi di classe, gli individui appartengono a una moltitudine indistinta. Per Formenti il peccato originale quindi non è solo un errore di analisi della fase, è l’assunzione di un paradigma fondamentalmente individualista e quindi permeabile alle sirene del liberalismo borghese.

Quello che accomuna i post-operaisti seguaci di Hardt e Negri, i benecomunisti che predicano una nuova proprietà comune che non sia ne privata ne pubblica, i fan dell’ideologia della rete (tra cui l’epigono italiano, Beppe Grillo) e, aggiungo io, molti dei nuovi animalisti ed ecologisti che si pretendono radicali, è l’idea che il processo di liberazione sia individuale, frutto di una presa di coscienza individuale che si può estendere a chiunque a prescindere dalla sua posizione nella produzione perché le differenze all’interno della produzione sono polverizzate.

Non c’è quindi da stupirsi se gli organi della borghesia accolgono a braccia aperte una filosofia di vita radicale che permette di vivere tranquillamente all’interno del sistema, solo cambiando scaffale del supermercato. O se vecchi liberali moderati come Rodotà (a cui giustamente il libro riconosce comunque un profilo molto più alto di molti altri imbonitori) dialogano con i movimenti radicali dei beni comuni salvo poi ritrovarseli schierati col centrosinistra privatizzatore.

Queste ideologie dilagano in occidente, sostiene Formenti, perché la ristrutturazione capitalista, lungi dall’essere stata guidata dalle lotte delle moltitudini o dai desideri della classe dei lavoratori della conoscenza, ha disgregato sul piano fisico il lavoro, sparpagliato in una miriade di luoghi di produzione diversi. L’unico punto di concentrazione della masse popolari rimane allora la scuola, dalla quale infatti partono periodicamente movimenti di massa, seppure regolarmente perdenti. Ma se il capitalismo frantuma il lavoro disperdendone la coscienza di classe in occidente, l’integrazione del Terzo Mondo nel sistema-mondo capitalista crea le condizione per l’emerge di una nuova classe operaia su dimensioni ancora più grandi di quelle conosciute in Occidente.

Il lavoro su cui si basa di più Formenti è la raccolta di saggi di Pun Ngai, La Società Armoniosa – Sfruttamento e Resistenza degli Operai Migranti. Il lavoro della ricercatrice di Hong Kong è una miniera di informazioni sulle condizioni di lavoro della manodopera migrante interna nella regione del Guangdong, la regione dove indubbiamente i rapporti di produzione capitalistici sono penetrati più a fondo. In Cina con lavoratori migranti s’intendono quei lavoratori che hanno la residenza nelle campagne ma lavorano in città, specie nelle Zone Economiche Speciali, ovvero aree dove le leggi sul lavoro sono molto più blande del normale e, soprattutto, molto poco applicate da autorità spesso complici. Pun Ngai documenta come questi lavoratori siano sottoposti a ritmi di lavoro pesantissimi, con paghe basse e poco o zero rispetto per i diritti. Ma documenta anche come la seconda generazione di lavoratori migranti non sia rassegnata a subire queste condizioni e organizzi lotte e scioperi durissimi approfittando della concentrazione di un grande numero di lavoratori nei dormitori. Partendo dalla condizione materiale del lavoro, queste possono favorire l’emersione di una nuova coscienza di classe tra le masse cinesi.

Dove il lavoro di Pun Ngai convince di meno, è l’analisi di queste lotte all’interno delle riforme cinesi. Secondo l’autrice, per far passare le riforme dal 1978, lo Stato/Partito cinese avrebbe completamente espulso dal discorso pubblico ogni terminologia e logica marxiana sulla classe, anche il revival di retorica rossa avvenuta negli anni di Hu Jintao non sarebbe altro che una farsa storica. Mi permetto di dissentire da questa visione, se è vero che i rapporti di produzione capitalisti, e con essi l’ideologia liberal-liberista, sono penetrati a fondo nella Cina delle riforme, è anche vero che il discorso di classe in realtà non è mai venuto meno né negli organi ufficiali né nella produzione accademica, semmai è stato affiancato da altri discorsi come quello liberale. La nuova macchina dello Stato/Partito cinese è, in maniera paradossale, pluralistica. Mentre sotto Mao si verificano periodiche purghe di chi non fosse allineato alla linea scelte di volta in volta dal Grande Timoniere, da Deng in poi si sono aperti spazi di libertà di pensiero, una libertà, beninteso, subordinata all’accettazione del sistema a partito unico.

Certo, proprio il sistema dello Stato/Partito pluralista è insieme quello che accoglie le richieste, che interrompe il processo di privatizzazione che lancia la campagna per la sindacalizzazione di massa (per quanto burocratica, con effetti tangibili sulla condizione dei lavoratori) ed è contemporaneamente quello che è complice della violazione delle stesse leggi cinesi, che permette abusi e che mette le sue forze dell’ordine a disposizione della repressione delle lotte. Nel lavoro di Pun Ngai questa contraddizione è assente, viene mostrata una sola faccia della medaglia. La stessa analisi della condizione dei lavoratori migranti evita di rilevare che lo stato non ha spinto tutti i contadini a lasciare la terra per andare in città, tuttaltro! Il controllo delle migrazioni interne è servito anche a far si che più di cento milioni di cinesi trovassero lavoro restando nelle cosiddette industrie rurali, senza andare a ingrossare le fila dei lavoratori urbani. L’effetto più odioso, a tratti criminale, del sistema di registrazione, in altre parole la mancanza di accesso allo stato sociale in città, è stato parzialmente ridotto dall’evoluzione negli anni ’00 e sarà definitivamente archiviato con le riforme annunciate recentemente. Queste ultime, per converso, apriranno un nuovo fronte di lotta sulla questione della proprietà della terra rurale.

Il revival socialista di Hu Jintao, continuato anche da Xi Jinping che con orrore dei commentatori liberali avvia campagne di studio del marxismo e di autocritica, non proviene certo dalla benevolenza del Partito, ma dalla pressione delle lotte sociali che hanno fatto patrimonio dell’ideologia socialista inculcata nel trentennio maoista e l’hanno usata per spingere a migliorare la propria condizione. In questo senso, la formazione di una nuova coscienza di classe in Cina è forse più avanzata di quanto pensi la stessa Pun Ngai.

La Società Armoniosa è un volume prezioso per la mole di lavoro sul campo, ma è opportuno prendere con le molle le conclusioni politiche. All’interno del discorso sulla rinascita della classe operaia, il lavoro di Pun Ngai testimonia comunque un fatto incontestabile: quello che le nuove ideologie vedono come la sparizione del lavoro in massa è stata semplicemente uno spostamento di questi processi (ovviamente in forme nuove) oltre il palmo del naso di Negri e Hardt. E lo stesso fenomeno sorge negli altri paesi in via di sviluppo: invece di sparire la classe operaia ha cambiato colore della pelle.

Che fare?

La risposta di Formenti sembrerebbe ortodossa: riscoprire Marx, Lenin e Gramsci, ritornare a pensare che il capitalismo non si esaurirà da se, ritornare a immaginare una società di transizione per il lento passaggio dal capitalismo al socialismo al comunismo.

Una parte ortodossa nella proposta di Formenti, che è più una proposta per una ricerca che una proposta d’azione immediata, effettivamente esiste: un pensiero realmente alternativo non può che venire da un’alleanza di classe che, oltre alla classe operaia tradizionale, includa i lavoratori immigrati (specialmente quelli che lavorano nella logistica) e la parte di lavoratori della conoscenza che la crisi ha ripiombato al rango di dipendenti sacrificabili tanto quanto gli operai. Su questi ultimi andrà però fatta un’operazione di egemoni date le incrostazioni ideologiche che si sono accumulate nelle loro teste negli ultimi trent’anni.

Ma chi dovrebbe fare questo lavoro? La risposta di Formenti qua si fa eterodossa. Sul modello delle esperienze sudamericane propone un modello federativo in cui organizzazioni politiche, sindacati, movimenti e associazioni si uniscano per un progetto di transizione oltre al capitalismo. Il progetto rievoca quello del partito sociale formulato da Mimmo Porcaro in Metamorfosi del Partito Politico e adottato dal Partito della Rifondazione Comunista dopo la svolta di Chianciano, per la verità con l’esito paradossale di aver creato una realtà mutualistica che si autonomizza dal PRC invece di aggregare attorno a un centro di gravità.

Il partito del XXI secolo, evidentemente, ce lo dobbiamo ancora inventare, ne Formenti ne i capi della sinistra radicale hanno la soluzione a questo problema. In ogni caso, mi pare che Utopie Letali ponga delle riflessioni utili e che, alla maniera di Lenin, tracci un confine tra quali sono le riflessioni utili e quali sono invece dannose per la causa.

L’alternativa, quindi, è tra stare in queste riflessioni, o stare nel blog vegetariano del Corriere.

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