di Mario Lombardo
Il primo
parziale esito delle elezioni anticipate andate in scena domenica scorsa
in Thailandia ha registrato come previsto un’affluenza alle urne
relativamente bassa in seguito al boicottaggio annunciato da tempo dal
principale partito di opposizione. Ancor più dei numeri ancora lontani
dall’essere definitivi, tuttavia, le cattive notizie per il governo
della premier Yingluck Shinawatra sono legate ora alle dispute legali
che si annunciano attorno al voto e ad una situazione economica in
rapido deterioramento nel paese del sud-est asiatico.
La
Commissione Elettorale thailandese ha finora diffuso solo alcuni dati
provvisori per le 68 province (su 77) dove il voto si è effettivamente
tenuto senza gli ostacoli posti dai manifestanti anti-governativi.
Complessivamente, le operazioni sono state possibili nell’89% dei
distretti elettorali, dove l’affluenza è stata del 46%, contro il 73%
registrato nel 2011. Nella capitale, Bangkok, questo dato è stato appena
del 26%, principalmente a causa della mancanza di schede elettorali in
alcuni seggi dopo che i gruppi di protesta avevano impedito la
distribuzione del materiale necessario.
Decisamente superiore
alla media è risultata invece l’affluenza nelle roccaforti del partito
al potere - Pheu Thai - nel nord del paese, dove in molti casi ha
superato il 72%. Come ha riportato il Bangkok Post, però, anche
alcuni distretti considerati favorevoli al governo e dominati dalle
cosiddette “camicie rosse” hanno fatto segnare dati di poco superiori al
50%. Ciò suggerirebbe un certo calo di popolarità del Pheu Thai,
probabilmente a causa sia dei mancati pagamenti ai coltivatori
nell’ambito del programma di acquisto di riso da parte del governo a
prezzi gonfiati sia della abortita legge sull’amnistia che, oltre a
riportare in patria l’ex premier Thaksin Shinawatra, avrebbe assolto i
leader del precedente gabinetto dalle accuse di avere ordinato la
repressione nel sangue delle proteste animate dalle “camicie rosse” nel
2010.
Lo stesso quotidiano in lingua inglese della capitale ha
poi ipotizzato una proiezione sui seggi nella camera bassa. Qui il Pheu
Thai potrebbe aggiudicarsene almeno 300, incrementando i 264 conquistati
nel 2011, anche se in questa occasione era assente dalle schede
elettorali il Partito Democratico che di seggi ne deteneva 159.
Per
essere ritenuto valido, il voto in Thailandia deve in ogni caso
eleggere almeno il 95% dei 500 deputati totali della camera bassa, così
che l’assemblea possa essere convocata per scegliere un nuovo governo. A
causa dei blocchi dei manifestanti nelle scorse settimane, in alcuni
distretti elettorali non era stato possibile registrare alcun candidato e
appare perciò tutt’altro che certo il raggiungimento della quota
prevista dalla Costituzione.
Tale percentuale non sembra infatti
essere stata raggiunta, come ha ammesso indirettamente il governo
stesso, il quale ha già chiesto alla Commissione Elettorale di preparare
una serie di elezioni speciali il prima possibile per assegnare i seggi
mancanti. Queste operazioni potrebbero prolungarsi per alcuni mesi,
lasciando la Thailandia senza un governo con pieni poteri, e oltretutto
rischiano di incontrare nuovi ostacoli perché le elezioni speciali
riguarderanno provincie del paese dove è forte la presenza degli
oppositori del governo.
Ad
aggiungere incertezza per l’esecutivo ci ha pensato poi il Partito
Democratico di opposizione che, nella giornata di martedì, ha annunciato
l’avvio di due cause legali di fronte alla Corte Costituzionale. La
prima cercherà di rendere nulle le elezioni poiché il processo sarebbe
stato incostituzionale per vari motivi, tra cui quello che esso non è
stato completato in un solo giorno. Questa motivazione appare quanto
meno assurda, visto che la necessità di ulteriori consultazioni è dovuta
precisamente alle manifestazioni di protesta animate in buona parte dai
sostenitori del Partito Democratico.
Con la seconda denuncia si
chiede invece lo scioglimento del partito Pheu Thai, responsabile di
avere dichiarato nel mese di gennaio lo stato di emergenza nel paese,
impedendo di conseguenza lo svolgimento del voto in circostanze normali.
Lo stato di emergenza era stato dichiarato dal governo a Bangkok e
nelle aree limitrofe in seguito all’intensificarsi delle minacce alle
operazioni elettorali da parte dell’opposizione ma, in realtà, non è
stato praticamente implementato.
La Commissione Elettorale, da
parte sua, ha fatto sapere anch’essa che mercoledì si riunirà per
analizzare i problemi emersi domenica durante il voto e gli esposti
presentati alla propria attenzione relativi a presunti abusi delle
autorità governative.
Il prossimo pronunciamento del più alto
tribunale thailandese è atteso con molte apprensioni dal partito della
premier Yingluck, dal momento che esso fu già protagonista del golpe
giudiziario del 2008 che rimosse due governi guidati dai sostenitori di
Thaksin. In precedenza, quando nel 2006 furono i militari a deporre
quest’ultimo, la stessa Corte Costituzionale aveva inoltre sciolto il
suo partito - Thai Rak Thai - con l’accusa di avere violato le leggi
elettorali. Una nuova prospettiva simile appare ora probabile a molti,
alla luce anche della freddezza dimostrata finora dalle forze armate
verso un possibile intervento diretto per risolvere la crisi.
In
aggiunta ai procedimenti appena annunciati dal Partito Democratico, il
governo e il principale partito che lo sostiene continuano ad essere
minacciati anche da almeno altre due indagini in corso da alcune
settimane. Una riguarda oltre 300 parlamentari del Pheu Thai, accusati
di avere presentato un emendamento costituzionale per rendere il Senato
interamente elettivo, e l’altra la stessa Yingluck per avere gestito
contro l’interesse pubblico il già ricordato programma di sussidi
destinati ai produttori di riso, in gran parte elettori del proprio
partito.
Anche se fortemente volute dal governo in carica per
dimostrare il seguito che esso manterrebbe in Thailandia, le elezioni di
domenica hanno in realtà evidenziato soprattutto il controllo sempre
più debole sul paese di Yingluck e del suo partito dopo quasi tre mesi
di proteste di piazza organizzate da gruppi vicini ai tradizionali
centri di potere (esercito, burocrazia statale, monarchia) per chiedere
le dimissioni immediate dell’esecutivo e lo sradicamento dell’influenza
della famiglia Shinawatra sul sistema politico.
Un
ulteriore grattacapo per il governo è giunto poi martedì, quando la
Cina ha cancellato un acquisto da 1,2 milioni di tonnellate di riso
thailandese a causa della già citata indagine sul programma di sussidi
condotta dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione.
La decisione del vicino settentrionale metterà ancora più in
difficoltà la premier, già penalizzata dalle accese critiche
dell’opposizione ad un programma che ha fatto segnare perdite per le
casse pubbliche pari a 6 miliardi di dollari e costretta a far fronte ai
malumori dei coltivatori che hanno venduto il riso allo stato senza
ottenere ancora alcun pagamento.
Più in generale, le tensioni nel
paese potrebbero essere inasprite dal peggioramento dell’economia, come
conferma il recente aggiustamento al ribasso delle previsioni di
crescita per il 2014 dal 5,1% al 3,1% e le perdite della Borsa salite
oltre il 10% dall’inizio delle proteste nel novembre scorso.
La fuga dei capitali stranieri dovuta agli scontri, infine, minaccia
di essere aggravata dalla nuova tendenza globale in atto legata al
cosiddetto “tapering” della Federal Reserve americana, in seguito al
quale gli investitori stanno lasciando i paesi emergenti come la
Thailandia per tornare negli Stati Uniti, dove è previsto un aumento dei
tassi di interesse, e quindi dei rendimenti, in seguito al parziale
ritiro delle politiche di “stimolo” perseguite in questi ultimi anni.
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