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05/02/2014

Thailandia, rischio paralisi

di Mario Lombardo

Il primo parziale esito delle elezioni anticipate andate in scena domenica scorsa in Thailandia ha registrato come previsto un’affluenza alle urne relativamente bassa in seguito al boicottaggio annunciato da tempo dal principale partito di opposizione. Ancor più dei numeri ancora lontani dall’essere definitivi, tuttavia, le cattive notizie per il governo della premier Yingluck Shinawatra sono legate ora alle dispute legali che si annunciano attorno al voto e ad una situazione economica in rapido deterioramento nel paese del sud-est asiatico.

La Commissione Elettorale thailandese ha finora diffuso solo alcuni dati provvisori per le 68 province (su 77) dove il voto si è effettivamente tenuto senza gli ostacoli posti dai manifestanti anti-governativi. Complessivamente, le operazioni sono state possibili nell’89% dei distretti elettorali, dove l’affluenza è stata del 46%, contro il 73% registrato nel 2011. Nella capitale, Bangkok, questo dato è stato appena del 26%, principalmente a causa della mancanza di schede elettorali in alcuni seggi dopo che i gruppi di protesta avevano impedito la distribuzione del materiale necessario.

Decisamente superiore alla media è risultata invece l’affluenza nelle roccaforti del partito al potere - Pheu Thai - nel nord del paese, dove in molti casi ha superato il 72%. Come ha riportato il Bangkok Post, però, anche alcuni distretti considerati favorevoli al governo e dominati dalle cosiddette “camicie rosse” hanno fatto segnare dati di poco superiori al 50%. Ciò suggerirebbe un certo calo di popolarità del Pheu Thai, probabilmente a causa sia dei mancati pagamenti ai coltivatori nell’ambito del programma di acquisto di riso da parte del governo a prezzi gonfiati sia della abortita legge sull’amnistia che, oltre a riportare in patria l’ex premier Thaksin Shinawatra, avrebbe assolto i leader del precedente gabinetto dalle accuse di avere ordinato la repressione nel sangue delle proteste animate dalle “camicie rosse” nel 2010.

Lo stesso quotidiano in lingua inglese della capitale ha poi ipotizzato una proiezione sui seggi nella camera bassa. Qui il Pheu Thai potrebbe aggiudicarsene almeno 300, incrementando i 264 conquistati nel 2011, anche se in questa occasione era assente dalle schede elettorali il Partito Democratico che di seggi ne deteneva 159.

Per essere ritenuto valido, il voto in Thailandia deve in ogni caso eleggere almeno il 95% dei 500 deputati totali della camera bassa, così che l’assemblea possa essere convocata per scegliere un nuovo governo. A causa dei blocchi dei manifestanti nelle scorse settimane, in alcuni distretti elettorali non era stato possibile registrare alcun candidato e appare perciò tutt’altro che certo il raggiungimento della quota prevista dalla Costituzione.

Tale percentuale non sembra infatti essere stata raggiunta, come ha ammesso indirettamente il governo stesso, il quale ha già chiesto alla Commissione Elettorale di preparare una serie di elezioni speciali il prima possibile per assegnare i seggi mancanti. Queste operazioni potrebbero prolungarsi per alcuni mesi, lasciando la Thailandia senza un governo con pieni poteri, e oltretutto rischiano di incontrare nuovi ostacoli perché le elezioni speciali riguarderanno provincie del paese dove è forte la presenza degli oppositori del governo.

Ad aggiungere incertezza per l’esecutivo ci ha pensato poi il Partito Democratico di opposizione che, nella giornata di martedì, ha annunciato l’avvio di due cause legali di fronte alla Corte Costituzionale. La prima cercherà di rendere nulle le elezioni poiché il processo sarebbe stato incostituzionale per vari motivi, tra cui quello che esso non è stato completato in un solo giorno. Questa motivazione appare quanto meno assurda, visto che la necessità di ulteriori consultazioni è dovuta precisamente alle manifestazioni di protesta animate in buona parte dai sostenitori del Partito Democratico.

Con la seconda denuncia si chiede invece lo scioglimento del partito Pheu Thai, responsabile di avere dichiarato nel mese di gennaio lo stato di emergenza nel paese, impedendo di conseguenza lo svolgimento del voto in circostanze normali. Lo stato di emergenza era stato dichiarato dal governo a Bangkok e nelle aree limitrofe in seguito all’intensificarsi delle minacce alle operazioni elettorali da parte dell’opposizione ma, in realtà, non è stato praticamente implementato.

La Commissione Elettorale, da parte sua, ha fatto sapere anch’essa che mercoledì si riunirà per analizzare i problemi emersi domenica durante il voto e gli esposti presentati alla propria attenzione relativi a presunti abusi delle autorità governative.

Il prossimo pronunciamento del più alto tribunale thailandese è atteso con molte apprensioni dal partito della premier Yingluck, dal momento che esso fu già protagonista del golpe giudiziario del 2008 che rimosse due governi guidati dai sostenitori di Thaksin. In precedenza, quando nel 2006 furono i militari a deporre quest’ultimo, la stessa Corte Costituzionale aveva inoltre sciolto il suo partito - Thai Rak Thai - con l’accusa di avere violato le leggi elettorali. Una nuova prospettiva simile appare ora probabile a molti, alla luce anche della freddezza dimostrata finora dalle forze armate verso un possibile intervento diretto per risolvere la crisi.

In aggiunta ai procedimenti appena annunciati dal Partito Democratico, il governo e il principale partito che lo sostiene continuano ad essere minacciati anche da almeno altre due indagini in corso da alcune settimane. Una riguarda oltre 300 parlamentari del Pheu Thai, accusati di avere presentato un emendamento costituzionale per rendere il Senato interamente elettivo, e l’altra la stessa Yingluck per avere gestito contro l’interesse pubblico il già ricordato programma di sussidi destinati ai produttori di riso, in gran parte elettori del proprio partito.

Anche se fortemente volute dal governo in carica per dimostrare il seguito che esso manterrebbe in Thailandia, le elezioni di domenica hanno in realtà evidenziato soprattutto il controllo sempre più debole sul paese di Yingluck e del suo partito dopo quasi tre mesi di proteste di piazza organizzate da gruppi vicini ai tradizionali centri di potere (esercito, burocrazia statale, monarchia) per chiedere le dimissioni immediate dell’esecutivo e lo sradicamento dell’influenza della famiglia Shinawatra sul sistema politico.

Un ulteriore grattacapo per il governo è giunto poi martedì, quando la Cina ha cancellato un acquisto da 1,2 milioni di tonnellate di riso thailandese a causa della già citata indagine sul programma di sussidi condotta dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione.
La decisione del vicino settentrionale metterà ancora più in difficoltà la premier, già penalizzata dalle accese critiche dell’opposizione ad un programma che ha fatto segnare perdite per le casse pubbliche pari a 6 miliardi di dollari e costretta a far fronte ai malumori dei coltivatori che hanno venduto il riso allo stato senza ottenere ancora alcun pagamento.

Più in generale, le tensioni nel paese potrebbero essere inasprite dal peggioramento dell’economia, come conferma il recente aggiustamento al ribasso delle previsioni di crescita per il 2014 dal 5,1% al 3,1% e le perdite della Borsa salite oltre il 10% dall’inizio delle proteste nel novembre scorso.
La fuga dei capitali stranieri dovuta agli scontri, infine, minaccia di essere aggravata dalla nuova tendenza globale in atto legata al cosiddetto “tapering” della Federal Reserve americana, in seguito al quale gli investitori stanno lasciando i paesi emergenti come la Thailandia per tornare negli Stati Uniti, dove è previsto un aumento dei tassi di interesse, e quindi dei rendimenti, in seguito al parziale ritiro delle politiche di “stimolo” perseguite in questi ultimi anni.

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