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04/05/2014

La finale del tifoso mezzo morto

La letteratura antropologica sulle tifoserie italiane gode, da quasi un decennio, della presenza del libretto di Valerio Marchi, Il derby del bambino morto (Castelvecchi, 2005) utilissimo per cominciare a rintracciare le dinamiche comportamentali e comunicative delle culture dal basso presenti nel calcio. Per un inquadramento teorico del contesto risulta poi ancora molto utile il saggio di Armstrong e Giulianotti, di prevista pubblicazione in Italia presso la Casa Usher, Avenues of contestation. Football hooligans running and ruling urban spaces (presente nel numero 10, volume 2 di Social Anthropology, 2002). Messi assieme i due testi ci presentano due strumenti di lettura dei fatti attorno, e ben dentro, alla finale romana di Coppa Italia. Marchi ci parla del particolare processo di formazione di convinzioni collettive, leggende metropolitane, imperativi etici all’interno del comportamento da stadio. Mentre il testo di Armstrong e Giulianotti, oltre ad essere una preziosa ricognizione del dibattito inglese sull’oggetto tifo degli anni ’80 e ’90, aiuta a leggere un passaggio che è alla nascita del governo del calcio contemporaneo. Quello che porta il calcio ad essere governato prima da processi di segregazione delle tifoserie, in spazi dedicati ma sempre valicati, poi da quelli dominati dalla sorveglianza a distanza. Processo di governo necessario nel momento in cui, a cavallo degli anni ’80 e ’90, la sorveglianza del territorio si fa capillare perché tecnologica e viceversa. E tanto più necessario nel momento in cui la rappresentazione del calcio, e di tutti gli eventi correlati, è governata da un’ottica del potere sempre più controversa, microfisica e complessa (prima allargamento copertura tv, poi internet, poi cellulari, poi social media, poi smartphone). Alla elevazione della complessità degli strumenti di comunicazione deve quindi corrispondere una ancora più elevata complessità della sorveglianza governamentale. Altrimenti il governo è impotente di fronte a comportamenti collettivi governati da altri. Già perché, fa bene ricordarlo alla malinconia di sinistra, la comunicazione non è un processo simbolico, o di trasferimento di informazioni, è potere che si forma, che circola e che confligge. Potere sul quale le forme governamentali non possono perdere il primato. Notoriamente però le forme governamentali basate sull’ottica del potere, oggi rappresentazione tecnologica della sorveglianza e della spettacolarizzazione della pena, hanno due punti deboli. Il primo è legato alla spettacolarizzazione, mediaticamente e tecnologicamente diffusa, della loro incapacità di governare i territori, lo spazio che comunque si sono date. Il secondo, che rimanda ad un immaginario più probatorio che spettacolare, dell’evidenza dell’ingiustizia presente in questo esercizio della governamentalità. Entrambi i punti deboli, in una società connessa, trovano il loro acme in immagini collettivamente ed istantaneamente condivise. In una sola settimana, tra le immagini degli applausi dei membri del Sap verso i colleghi ritenuti responsabili della morte di Aldrovandi e quelle dello stadio Olimpico, il simbolico dell’evidenza e della spettacolarizzazione si sono entrambi materializzati riproducendo, nell’istante della comunicazione, la delegittimazione delle forme governamentali presenti. Naturalmente la delegittimazione, e la disfunzione, delle forme governamentali è destinata a ricomporsi fino alla crisi successiva. Ma questo è un altro piano.

Quanto accaduto a Roma ci dice quindi qualcosa sui punti deboli di alcune forme di governamentalità in Italia. Un qualcosa verso cui non c’è affatto bisogno di parteggiare per capirlo. L’analisi delle criticità del potere infatti è efficace quando è clinica non tanto quando si schiera. Ovviamente tutto questo non ha valore per i resti dell’opinione pubblica di sinistra, più o meno rifugiatisi entro quell’arca di Noè del legalitarismo che è il Fatto. Opinione pronta a schierarsi dietro posizioni inclini a legittimare ogni prossima stretta securitaria e, di conseguenza, il disastro sociale successivo. Stiamo parlando dell’elettorato che elesse il ceto politico che votò le leggi Amato sugli stadi, quello scomparso con la sinistra arcobaleno, sostanzialmente incapace di capire, ancora oggi, il rapporto tra quelle leggi sulla “sicurezza” e la negazione dei diritti civili. Salvo accorgersi che esistono i casi Aldrovandi, ad esaurita rappresentanza elettorale della sinistra, quando accende la tv o i social oppure fa colazione con il giornale.

Ma torniamo al testo di Marchi, sul derby sospeso a causa della leggenda metropolitana del bambino ucciso, e ad un punto nodale. Quello, presente sostanzialmente in Marchi e in tutte le culture collettive di impetuosa formazione, della morte improvvisa, e percepita come innocente, che impone ad un soggetto, che si senta come tale, il tentativo di sospensione di un evento collettivo. Questa pratica di imposizione, legata ad un simbolico rispetto verso il lutto familiare e ad una concezione di giustizia, è così diffuso da essere comune alle istituzioni come alle tifoserie. Nel caso del bambino morto, poi rivelatosi infondato, o della morte di Sandri, rivelatasi purtroppo ben fondata, l’imposizione della sospensione è stata, in modi diversi, praticata dalle tifoserie. Mentre, si ricordi sia il caso Raciti ma anche la morte di Giovanni Paolo secondo, la sospensione del campionato di fronte ad una morte improvvisa e simbolica, è stata praticata dalle istituzioni (più lontano nel tempo, la morte di Spagnolo a Genova, trovava convergenti, per motivi diversi, istituzioni e tifoserie nella sospensione di Genoa-Milan). In entrambi i mondi si tratta di un fenomeno di valorizzazione della morte, e dei contenuti etici del decesso, di fronte all’intera società. Poi che qui si giochino etiche estremamente differenti, in conflitto tra loro, lo si capisce anche senza leggere Max Scheler. Il caso della finale all’Olimpico, proprio nello scontro tra etiche differenti, si innesca nel classicissimo dello stato di eccezione, quello dove si gioca la centralità di un fatto controverso sul quale è sovrano chi ha capacità di decidere. Infatti, all’ora della partita, allo stadio è ovviamente conosciuta la notizia di un tifoso napoletano in fin di vita. È evidente che la notizia della morte del tifoso napoletano avrebbe innescato le dinamiche di sospensione della partita che le tifoserie sanno mettere in atto. Dinamiche che i responsabili dell’ordine pubblico sul terreno, come è già capitato, avrebbero finito per assecondare. Ma che fare, prima della partita, di fronte alla notizia di qualcuno che è stato gravemente ferito ma non è morto? Qualcuno che potrebbe morire, come non morire, durante la partita alla quale eventualmente imporre la sospensione? Oppure qualcuno che è giò morto mentre la notizia viene taciuta? E che fare se tutto questo accade proprio nello stadio in cui un derby è stato sospeso proprio per la leggenda metropolitana di un bambino morto? 

Sono domande dalla risposta difficile, e qui basta davvero una sommaria analisi dei tweet girati, che sono circolati sia nelle tifoserie che nella catena di comando delle forze dell’ordine. Con le forme della governamentalità presenti in questi casi che percepivano il fatto che si stavano mettendo in scena proprio i due fenomeni in grado di delegittimarle: spettacolarizzazione della loro impotenza, evidenza della loro ingiustizia e tutto entro una impressionante proliferazione di immagini. Vedere i rappresentanti delle istituzioni che, in mezzo al campo, parlano tra loro portando la mano alla bocca (per impedire la lettura labiale, come fanno i calciatori) non ha fatto che confermare questo timore dell’immagine spettacolare e veicolata come prova. Il labiale e il fuori onda sono infatti potentissimi elementi di delegittimazione del potere. Si è quindi instaurata una trattiva tra forze dell’ordine e tifoserie sul comportamento da tenere in campo. Trattativa spettacolarizzata dalle immagini della diretta televisiva, dai commenti, dalle ondate di tweet che circolavano per la rete e sugli smartphone. E qui deve essere chiaro un passaggio. Il calcio, proprio per la sua natura festiva e di sospensione delle attività dal lavoro, fin dalle origini assume un profondo significato carnevalesco. Ovvero di rovesciamento dei ruoli socialmente protagonisti quando una società si riversa attorno al campo. Con forte differenza rispetto al teatro sette-ottocentesco, dove la massa era accolta in rappresentanza in un loggione dove doveva comunque saper tenere le buone maniere, le autorità allo stadio non sono protagoniste e visibili in bella mostra accanto all’evento. Allo stadio, già al primo colpo d’occhio, la massa ingoia ogni visibilità del potere costituito rimettendolo in discussione dal punto di vista estetico. Senza dare letture romantiche del fenomeno: il potere senza estetica è già dimezzato. L’estetica e la visibilità del potere vengono così ricostruite nella rappresentazione televisiva dove invece, di nuovo, le figure istituzionali trovano commento, visibilità e primi piani, e collocazione gerarchica. Una trattativa come quella dell’Olimpico, rompe completamente queste gerarchie sociali ricostruite dai media. Specie con i primi piani di un Renzi sperduto, silenzioso, in contemporanea, e in contrasto, con quella di un esponente della tifoseria napoletana che si trovava a suo agio nel contesto. Alla fine, grazie anche ad un escamotage della polizia, quello della comunicazione sul ferimento del pomeriggio senza rapporto con la partita, la mediazione per cominciare la finale, senza farla interrompere dalla curva napoletana, si è trovata. Nel derby del bambino morto la partita fu interrotta per una leggenda metropolitana. Nello stesso stadio, dieci anni dopo, si è diffusa istituzionalmente una falsa notizia, omettendo che lo sparatore e l’episodio sono legati al mondo del calcio, per abbassare la tensione e cominciare la partita. A quel punto la Rai ha giocato fino in fondo l’effetto cosmetico del “ritorno alla normalità”, ridurre la rappresentazione della rottura dell’ordine istituzionale in campo, annullando l’effetto stadio nel momento in cui veniva cantato un inno nazionale affondato dai fischi di un pubblico comunque esasperato. Ma c’è youtube, ci sono gli smartphone, c’è l’informazione alternativa in tempo reale, c’è la difficoltà della tv a nascondere del tutto il sonoro in diretta. Il rovesciamento dei ruoli, l’importanza della decisione delle tifoserie piuttosto che delle istituzioni nel giocare o meno la partita, ormai era pienamente rappresentata. E persino consacrata dalla contestazione all’inno. Desacralizzazione piena del presidente del consiglio, di solito chiacchierone e al centro della scena, a favore dell’emergenza simbolica dell’esponente della tifoseria napoletana con una maglietta che in bella mostra esibiva la scritta “Speziale libero”. Si parla di Antonino Speziale la cui responsabilità nella morte dell’ispettore Raciti, durante Catania-Palermo del 2007, non solo non è affatto scontata ma sarà anche oggetto della revisione del processo di condanna. Siccome Speziale è stato già condannato dai media ufficiali, per le tifoserie il garantismo mediatico è approssimativo, per il mainstream si è materializzata così una notte dei fantasmi. Sono riapparsi il derby del bambino morto, Raciti, l’esaltazione dell’”assassino” Speziale, le tifoserie protagoniste del campo, le istituzioni non in grado di decidere autonomamente. È apparsa la vedova Raciti che dichiara di aver visto “la debolezza dello stato”. Infatti, il giorno successivo alla finale sul mainstream si è scatenata la reazione indignata al grido di “non è accettabile che decidono i tifosi se si gioca”, in riferimento alla evidente mediazione decisiva, tra tifosi napoletani, per lo svolgimento della partita. E non conta nemmeno il fatto che, grazie a questa mediazione, si siano evitati prevedibili incidenti legati alla sospensione della partita e anche i costi di spazi pubblicitari eventualmente da rifondere per la mancata trasmissione dell’evento. Persino la sparatoria, per quanto possibile, è stata ufficialmente derubricata a “fatto individuale”. Nell’Italia renziana e decisionista si è fatta molta più attenzione critica alla catena, che si è spontanamente creata tra stadio e forze dell’ordine, di trattativa e decisione che al succeso della mediazione che ha impedito il peggio. È stato messo infatti platealmente in scena quello che il mainstream e le forme negano persino come esistente e comunque non rappresentabile. Un mondo, in questo caso delle tifoserie, in grado come avviene in qualsiasi società e in molti altri tipi di negoziazioni, di trattare efficacemente con le istituzioni. Un segmento di società che ha costretto le istituzioni a scendere sulla terra. Da fatti come quello dell’Olimpico si comprende quindi, lo stadio aiuta sempre a leggere la società, come sia autoritaria questa democrazia. Un regime nel quale solo le istituzioni devono decidere su qualsiasi cosa e, se non avviene, nel quale il partner negoziatore reale viene subito dopo comunque criminalizzato (ovviamenente se si parla di rapporti tra istituzioni e base sociale) Si badi a quanto accaduto: dopo la mediazione dei tifosi napoletani non sono accaduti incidenti di rilievo. Un caso evidente di riuscita, e collettiva, conoscenza del proprio contesto. Niente a che vedere con la rappresentazione mediale del giorno successivo. Dove si parla di tifosi che impauriscono i bambini (sempre usati come scudi umani per argomenti securitari) di “Italia tribale”, che impone le proprie regole. Non è mancato il nuovo, consueto richiamo alla guerra contro gli ultras a colpi di “abbiamo provato a capirli, ora basta”. Se la sequenza di leggi speciali dedicate allo stadio, dalla fine degli anni ’80, è “provare a capire” c’è quasi da essere curiosi sull’“ora basta”. Eppure, una volta riconosciuta simbolicamente l’esistenza di un ferito (e da colpi di arma da fuoco) di un tifoso napoletano, una volta ristabilito l’ordine simbolico, anche grazie a notizie sparse con intelligenza, la stessa tifoseria partenopea ha contribuito allo svolgimento dell’evento e ad un sostanziale tranquillo deflusso del dopo-partita. Eppure non è bastato per evitare la scomunica di Saviano, consueto cerimoniere pro domo governativa, che ha interpretato i fatti come un complotto della camorra quando, uno scrittore dovrebbe saperlo, vicende come quella dell’Olimpico sono molto, molto più complesse di un affare tra clan. Questo perché ormai si era giocato l’altro simbolico, quello della messa in discussione del potere istituzionale di decisione. Simbolicamente, e anche materialmente ma questo va in secondo piano nei processi comunicativi, il sovrano che ha deciso sullo stato d’eccezione all’Olimpico non è appartenuto ad alcuna forma governamentale. Lo stesso Tg2, in chiara depressione espressiva, ha trasmesso le facce preoccupate e bloccate del presidente del consiglio, della federazione, del Coni, del presidente del Senato. Per poi riprendere di contrasto la riunione, dentro l’Olimpico, con la quale il TG2 sostiene si è deciso di lasciar giocare la partita. Per una sera, il mistico potere della Entscheidung, la decisione era là non nelle mani della forme governamentali. Tutto certificato dalla tv, comunque sia andata, quindi ad alto potere destabilizzante. Ne viene fuori così un tipo di governamentalità, e conseguentemente di democrazia, incapace di riconoscere la necessità di mediazione con i soggetti reali. Una democrazia capace solo di ridurre ogni evento, che avviene al di fuori del proprio recinto istituzionale, come un nido di perversi fatti criminali comunque da estirpare. 

E qui è importante capire la dinamica dello spostamento dei poteri, dovuta all’emergenza spettacolare delle immagini, piuttosto che discutere della moralità degli attori in campo. Perché questa dinamica di spostamento di poteri può riprodursi, in ben altri contesti, grazie alla natura ripetitiva dei contesti sociali.

Va considerato che il tifoso romanista arrestato, per presunte responsabilità dirette nella sparatoria, è rimasto coinvolto, una volta anche assolto e risarcito, in una serie di vicende che hanno fatto la storia degli incidenti attorno al calcio dell’ultimo ventennio. Da uno storico Brescia-Roma del ‘94, in cui le tifoserie di destra laziali e romaniste si saldarono nell’assalto alla polizia, fino addirittura proprio al derby del bambino morto del 2004. Anzi secondo il mainstream fu proprio Daniele De Santis, accusato al momento di aver spararato ai tifosi napoletani, ad aver chiesto ai giocatori della Roma di non giocare il famoso derby del mito metropolitano del bambino morto. I fatti concreti andranno poi riscontrati, considerato che accertamento delle responsabilità e notizie sono due fenomeni spesso molto diversi. Ma quella che è entrata in scena è la spettacolarizzazione della ritirata dello stato con un immaginario, con personaggi e simboli forti di un decennio intero in una sola notte, il tutto emerso così velocemente dal nulla in cui sembrava finito. Perché così funziona la velocità della delegittimazione delle istituzioni: si forma quasi istantaneamente, sulle ali delle immagini, componendo un panorama di spettri che sembravano dimenticati. Spesso non si capisce quanto la governamentalità sia debole di fronte agli spettri, e alle immagini, perché si ha una nozione di resistenza tutta ricavata sulle metafore del corpo e dello sforzo fisico (ereditate dalla società fordista entro un’idea di forme simboliche ferma, oltre alle metafore del corpo, al primato logico-normativo). 

Di fronte a tutto questo fa sicuramente bene uno sguardo al futuro. L’economia del calcio italiano necessita di tifosi che non ha e che, forse, non avrà. Sono quei bambini di oggi, tirati fuori dai tg come simbolo di innocenza tradita dagli scontri, che in futuro dovrebbero comporre una classe media che invece non avrà, nei prossimi anni, il potere di acquisto di cui il mercato ha bisogno. Quello di alimentare a pieno ritmo pay tv, merchandising, prodotti sinergici col calcio e pacchetti viaggi. Se in futuro esistesse questo pubblico di massa il modello inglese, come lo percepiscono i media italiani, potrebbe avverarsi. Prima un’ondata repressiva, per relegare definitivamente le tifoserie alla storia, poi una valanga di investimenti privati e la blindatura di questo mondo di consumatori rispetto al resto della società. I prossimi anni di crisi, che peggioreranno le patologie sociali emerse nel lustro precedente, indurranno invece l’economia del calcio italiano sia a convivere con impianti obsoleti, in mezzo a qualche nuovo complesso, che con un tipo di clientela intermittente per stili di consumo come per attitudine a rispettare la legalità. Si renderà quindi necessario un salto paradigmatico nel controllo, in cui il passaggio dalla segregazione alla sorveglianza è di nuovo tipo. Facciamo un esempio: il Daspo è un vecchio strumento di segregazione, che ha oltre 20 anni di vita, ritenuto efficace anche nelle società di sorveglianza, quelle delle telecamere e dell’individuazione veloce del reo sugli spalti. Ed è la stessa logica del Daspo, non tanto punire un reato commesso ma soprattutto far scontare la possibilità futura di un comportamento scorretto da parte del destinario del provvedimento, che suggerisce l’evoluzione della società di sorveglianza. E le tecnologie della crime prediction (si veda in materia il fondamentale Predictive Policing, AAVV, Rand Corporation 2013) che esistono per individuare i comportamenti criminogeni futuri sono destinate ad incontrare il calcio italiano. In modo da monitorare la massa di persone, comunque necessaria per tenere in piedi l’economia di questo sport, e sanzionarla solo nel momento in cui è necessario. Analisi incrociata dei grandi dati prodotti dai tweet, dai messaggi su Whatsapp, su Facebook, dei macrodati degli spostamenti, delle telefonate, delle strisciate di ogni genere di carta possono quindi mettersi a servizio di una crime prediction, che è fenomeno dello studio e della previsione dei comporamenti futuri sia di massa che individuali, magari specializzata sui comportamenti delle tifoserie. Si parla di un corpo di discipline, e di tecnologie di governo e di analisi dei dati, che oggi mancano ma che, viste le evoluzioni della sorveglianza, in futuro possono ben servire per adattare norme, istituzioni e ristrutturazioni urbane al profilo di selezione e di coercizione di una massa di tifosi con poca possibilità di spesa, e inclinazioni devianti, che deve comunque essere resa docile e messa ad un minimo di profitto. Inutile dire che, una volta raffinate le tecnologie di previsione del comportamento allo stadio, l’applicazione di questo genere di controllo va ben oltre lo stadio.

Sarà uno scenario in cui forse le occasioni di spettacolarizzazione dell’impotenza delle forme governamentali, e l’evidenza della produzione di ingiustizia, potranno radicalizzarsi. Ogni sistema di controllo basato sull’informazione, nel momento in cui è esposto a eventi prodotti dall’esterno che parlano il linguaggio dei suoi stessi codici, rischia choc comunicativi. Ogni sistema di sorveglianza basato sull’estrazione dei dati personali, come forma di controllo e di profiling commerciale, può incontrare forme di resistenza significativa, specie nel momento in cui alla società diviene chiaro il rapporto tra commercio e sorveglianza. E la resistenza, nelle società tecnologiche, finisce sempre per fare cortocircuito con l’immagine. Là dove c’è il più alto grado di accumulazione del capitale, come diceva un francese spesso citato a sproposito, e anche del potere politico.

Ecco quindi lo scenario futuro, per adesso completamente in mano ai forcaioli di ogni schieramento, ai moralisti, alle anime impaurite dai barbari, ai dottor Stranamore delle prossime società di controllo. Per questo l’analisi delle criticità del potere, specie in prospettiva e ovunque si annidino, è fondamentale. In un periodo in cui il pensiero politico dell’emancipazione è sostanzialmente esangue, l’analisi della criticità del potere rappresenta una vera e propria fisioteriapia del pensiero. La finale del tifoso mezzo morto, al quale si augura vivamente un miracolo di guarigione, qualcosa in questo senso ci ha fatto capire.
 
Per Senza Soste, nique la police - 4 maggio 2014

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