La
letteratura antropologica sulle tifoserie italiane gode, da quasi un
decennio, della presenza del libretto di Valerio Marchi, Il derby del bambino morto
(Castelvecchi, 2005) utilissimo per cominciare a rintracciare le
dinamiche comportamentali e comunicative delle culture dal basso
presenti nel calcio. Per un inquadramento teorico del contesto risulta
poi ancora molto utile il saggio di Armstrong e Giulianotti, di prevista
pubblicazione in Italia presso la Casa Usher, Avenues of contestation. Football hooligans running and ruling urban spaces (presente nel numero 10, volume 2 di Social Anthropology, 2002). Messi
assieme i due testi ci presentano due strumenti di lettura dei fatti
attorno, e ben dentro, alla finale romana di Coppa Italia. Marchi ci
parla del particolare processo di formazione di convinzioni collettive,
leggende metropolitane, imperativi etici all’interno del comportamento
da stadio. Mentre il testo di Armstrong e Giulianotti, oltre ad essere
una preziosa ricognizione del dibattito inglese sull’oggetto tifo degli
anni ’80 e ’90, aiuta a leggere un passaggio che è alla nascita del
governo del calcio contemporaneo. Quello che porta il calcio ad essere
governato prima da processi di segregazione delle tifoserie, in spazi
dedicati ma sempre valicati, poi da quelli dominati dalla sorveglianza a
distanza. Processo di governo necessario nel momento in cui, a cavallo
degli anni ’80 e ’90, la sorveglianza del territorio si fa capillare
perché tecnologica e viceversa. E tanto più necessario nel momento in
cui la rappresentazione del calcio, e di tutti gli eventi correlati, è
governata da un’ottica del potere sempre più controversa, microfisica e
complessa (prima allargamento copertura tv, poi internet, poi cellulari,
poi social media, poi smartphone). Alla elevazione della complessità
degli strumenti di comunicazione deve quindi corrispondere una ancora
più elevata complessità della sorveglianza governamentale. Altrimenti il
governo è impotente di fronte a comportamenti collettivi governati da
altri. Già perché, fa bene ricordarlo alla malinconia di sinistra, la
comunicazione non è un processo simbolico, o di trasferimento di
informazioni, è potere che si forma, che circola e che confligge. Potere
sul quale le forme governamentali non possono perdere il primato.
Notoriamente però le forme governamentali basate sull’ottica del potere,
oggi rappresentazione tecnologica della sorveglianza e della
spettacolarizzazione della pena, hanno due punti deboli. Il primo è
legato alla spettacolarizzazione, mediaticamente e tecnologicamente
diffusa, della loro incapacità di governare i territori, lo spazio che
comunque si sono date. Il secondo, che rimanda ad un immaginario più
probatorio che spettacolare, dell’evidenza dell’ingiustizia presente in
questo esercizio della governamentalità. Entrambi i punti deboli, in una
società connessa, trovano il loro acme in immagini collettivamente ed
istantaneamente condivise. In una sola settimana, tra le immagini degli
applausi dei membri del Sap verso i colleghi ritenuti responsabili della
morte di Aldrovandi e quelle dello stadio Olimpico, il simbolico
dell’evidenza e della spettacolarizzazione si sono entrambi
materializzati riproducendo, nell’istante della comunicazione, la
delegittimazione delle forme governamentali presenti. Naturalmente la
delegittimazione, e la disfunzione, delle forme governamentali è
destinata a ricomporsi fino alla crisi successiva. Ma questo è un altro
piano.
Quanto accaduto a Roma ci dice quindi qualcosa sui punti deboli di alcune
forme di governamentalità in Italia. Un qualcosa verso cui non c’è
affatto bisogno di parteggiare per capirlo. L’analisi delle criticità
del potere infatti è efficace quando è clinica non tanto quando si
schiera. Ovviamente tutto questo non ha valore per i resti dell’opinione
pubblica di sinistra, più o meno rifugiatisi entro quell’arca di Noè
del legalitarismo che è il Fatto. Opinione pronta a schierarsi
dietro posizioni inclini a legittimare ogni prossima stretta securitaria
e, di conseguenza, il disastro sociale successivo. Stiamo parlando
dell’elettorato che elesse il ceto politico che votò le leggi Amato
sugli stadi, quello scomparso con la sinistra arcobaleno,
sostanzialmente incapace di capire, ancora oggi, il rapporto tra quelle
leggi sulla “sicurezza” e la negazione dei diritti civili. Salvo
accorgersi che esistono i casi Aldrovandi, ad esaurita rappresentanza
elettorale della sinistra, quando accende la tv o i social oppure fa
colazione con il giornale.
Ma
torniamo al testo di Marchi, sul derby sospeso a causa della leggenda
metropolitana del bambino ucciso, e ad un punto nodale. Quello, presente
sostanzialmente in Marchi e in tutte le culture collettive di impetuosa
formazione, della morte improvvisa, e percepita come innocente, che
impone ad un soggetto, che si senta come tale, il tentativo di
sospensione di un evento collettivo. Questa pratica di imposizione,
legata ad un simbolico rispetto verso il lutto familiare e ad una
concezione di giustizia, è così diffuso da essere comune alle
istituzioni come alle tifoserie. Nel caso del bambino morto, poi
rivelatosi infondato, o della morte di Sandri, rivelatasi purtroppo ben
fondata, l’imposizione della sospensione è stata, in modi diversi,
praticata dalle tifoserie. Mentre, si ricordi sia il caso Raciti ma
anche la morte di Giovanni Paolo secondo, la sospensione del campionato
di fronte ad una morte improvvisa e simbolica, è stata praticata dalle
istituzioni (più lontano nel tempo, la morte di Spagnolo a Genova,
trovava convergenti, per motivi diversi, istituzioni e tifoserie nella
sospensione di Genoa-Milan). In entrambi i mondi si tratta di un
fenomeno di valorizzazione della morte, e dei contenuti etici del
decesso, di fronte all’intera società. Poi che qui si giochino etiche
estremamente differenti, in conflitto tra loro, lo si capisce anche
senza leggere Max Scheler. Il caso della finale all’Olimpico, proprio
nello scontro tra etiche differenti, si innesca nel classicissimo dello
stato di eccezione, quello dove si gioca la centralità di un fatto
controverso sul quale è sovrano chi ha capacità di decidere. Infatti,
all’ora della partita, allo stadio è ovviamente conosciuta la notizia di
un tifoso napoletano in fin di vita. È evidente che la notizia della
morte del tifoso napoletano avrebbe innescato le dinamiche di sospensione
della partita che le tifoserie sanno mettere in atto. Dinamiche che i
responsabili dell’ordine pubblico sul terreno, come è già capitato,
avrebbero finito per assecondare. Ma che fare, prima della partita, di
fronte alla notizia di qualcuno che è stato gravemente ferito ma non è
morto? Qualcuno che potrebbe morire, come non morire, durante la partita
alla quale eventualmente imporre la sospensione? Oppure qualcuno che è
giò morto mentre la notizia viene taciuta? E che fare se tutto questo
accade proprio nello stadio in cui un derby è stato sospeso proprio per
la leggenda metropolitana di un bambino morto?
Sono domande dalla risposta difficile, e qui basta davvero una sommaria analisi dei tweet
girati, che sono circolati sia nelle tifoserie che nella catena di
comando delle forze dell’ordine. Con le forme della governamentalità
presenti in questi casi che percepivano il fatto che si stavano mettendo
in scena proprio i due fenomeni in grado di delegittimarle:
spettacolarizzazione della loro impotenza, evidenza della loro
ingiustizia e tutto entro una impressionante proliferazione di immagini.
Vedere i rappresentanti delle istituzioni che, in mezzo al campo,
parlano tra loro portando la mano alla bocca (per impedire la lettura
labiale, come fanno i calciatori) non ha fatto che confermare questo
timore dell’immagine spettacolare e veicolata come prova. Il labiale e
il fuori onda sono infatti potentissimi elementi di delegittimazione del
potere. Si è quindi instaurata una trattiva tra forze dell’ordine e
tifoserie sul comportamento da tenere in campo. Trattativa
spettacolarizzata dalle immagini della diretta televisiva, dai commenti,
dalle ondate di tweet che circolavano per la rete e sugli
smartphone. E qui deve essere chiaro un passaggio. Il calcio, proprio
per la sua natura festiva e di sospensione delle attività dal lavoro,
fin dalle origini assume un profondo significato carnevalesco. Ovvero di
rovesciamento dei ruoli socialmente protagonisti quando una società si
riversa attorno al campo. Con forte differenza rispetto al teatro
sette-ottocentesco, dove la massa era accolta in rappresentanza in un
loggione dove doveva comunque saper tenere le buone maniere, le autorità
allo stadio non sono protagoniste e visibili in bella mostra accanto
all’evento. Allo stadio, già al primo colpo d’occhio, la massa ingoia
ogni visibilità del potere costituito rimettendolo in discussione dal
punto di vista estetico. Senza dare letture romantiche del fenomeno: il
potere senza estetica è già dimezzato. L’estetica e la visibilità del
potere vengono così ricostruite nella rappresentazione televisiva dove
invece, di nuovo, le figure istituzionali trovano commento, visibilità e
primi piani, e collocazione gerarchica. Una trattativa come quella
dell’Olimpico, rompe completamente queste gerarchie sociali ricostruite
dai media. Specie con i primi piani di un Renzi sperduto, silenzioso, in
contemporanea, e in contrasto, con quella di un esponente della
tifoseria napoletana che si trovava a suo agio nel contesto. Alla fine,
grazie anche ad un escamotage della polizia, quello della comunicazione
sul ferimento del pomeriggio senza rapporto con la partita, la
mediazione per cominciare la finale, senza farla interrompere dalla
curva napoletana, si è trovata. Nel derby del bambino morto la partita
fu interrotta per una leggenda metropolitana. Nello stesso stadio, dieci
anni dopo, si è diffusa istituzionalmente una falsa notizia, omettendo
che lo sparatore e l’episodio sono legati al mondo del calcio, per
abbassare la tensione e cominciare la partita. A quel punto la Rai ha
giocato fino in fondo l’effetto cosmetico del “ritorno alla normalità”,
ridurre la rappresentazione della rottura dell’ordine istituzionale in
campo, annullando l’effetto stadio nel momento in cui veniva cantato un
inno nazionale affondato dai fischi di un pubblico comunque esasperato.
Ma c’è youtube, ci sono gli smartphone, c’è l’informazione
alternativa in tempo reale, c’è la difficoltà della tv a nascondere del
tutto il sonoro in diretta. Il rovesciamento dei ruoli, l’importanza
della decisione delle tifoserie piuttosto che delle istituzioni nel
giocare o meno la partita, ormai era pienamente rappresentata. E persino
consacrata dalla contestazione all’inno. Desacralizzazione piena del
presidente del consiglio, di solito chiacchierone e al centro della
scena, a favore dell’emergenza simbolica dell’esponente della tifoseria
napoletana con una maglietta che in bella mostra esibiva la scritta
“Speziale libero”. Si parla di Antonino Speziale la cui responsabilità
nella morte dell’ispettore Raciti, durante Catania-Palermo del 2007, non
solo non è affatto scontata ma sarà anche oggetto della revisione del
processo di condanna. Siccome Speziale è stato già condannato dai media
ufficiali, per le tifoserie il garantismo mediatico è approssimativo,
per il mainstream si è materializzata così una notte dei fantasmi. Sono
riapparsi il derby del bambino morto, Raciti, l’esaltazione
dell’”assassino” Speziale, le tifoserie protagoniste del campo, le
istituzioni non in grado di decidere autonomamente. È apparsa la vedova
Raciti che dichiara di aver visto “la debolezza dello stato”. Infatti,
il giorno successivo alla finale sul mainstream si è scatenata la
reazione indignata al grido di “non è accettabile che decidono i tifosi
se si gioca”, in riferimento alla evidente mediazione decisiva, tra
tifosi napoletani, per lo svolgimento della partita. E non conta nemmeno
il fatto che, grazie a questa mediazione, si siano evitati prevedibili
incidenti legati alla sospensione della partita e anche i costi di spazi
pubblicitari eventualmente da rifondere per la mancata trasmissione
dell’evento. Persino la sparatoria, per quanto possibile, è stata
ufficialmente derubricata a “fatto individuale”. Nell’Italia renziana e
decisionista si è fatta molta più attenzione critica alla catena, che si
è spontanamente creata tra stadio e forze dell’ordine, di trattativa e
decisione che al succeso della mediazione che ha impedito il peggio. È
stato messo infatti platealmente in scena quello che il mainstream e le
forme negano persino come esistente e comunque non rappresentabile. Un
mondo, in questo caso delle tifoserie, in grado come avviene in
qualsiasi società e in molti altri tipi di negoziazioni, di trattare
efficacemente con le istituzioni. Un segmento di società che ha
costretto le istituzioni a scendere sulla terra. Da fatti come quello
dell’Olimpico si comprende quindi, lo stadio aiuta sempre a leggere la
società, come sia autoritaria questa democrazia. Un regime nel quale
solo le istituzioni devono decidere su qualsiasi cosa e, se non avviene,
nel quale il partner negoziatore reale viene subito dopo comunque
criminalizzato (ovviamenente se si parla di rapporti tra istituzioni e
base sociale) Si badi a quanto accaduto: dopo la mediazione dei tifosi
napoletani non sono accaduti incidenti di rilievo. Un caso evidente di
riuscita, e collettiva, conoscenza del proprio contesto. Niente a che
vedere con la rappresentazione mediale del giorno successivo. Dove si
parla di tifosi che impauriscono i bambini (sempre usati come scudi
umani per argomenti securitari) di “Italia tribale”, che impone le
proprie regole. Non è mancato il nuovo, consueto richiamo alla guerra
contro gli ultras a colpi di “abbiamo provato a capirli, ora basta”. Se
la sequenza di leggi speciali dedicate allo stadio, dalla fine degli
anni ’80, è “provare a capire” c’è quasi da essere curiosi sull’“ora
basta”. Eppure, una volta riconosciuta simbolicamente l’esistenza di un
ferito (e da colpi di arma da fuoco) di un tifoso napoletano, una volta
ristabilito l’ordine simbolico, anche grazie a notizie sparse con
intelligenza, la stessa tifoseria partenopea ha contribuito allo
svolgimento dell’evento e ad un sostanziale tranquillo deflusso del
dopo-partita. Eppure non è bastato per evitare la scomunica di Saviano,
consueto cerimoniere pro domo governativa, che ha interpretato i
fatti come un complotto della camorra quando, uno scrittore dovrebbe
saperlo, vicende come quella dell’Olimpico sono molto, molto più
complesse di un affare tra clan. Questo perché ormai si era giocato
l’altro simbolico, quello della messa in discussione del potere
istituzionale di decisione. Simbolicamente, e anche materialmente ma
questo va in secondo piano nei processi comunicativi, il sovrano che ha
deciso sullo stato d’eccezione all’Olimpico non è appartenuto ad alcuna
forma governamentale. Lo stesso Tg2, in chiara depressione espressiva,
ha trasmesso le facce preoccupate e bloccate del presidente del
consiglio, della federazione, del Coni, del presidente del Senato. Per
poi riprendere di contrasto la riunione, dentro l’Olimpico, con la quale
il TG2 sostiene si è deciso di lasciar giocare la partita. Per una
sera, il mistico potere della Entscheidung, la decisione era là
non nelle mani della forme governamentali. Tutto certificato dalla tv,
comunque sia andata, quindi ad alto potere destabilizzante. Ne viene
fuori così un tipo di governamentalità, e conseguentemente di
democrazia, incapace di riconoscere la necessità di mediazione con i
soggetti reali. Una democrazia capace solo di ridurre ogni evento, che
avviene al di fuori del proprio recinto istituzionale, come un nido di
perversi fatti criminali comunque da estirpare.
E qui è importante capire la dinamica dello spostamento dei poteri,
dovuta all’emergenza spettacolare delle immagini, piuttosto che
discutere della moralità degli attori in campo. Perché questa dinamica
di spostamento di poteri può riprodursi, in ben altri contesti, grazie
alla natura ripetitiva dei contesti sociali.
Va considerato che il tifoso romanista arrestato, per presunte
responsabilità dirette nella sparatoria, è rimasto coinvolto, una volta
anche assolto e risarcito, in una serie di vicende che hanno fatto la
storia degli incidenti attorno al calcio dell’ultimo ventennio. Da uno
storico Brescia-Roma del ‘94, in cui le tifoserie di destra laziali e
romaniste si saldarono nell’assalto alla polizia, fino addirittura
proprio al derby del bambino morto del 2004. Anzi secondo il mainstream
fu proprio Daniele De Santis, accusato al momento di aver spararato ai
tifosi napoletani, ad aver chiesto ai giocatori della Roma di non
giocare il famoso derby del mito metropolitano del bambino morto. I
fatti concreti andranno poi riscontrati, considerato che accertamento
delle responsabilità e notizie sono due fenomeni spesso molto diversi.
Ma quella che è entrata in scena è la spettacolarizzazione della
ritirata dello stato con un immaginario, con personaggi e simboli forti
di un decennio intero in una sola notte, il tutto emerso così
velocemente dal nulla in cui sembrava finito. Perché così funziona la
velocità della delegittimazione delle istituzioni: si forma quasi
istantaneamente, sulle ali delle immagini, componendo un panorama di
spettri che sembravano dimenticati. Spesso non si capisce quanto la
governamentalità sia debole di fronte agli spettri, e alle immagini,
perché si ha una nozione di resistenza tutta ricavata sulle metafore del
corpo e dello sforzo fisico (ereditate dalla società fordista entro
un’idea di forme simboliche ferma, oltre alle metafore del corpo, al
primato logico-normativo).
Di fronte a tutto questo fa sicuramente bene uno sguardo al futuro.
L’economia del calcio italiano necessita di tifosi che non ha e che,
forse, non avrà. Sono quei bambini di oggi, tirati fuori dai tg come
simbolo di innocenza tradita dagli scontri, che in futuro dovrebbero
comporre una classe media che invece non avrà, nei prossimi anni, il
potere di acquisto di cui il mercato ha bisogno. Quello di alimentare a
pieno ritmo pay tv, merchandising, prodotti sinergici col calcio
e pacchetti viaggi. Se in futuro esistesse questo pubblico di massa il
modello inglese, come lo percepiscono i media italiani, potrebbe
avverarsi. Prima un’ondata repressiva, per relegare definitivamente le
tifoserie alla storia, poi una valanga di investimenti privati e la
blindatura di questo mondo di consumatori rispetto al resto della
società. I prossimi anni di crisi, che peggioreranno le patologie
sociali emerse nel lustro precedente, indurranno invece l’economia del
calcio italiano sia a convivere con impianti obsoleti, in mezzo a
qualche nuovo complesso, che con un tipo di clientela intermittente per
stili di consumo come per attitudine a rispettare la legalità. Si
renderà quindi necessario un salto paradigmatico nel controllo, in cui
il passaggio dalla segregazione alla sorveglianza è di nuovo tipo.
Facciamo un esempio: il Daspo è un vecchio strumento di segregazione,
che ha oltre 20 anni di vita, ritenuto efficace anche nelle società di
sorveglianza, quelle delle telecamere e dell’individuazione veloce del
reo sugli spalti. Ed è la stessa logica del Daspo, non tanto punire un
reato commesso ma soprattutto far scontare la possibilità futura di un
comportamento scorretto da parte del destinario del provvedimento, che
suggerisce l’evoluzione della società di sorveglianza. E le tecnologie
della crime prediction (si veda in materia il fondamentale Predictive Policing,
AAVV, Rand Corporation 2013) che esistono per individuare i
comportamenti criminogeni futuri sono destinate ad incontrare il calcio
italiano. In modo da monitorare la massa di persone, comunque necessaria
per tenere in piedi l’economia di questo sport, e sanzionarla solo nel
momento in cui è necessario. Analisi incrociata dei grandi dati
prodotti dai tweet, dai messaggi su Whatsapp, su Facebook,
dei macrodati degli spostamenti, delle telefonate, delle strisciate di
ogni genere di carta possono quindi mettersi a servizio di una crime prediction,
che è fenomeno dello studio e della previsione dei comporamenti futuri
sia di massa che individuali, magari specializzata sui comportamenti
delle tifoserie. Si parla di un corpo di discipline, e di tecnologie di
governo e di analisi dei dati, che oggi mancano ma che, viste le
evoluzioni della sorveglianza, in futuro possono ben servire per
adattare norme, istituzioni e ristrutturazioni urbane al profilo di
selezione e di coercizione di una massa di tifosi con poca possibilità
di spesa, e inclinazioni devianti, che deve comunque essere resa docile e
messa ad un minimo di profitto. Inutile dire che, una volta raffinate
le tecnologie di previsione del comportamento allo stadio,
l’applicazione di questo genere di controllo va ben oltre lo stadio.
Sarà
uno scenario in cui forse le occasioni di spettacolarizzazione
dell’impotenza delle forme governamentali, e l’evidenza della produzione
di ingiustizia, potranno radicalizzarsi. Ogni sistema di controllo
basato sull’informazione, nel momento in cui è esposto a eventi prodotti
dall’esterno che parlano il linguaggio dei suoi stessi codici, rischia
choc comunicativi. Ogni sistema di sorveglianza basato sull’estrazione
dei dati personali, come forma di controllo e di profiling commerciale,
può incontrare forme di resistenza significativa, specie nel momento in
cui alla società diviene chiaro il rapporto tra commercio e
sorveglianza. E la resistenza, nelle società tecnologiche, finisce
sempre per fare cortocircuito con l’immagine. Là dove c’è il più alto
grado di accumulazione del capitale, come diceva un francese spesso
citato a sproposito, e anche del potere politico.
Ecco quindi lo scenario futuro, per adesso completamente in mano ai
forcaioli di ogni schieramento, ai moralisti, alle anime impaurite dai
barbari, ai dottor Stranamore delle prossime società di controllo. Per
questo l’analisi delle criticità del potere, specie in prospettiva e
ovunque si annidino, è fondamentale. In un periodo in cui il pensiero
politico dell’emancipazione è sostanzialmente esangue, l’analisi della
criticità del potere rappresenta una vera e propria fisioteriapia del
pensiero. La finale del tifoso mezzo morto, al quale si augura vivamente
un miracolo di guarigione, qualcosa in questo senso ci ha fatto capire.
Per Senza Soste, nique la police - 4 maggio 2014
Fonte
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