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19/07/2014

La guerra alle porte

Obama e Cameron hanno deciso: ad abbattere l'aereo malese sono stati i filorussi che vogliono sganciarsi dall'Ucraina consegnata ai nazisti. L'inchiesta internazionale, di cui si continua a parlare, servirebbe eventualmente solo a confermare – con tutti i crismi dell'ufficialità diplomatica – una tesi che è eufemistico definire preconfezionata.

Sia chiaro: in questo tipo di vicende la verità è un optional. Nessuna delle parti ha il minimo interesse per come sono andati realmente gli eventi, importa soltanto l'uso che se ne può fare. E per l'Occidente l'occasione è di quelle lungamente cercate; per la Russia la conferma definitiva di un assedio che le carte geografiche e storiche dimostrano con disarmante evidenza.

Quindi escalation. Diplomatica, per ora. Con incremento e indurimento delle sanzioni applicate alla Russia (ma in realtà soprattutto all'Europa, che dal gas e dal petrolio russi dipende in misura notevole, per obbligarla a recidere i legami con l'est), l'estromissione di Mosca da tutta una serie di consessi internazionali dove si mediano gli interessi globali.

Ma la via è tracciata. È identica a quelle già percorse negli ultimi decenni, contro la Jugoslavia e la Libia, due volte contro l'Iraq, diversi paesi africani in cui il colonialismo si è ripresentato tale e quale. Con abiti francesi o inglesi o statunitensi, ma con identiche modalità: via i regimi non in sintonia con gli interessi imperialisti, dentro altri regimi – non certo “democratici” – totalmente allineati.

Il problema è che la Russia non è l'Iraq e Putin non è disarmato come, in fondo, era Gheddafi. L'armamento nucleare strategico – non certo le strutture militari convenzionali, complessivamente più arretrate sul piano tecnologico – è di livello comparabile con quello statunitense. Ogni incremento di tensione equivale qui a un passo verso il baratro. Non è infatti pensabile che la nuova Russia, nazionalista e capitalista, accetti di essere ulteriormente ridimensionata, assediata, circondata, espropriata o inibita nel “libero commercio” delle proprie risorse energetiche.

Di questo “problemino” gli analisti occidentali non fanno menzione. Continuano a ragionare come se fossimo ancora nella fase aurorale della “globalizzazione”, quando il modello del libero mercato sembrava destinato a un successo inarrestabile, foriero di benessere generale e quindi di pace duratura (pur se con qualche crisi regionale qui e là). La retorica ufficiale continua a straparlare di democrazia e diritti umani evitando accuratamente di soppesare lo stop radicale imposto alle costituzioni democratiche, per esempio nei paesi che avevano fin qui adottato il “modello sociale europeo” (quasi piena occupazione, welfare, economia mista, istituzioni aperte ai risultati elettorali, ecc). Come se l'Unione Europea non fosse una costruzione oligarchica la cui “costituzione reale” è refrattaria a qualsiasi istanza popolare, con un “parlamento” privato fin dall'inizio dell'unico potere che lo renderebbe tale: quello legislativo. Come se i palestinesi, in fondo, non possano essere considerati pienamente "umani" e quindi agevolmente abbandonabili alla volontà di sterminio israeliana.

Eppure gli analisti economici – più di quelli “geopolitici” – vanno da tempo segnalando come la globalizzazione sia ormai un lontano ricordo e il mercato globale sia diventato un teatro di battaglia per aggregati continentali. Solo in campo economico si riconosce la realtà della “guerra tra le monete”, in genere successiva all'empasse nella spartizione dei mercati e anticipatrice di ben altre forme di competizione dura. E solo qui – non certo nel campo degli ideali o dei “valori morali” – va rintracciata la ragione della conflittualità internazionale crescente, dell'irrigidimento del “confronto” imposto in primo luogo dagli Stati Uniti.

Stiamo per entrare nell'ottavo anno di crisi globale. Nessuna economia, per quanto grande sia, si è effettivamente rimessa sulla via della “crescita”. L'unica eccezione è costituita dalla Cina, che continua a macinare record (+7,5%, quest'anno) pur riorientando il proprio modello soprattutto sulla crescita del mercato interno. Tutti gli altri “continenti” (Stati Uniti, Giappone, Unione Europea e persino i Brics) viaggiano nella stagnazione o nella recessione. Le banche centrali hanno immesso nel sistema finanziario quantitativi di liquidità inconcepibili, ma senza effetti sensibili sull'economia reale. Ne è risultata potenziata di nuovo la speculazione finanziaria, sono cresciute le borse e i titoli azionari, si sono stabilizzati i titoli di Stato. Ma la disoccupazione è aumentata esponenzialmente dappertutto (tranne che in Cina, ovviamente), perché l'innovazione tecnologica distrugge posti di lavoro; e, se la “crescita” non compensa più questa sostituzione “fisiologica” del lavoro umano con quello delle macchine, si creano bacini immensi di umanità senza risorse, identità, dignità, speranza, futuro.

In modo quasi incidentale, pochi giorni fa, IlSole24Ore accennava alla falsità strutturale delle statistiche sulla disoccupazione, che tengono conto soltanto degli iscritti alle apposite liste, ma non considerano affatto chi il lavoro ha smesso persino di cercarlo. Solo negli Stati Uniti gli “scoraggiati”, quelli che nemmeno cercano più un'occupazione qualsiasi, ha raggiunto la terribile cifra di 90 milioni di unità.

«Quando un cittadino non trova lavoro viene rimosso dalla base di calcolo dei disoccupati, in un certo senso diviene uno zombie nel senso che non lavora, ma per le statistiche non conta. Negli Stati Uniti il numero dei "not in labour force" è ormai di oltre 90 milioni, cittadini che sono usciti dal calcolo della forza lavoro, ritenuti fannulloni dal Governo».

Se fossero considerati per quel che sono, ovvero disoccupati, il relativo tasso statunitense schizzerebbe oltre il 40% della forza lavoro. Uno scenario da anni '30, non da superpotenza che vuol controllare il mondo.

Cifre analoghe si registrano per l'occupazione “giovanile” europea, soprattutto tra i Piigs, pur in presenza di una serie di convenzioni statistiche che in varia misura occultano la vera dimensione della disoccupazione (per esempio: i lavoratori part-time o i precari, che non hanno un salario sufficiente a sopravvivere, sono calcolati comunque come “occupati”, anche se “poveri”).

C'è insomma molta disperazione nel capitalismo mondiale. E non solo al livello degli strati "inferiori" della società. La “spinta propulsiva” si è esaurita da anni e nessuna “pensata non convenzionale” delle banche centrali è fin qui riuscita a farla resuscitare. Ma in regime capitalistico non c'è nessuna soluzione che possa far accettare la “decrescita”, il consumare-meno-consumare-tutti o qualcosa del genere. L'unica soluzione – da sempre, perché fisiologicamente innestata nella logica dell'accumulazione – è quella dell'incremento di “competitività”. Industriale, produttiva, economica. Ma inevitabilmente anche politica e infine militare. C'è tanto capitale che chiede di essere valorizzato. Anzi, ce n'è troppo. Una parte deve essere “volatilizzato”, deve scomparire, ricreando così quella “condizione di scarsità” entro cui può ripartire un – più ristretto, comunque – processo di accumulazione.

Il problema vero è che nessuno vuol scomparire, tutti si applicano a “competere” al meglio.

Per questo, nemmeno troppo lentamente, l'economia va forzando la sfera politica. Che a livello internazionale significa “diplomatica”. Mentre negli hangar si scaldano i motori e le cartuccere cominciano ad essere riempite.

È così che la guerra si presenta alle porte. Sempre inattesa, sempre alla fine di una più o meno lunga quiete, sempre insensata. Sempre inevitabile come un corpo che scivola lungo un pendio fangoso e senza appigli.

Poi può bastare uno studente a Sarajevo o un missile in Ucraina a segnare il punto di non ritorno.

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