Come funziona il modello organizzativo per “intensità di cura”. In assenza di specialisti e con un numero insufficiente di posti letto è impensabile un miglioramento dell’assistenza ospedaliera.
Nel racconto “Sette piani”, pubblicato nel marzo 1937, Dino Buzzati immaginava una struttura ospedaliera dove i pazienti venivano assegnati ai vari livelli in base alla loro gravità: più il paziente era grave, più in basso veniva ricoverato.
Dalla fantascienza alla realtà
Il protagonista del racconto, collocato inizialmente al settimo piano, non riuscirà ad evitare la discesa fino al primo e abbandonerà irrimediabilmente il mondo dei sani. Dal racconto fu tratto anche un film del 1953, “Il fischio al naso”, interpretato da Ugo Tognazzi. Qualche decennio dopo, il modello assistenziale “per intensità di cura” ha trasformato in realtà l'ospedale immaginato da Buzzati, pur con qualche significativa differenza. La prima è che i piani di solito non sono sette ma tre: “alta”, “media” e “bassa” intensità di cura. E contrariamente al racconto, un piano più alto corrisponde a una maggiore gravità. L'obiettivo dichiarato è quello di riportare il paziente al centro del sistema e riacquistare una visione unitaria delle sue problematiche di salute, non più a compartimenti separati per le varie parti del corpo come nel caso dei tradizionali reparti (ortopedia, cardiologia...) collocati nei diversi “padiglioni”. Qui sono i vari specialisti che vengono chiamati ad intervenire al letto del paziente, al quale viene assegnato un “tutor “ medico e uno infermieristico. Il modello è stato sperimentato per la prima volta (indovinate...) negli Stati Uniti, nella clinica Virginia Mason di Seattle.
Dalla fabbrica all’ospedale
L'intensità di cura rappresenta l'applicazione all’assistenza ospedaliera del modello Toyota, che nella fabbrica ha sostituito il vecchio modello fordista-taylorista basato sulla catena di montaggio e su una scomposizione esasperata del lavoro operaio. Mentre alla catena l'operaio era chiamato a svolgere operazioni estremamente semplici e ripetitive, nel modello Toyota vengono richieste una pluralità di competenze con l'utilizzo attivo della propria intelligenza ed esperienza, nella logica della cosiddetta “qualità totale” dove è ben accetto il contributo dell'operaio al miglioramento dei processi di produzione. Rispetto al modello fordista all’operaio si richiede quindi una maggior flessibilità e un forte senso di appartenenza all'azienda con un’adesione consapevole ai suoi valori e obiettivi, il che richiede forme di condizionamento e di controllo sociale ancora più sofisticate. Il modello Toyota, che ha comportato la fine della grande fabbrica e dell' ”operaio-massa”, permette un forte abbattimento dei costi tramite la produzione in tempo reale (eliminando i costi di magazzino) e l'esternalizzazione di tutto ciò che non fa parte del nucleo produttivo centrale.
Dal punto di vista del personale
Molti hanno accolto favorevolmente questo modello organizzativo in quanto il ruolo del personale infermieristico ne uscirebbe molto valorizzato. I critici hanno rilevato però che l'infermiere tradizionale di “reparto”, si occupava di una casistica più ristretta e svolgeva un numero più ristretto di prestazioni sulle quali acquisiva nel tempo una grande esperienza specifica, mentre nel nuovo ruolo l’infermiere può trovarsi spaesato, la formazione il più delle volte è inadeguata e la qualità dell’assistenza ne risente. Quanto al senso di appartenenza, sia nel modello fordista-taylorista che nel modello Toyota l'azienda fornisce ai propri dipendenti tutta una serie di servizi (cultura, sport, vacanze, educazione, asili nido ecc.) che lo rafforzano. Da noi invece da anni si pretende un senso di appartenenza non supportato né da incentivi di tipo economico (i contratti sono bloccati da anni) né da quei servizi sopra citati che per i dipendenti della sanità pubblica non sono praticamente mai esistiti. Inoltre, a differenza di quanto avviene nel tanto decantato modello Toyota, mai al personale è stato consentita una partecipazione al processo di miglioramento dei servizi e mai si è ascoltato il loro parere, nella logica autoreferenziale tipica del “governatore” Rossi.
In Toscana e a Livorno
Per quanto riguarda la Toscana è da notare che l’intensità di cura è stata applicata negli ospedali territoriali ma non nelle grandi aziende ospedaliere universitarie autonome, dove anzi la scomposizione delle specialità si è estremizzata (chirurgia della mano ecc.). Nel caso della sanità livornese e in particolare del progetto del nuovo ospedale di Livorno i motivi di perplessità si moltiplicano, in quanto l'applicazione di questo modello sembra dettata più che altro da logiche di riduzione della spesa sanitaria. In questi anni si è assistito a una forte riduzione delle specialità mediche e del numero dei posti letto: solo da dicembre 2012 ad oggi negli ospedali dell'Asl 6 se ne sono persi circa 160. Il decreto Balduzzi prevedeva un tasso di posti letto di 3,70 per mille abitanti, ma la Regione Toscana è andata oltre, ponendosi l’obiettivo di 3,15 e per Livorno (qualcuno poi ci spiegherà il perché) di 2,19.
Questa riduzione viene giustificata con il criterio dell' ”ospedale per acuti” ma senza che si siano create sul territorio tutte quelle alternative al ricovero (case della salute in primis) da offrire a chi non rientra nella definizione di “acuto”. Allo stesso modo sono stati fortemente ridotti i tempi di degenza, con proteste sempre più frequenti per le dimissioni precoci. Inoltre la visione celestiale degli specialisti che ruotano intorno al letto del malato è ben difficile che si realizzi nel momento in cui di specialisti non ce ne sono. Infine, la sanità livornese non ha risolto il problema principale che è quello del rapporto con la vicina Pisa. Circa 100 milioni di euro (su 666 complessivi del bilancio) se ne vanno per la questione delle cosiddette “fughe”, la maggior parte delle quali relative a prestazioni che potrebbero e dovrebbero essere erogate efficacemente sul nostro territorio (riabilitazione, urologia ecc.). Di questi aspetti e delle prospettive di sviluppo della sanità livornese ci occuperemo nel prossimo numero.
Ciro Bilardi
(*) L’articolo raccoglie degli spunti di discussione emersi in una conversazione con Massimo Ferrucci, segretario del sindacato Fials, che ringraziamo per la collaborazione
Tratto da Senza Soste cartaceo n. 95 (luglio-agosto 2014)
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