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05/01/2015

Albert Richter, il campione che sfidò i nazisti

31 gennaio 1939, stazione ferroviaria di Weil am Rhein, località tedesca al confine con la Svizzera. Doganieri tedeschi e membri della Gestapo irrompono sul treno diretto in Svizzera e controllano il bagagli di un giovane. Si tratta di un paio di sci e di una bicicletta da corsa, di quelle senza freni che si usano per le gare su pista. Quasi a “colpo sicuro” i poliziotti tagliano le gomme delle ruote e vi trovano una notevole somma di denaro. Il giovane, Albert Richter, viene immediatamente arrestato.

Ma chi è Albert Richter?

Il “cannone di Ehrenfeld”

Albert Richter, Teddy per gli amici, nasce a Ehrenfeld, un sobborgo popolare di Colonia, il 14 ottobre 1912. Suo padre è un artigiano che fabbrica figurine in gesso, mestiere a cui avvia il giovane Albert e i suoi due fratelli, Karl e Josef. Per la verità il suo desiderio sarebbe quello di fare dei figli dei musicisti: Albert impara a suonare il violoncello, Karl il sassofono e Josef il clarinetto. Ma Albert scopre un’altra, grande, passione: il ciclismo. A Colonia ci sono ben due velodromi. Il ciclismo su pista, in quegli anni, è molto popolare, anche in Germania. Albert, che comincia a frequentare nel tempo libero gli ambienti ciclistici di nascosto dal padre, è bravo, tanto bravo che una volta con la sua bicicletta da passeggio (il classico “cancello”) rischia di battere Werner Moden, campione dei primi anni ’20 e ora allenatore. Moden si rende conto delle potenzialità del giovane e gli insegna i primi rudimenti della difficile arte del pistard. Albert possiede una tale potenza esplosiva che riesce a mettere in difficoltà anche corridori professionisti. Probabilmente rimane colpito dalle gare dei campionati del mondo del 1927 che si svolgono proprio a Colonia, nel Mungerrsdorfer Velodrome, capace di ospitare fino a 20mila spettatori. Fra l’entusiasmo generale diventa campione del mondo dei dilettanti un suo concittadino, Matthias Engel, che sarà un suo avversario negli anni ’30.

A 16 anni Albert, che corre sia su strada che su pista, comincia a fare le sue prime gare. Riesce anche a vincerne una ma suo padre non sa nulla e il trofeo finisce nascosto sotto il letto. Il gioco finisce quando durante un allenamento il giovane talento cade e si spacca la clavicola. L’ira del padre è moderata dalla madre e, per fortuna, la bicicletta non viene fatta a pezzi.

Il 1932 è un anno decisivo per la carriera di Albert Richter. Ormai affermato e popolare in città tanto che i suoi tifosi lo hanno soprannominato il “cannone di Ehrenfeld”, Albert partecipa a Lipsia alle selezioni per far parte della nazionale. Le vince e partecipa con la maglia della nazionale tedesca ad uno dei trofei più ambiti per gli sprinter di quei tempi, il Grand Prix de Paris per dilettanti. Vince anche quello. Intanto aveva conosciuto Ernst Berliner. Berliner fa il mobiliere a Colonia, ma soprattutto è un ex campione conosciuto come capace allenatore di pistard.

Nel 1932 sono in programma le Olimpiadi a Los Angeles ma la Federazione ciclistica tedesca (DVR) non ha soldi per inviare i suoi atleti negli Stati Uniti. Peccato. La nazionale tedesca ha però un altro obiettivo, questa volta alla portata dei magri bilanci della DVR: i campionati mondiali dilettanti di Roma.

Albert ha grosse difficoltà economiche. L’attività artigianale del padre è stata travolta dalla crisi del ’29 e Albert è disoccupato. Sopravvive grazie ai rimborsi spese che gli organizzatori delle riunioni su pista gli garantiscono ma per partecipare è costretto a lasciare spesso la Germania. Si allena poco, si allena male e spesso la sua assenza dalla Germania lo costringe a rinunciare alle gare a cui la DVR gli chiede di partecipare. Fra l’altro Albert si rompe di nuovo la clavicola. Eppure il suo talento è talmente grande che la DVR lo convoca ugualmente per i mondiali di Roma.

Il 3 settembre 1932, ventiquattro atleti partecipano alla gara di velocità dei mondiali. Albert Richter arriva in finale dove affronta e batte l’italiano Nino Mozzo. Quando torna a Colonia migliaia di suoi concittadini lo festeggiano sulle strade del centro che percorre su un’auto scoperta. Al suo fianco c’è il suo allenatore e amico Ernst Berliner.

Un’aquila tra le svastiche
La vittoria di Roma gli spalanca le porte del professionismo. Per il disoccupato Albert è una liberazione. I pistard guadagnano bene e con i soldi arriva un po’ di ossigeno anche per i magri bilanci della famiglia Richter, piegata dalla crisi economica che attanaglia la Germania.

Albert si trasferisce a Parigi, la capitale europea dell’attività su pista dove funzionano quattro velodromi aperti tutto l’anno. Gli inizi della sua attività parigina sono complicati. E’ un giovane che parla solo il dialetto di Colonia e deve imparare ad orientarsi in una realtà immensa e cosmopolita come la Parigi degli anni ’30. Ma Albert è sveglio e alla fine si adatta: impara il francese (“grazie al cinematografo” dirà in seguito) e si integra nel variegato universo dei velocisti che girano il mondo (Sprinter Wandergruppe) passando da un velodromo all’altro, da una riunione ad un’altra, da un gran premio di velocità ad una “sei giorni”. Fa amicizia con due velocisti in particolare: il belga Jef Scherens (il dominatore della velocità degli anni ‘30) e il francese Louis Gerardin, l’idolo di casa. Il pubblico li soprannomina “I tre moschettieri”.

La carriera di Albert si sviluppa parallelamente all’avvento del nazismo. Il 1933 è il primo anno di Albert fra i professionisti. Albert diviene campione tedesco di velocità battendo proprio Mathias Engel (titolo che manterrà ininterrottamente fino al 1939, inanellando quindi sette successi di fila a dimostrazione di una superiorità netta). Nel 1933 Albert, debuttante tra i professionisti, partecipa ai mondiali di Parigi classificandosi terzo alle spalle di Scherens e del francese Michard, quattro volte campione del mondo dal 1927 al 1930 e che sarà di nuovo campione nel 1947!.

Ma il 1933 è soprattutto l’anno della presa del potere da parte di Hitler e dei suoi accoliti. Con un decreto del 25 aprile 1933 gli ebrei sono esclusi dai club e dalle associazioni sportive tedesche. Il ciclismo non farà eccezione. Con l’avvento del nazismo la maggior parte dei dirigenti della DVR, che annovera 14 federazioni regionali e 101 federazioni locali, passa spontaneamente fra le file del partito nazista. Ben presto ogni federazione sportiva verrà messa sotto la direzione di un ufficiale delle SS.

Mentre Albert colleziona successi nei velodromi di tutto il mondo e diventa uno degli idoli dei tifosi di ciclismo che gli danno il soprannome del “tedesco a otto cilindri”, il nazionalsocialismo procede nella sua energica attività per fare del popolo tedesco una enorme macchina da guerra. Per i nazisti lo sport non è solo un’arma propagandistica di eccezionale importanza (quale migliore esempio della grandezza di un governo che conseguire vittorie sportive a livello internazionale?) ma è anche uno strumento di propaganda per abituare le masse all’uso della violenza. L’attività fisica vista dai nazisti è propedeutica alla creazione di una mentalità che vede nell’ariano, naturalmente tedesco, l’esponente della razza eletta, superiore alle altre, razza che si deve imporre e conquistare il resto del mondo. Lo sportivo tedesco, naturalmente vincente, come metafora del soldato invincibile e del nazista perfetto!

Nel 1934 Albert vince il G.P dell’UCI (Unione ciclistica internazionale) davanti a Scherens e Michard, e il GP de la Republique battendo in finale ancora una volta il campione del mondo in carica Scherens. Scherens vendicherà questa doppia sconfitta riconfermandosi campione ai mondiali di Lipsia e Albert si dovrà accontentare del secondo posto. Albert Richter non ha simpatia per i nazisti, Non si inscriverà mai al partito e dimostrerà in varie occasioni la sua avversione al governo e ai suoi riti. Il 1934 è anche l’anno di una foto che non deve aver fatto piacere ai padroni della Germania. Albert Richter vince per la seconda volta il titolo di campione tedesco di velocità su pista battendo ad Hannover Peter Steffes, secondo, e Mathias Engel, terzo. Il giorno dopo tutti i giornali pubblicano la notizia con la foto del vincitore circondato da tifosi e funzionari della DVR. Hanno tutti il braccio destro teso del saluto nazista. Tutti tranne uno: Albert Richter.

Albert ha anche un altro difetto: diversamente dai suoi compagni di squadra in nazionale, non indossa la nuova maglia della DVR, bianca con la svastica, ma preferisce la vecchia maglia, quella bianca con l’aquila.

Nel 1935 Albert vince il G.P. dell’UVF (Unione ciclistica francese) davanti a Michard e Scherens che però lo batte nella finale del campionato del mondo a Bruxelles. Nel 1936 sale di nuovo sul podio dei campionati del mondo di Zurigo, questa volta però sul gradino più basso, superato da Scherens e da Gerardin.

Nel 1937, anno in cui Albert è di nuovo terzo ai mondiali di Copenaghen dietro Scherens (campione del mondo per la quinta volta consecutiva!) e Van Vliet, Ernst Berliner, è costretto a fuggire in Olanda. Berliner, ebreo, aveva avuto già diversi avvertimenti dalle camice brune che gli avevano più volte devastato il mobilificio. Naturalmente la DVR “invita” Albert a cambiare allenatore. Ma Albert è un professionista noto a livello internazionale e riesce a resistere alle pressioni dei vertici ciclistici nazisti. Continuerà ad avvalersi dei consigli dell’amico Ernst tanto che sempre più spesso va ad allenarsi in Olanda.

Nel 1938 vince il G.P. de Paris, battendo l’astro nascente dello sprint mondiale, l’olandese Van Vliet, e il GP de l’UVF, battendo Scherens, ma ai mondiali di Amsterdam sarà di nuovo costretto al gradino più basso: campione del mondo è Van Vliet, secondo Scherens.

Ai mondiali del 1938 Berliner è ancora a fianco del campione tedesco ma la situazione in Germania sta rapidamente precipitando. Le sue vittorie e la sua fama di campione continuano a essere utilizzate dal nazismo ma Albert si rende conto che certi atteggiamenti, chiaramente sfavorevoli al regime, non sarebbero più tollerati. Berliner lo consiglia alla prudenza. Non può più permettersi di criticare il regime. Qualche volta fa anche lui il saluto nazista. Ormai vive quasi sempre all’estero e quando è in Germania la polizia politica lo controlla da vicino. Medita di cambiare nazionalità. Nei periodi invernali, quando l’attività ciclistica è meno intensa, si ritira spesso nella stazione sciistica svizzera di Engelberg. Quando è in Germania riceve più volta la visita della Gestapo che gli chiede di fornire informazioni sulle installazioni belliche francesi, belghe e olandesi. Albert si rifiuterà sempre di svolgere questa attività spionistica.

Il tragico epilogo: “suicidato” dalla Gestapo
Nel 1939 Albert non ottiene grandi risultati. Nel suo palmares si segnala un terzo posto al G.P. de Paris, dietro Gerardin e l’italiano Roatti. Ma ormai il mondo ha altro cui pensare. Primo settembre 1939, Milano, velodromo Vigorelli, campionati del mondo: Albert Richter vince la finale per il terzo e quarto posto. Mentre Scherens e Van Vliet si preparano alla finale che assegnerà il titolo, giunge la notizia che la Germania ha invaso la Polonia. E’ iniziata la seconda guerra mondiale. I campionati vengono sospesi. Quelli del 1939 rimarranno campionati mondiali con assegnata la medaglia di bronzo ma non quelle d’oro e d’argento!

Richter, nonostante le preoccupazioni di Berliner, ritorna in patria perché vuole partecipare ad una gara, il G.P. di Berlino, che vince. E’ il 9 dicembre 1939. Torna a Colonia e, cosciente che la Gestapo non gli lascerà scampo, prepara la fuga. Sa bene che di li a poco verrà chiamato per combattere nella Wermacht. Agli amici confida che non ha alcuna intenzione di partecipare alla guerra e di “sparare agli amici” francesi che lo hanno acclamato come un idolo per anni. Prima del viaggio nasconde nei penumatici della sua bicicletta 12700 marchi che gli erano stati consegnati dai familiari di Albert Schweizer, un ebreo tedesco espatriato da tempo. La dimostrazione che sulla strada dell’opposizione al nazismo Albert Richter aveva pedalato molto di più di quanto non desse a vedere.

Quando viene fermato a Weil am Rhein, Albert viaggiava con due amici, pistard olandesi, incontrati, sembra, per caso. Anche loro vengono perquisiti ma in modo molto più blando di quanto la Gestapo non faccia sui bagagli di Albert. Richter viene portato al carcere di Lorrach. Il 2 gennaio 1940, quando uno dei suoi due fratelli si reca a Lorrach per visitarlo lo trova nella camera mortuaria dell’ospedale, il corpo insanguinato, i vestiti forati in più punti. La prima versione ufficiale fu quella di un incidente sciistico, poi si disse che Albert era stato ucciso durante una fuga fra le montagne ma la testimonianza dei due pistard olandesi smontò questa ridicola ricostruzione. Alla fine la DVR diramò un comunicato ufficiale in cui si dichiarava che Albert era stato colto mentre cercava di espatriare con soldi rubati e che per la vergogna si era suicidato in carcere. “Il suo nome – concludeva il comunicato – è per sempre cancellato dalle nostre memorie”. Probabilmente nessuno saprà mai come sia morto veramente Albert. Certo è che morire nelle celle di un carcere nazista dopo essere stato arrestato dalla Gestapo per tradimento qualche “indizio” lo fornisce!

Eppure, nonostante nessuno ne avesse dato notizia, la voce si diffonde e centinaia di persone parteciparono ai suoi funerali, come ricorderà molti anni dopo la nipote del campione. Il suo corpo fu tumulato al cimitero Melaten di Colonia. Nel 1955 alla pietra tombale fu apposta, dal suo amico e rivale di un tempo Jef Scherens, la sua foto con la maglia di campione mondiale.

La tardiva riabilitazione

Solo grazie alla tenacia di Ernst Berliner, che dall’Olanda era poi fuggito negli Stati Uniti, la figura di Albert Richter non è finita nei sotto scala della storia. Dopo la fine della guerra Berliner ritorna a Colonia, raccoglie testimonianze, ritrova gli ambienti ciclistici degli anni ’30. Sua figlia testimonierà che il ritorno di Berliner in Germania destò “timori e collera fra gli ormai vecchi ex atleti”, tutti erano convinti che fosse morto, come molti dei suo familiari, in qualche campo di concentramento nazista. Nel 1966 Berliner riesce a far aprire un’inchiesta giudiziaria che la magistratura tedesca archivia però appena un anno dopo: le divise naziste erano state riposte nelle cantine ma i dirigenti della Repubblica federale di Germania (la nuova Germania democratica alleata degli occidentali, BDR) erano troppo spesso gli stessi che avevano acclamato il nazismo e taciuto sui suoi crimini.

Il nome di Albert Richter è rimasto escluso dagli albi degli atleti tedeschi fino alla metà degli anni ’90 quando è stato finalmente riabilitato e al suo nome è stato intitolato il nuovo velodromo di Colonia. Oggi un basso rilievo lo ricorda al velodromo. Solo nella Germania comunista (DDR) lo si ricordò come un eroe anti-nazista tanto da dedicargli anche un francobollo negli anni ’60.

Chi è stato dunque Albert Richter? Un ragazzo nato in un quartiere popolare di una grande città tedesca, senza una grande cultura, ma forte di muscoli e di cervello. Una persona come tante che però non volle mai piegarsi al nazismo. Alto, biondo, occhi azzurri, Richter sembrava il prototipo dell’uomo nuovo nazista, l’ariano perfetto. Eppure non volle trarre da questa sua situazione alcun vantaggio. Anzi. Certamente non era un militante anti-nazista ma un uomo che aveva avuto la fortuna di possedere doti non comuni che lo avevano aiutato a fare carriera in uno sport popolare e che a differenza di quasi tutti gli sportivi tedeschi del suo tempo non volle piegarsi al compromesso con idee che non condivideva. In una società tedesca che per motivi che non è questa la sede per approfondire, considerava il nazismo non tanto repressione e violenza quanto fascino e seduzione, la figura di Albert Richter rifulge assieme a quella di pochi altri che seppero resistere, anche con piccoli gesti quotidiani che oggi definiremmo di “disobbedienza civile”, come il rifiuto del saluto nazista, di vestire una maglia con la svastica o di abbandonare un allenatore ebreo, alla manipolazione e alla omologazione al regime.

Una persona che pagò con la vita la coerenza con le proprie idee e che merita di essere ricordato a 75 anni dalla sua tragica scomparsa.

Inviato a Senza Soste, M.Z.

Gennaio 2015


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