Si
apre un vuoto di potere pericoloso in Yemen, mentre la capitale Sana’a è
assediata dalle milizie del movimento sciita Houthi, entrate in città a
settembre, e la presenza nel Paese di Al Qaida nella Penisola arabica
(Aqpa) non sembra intaccata dai droni statunitensi.
Nelle ultime ore le più alte cariche dello Stato hanno gettato la spugna: per ultimo
il presidente Rabbo Mansur Hadi che ha lasciato la guida del Paese dopo
avere ricevuto nelle sue mani le dimissioni del primo ministro Khaled
Bahah. Le dimissioni del capo dello Stato dovranno essere accolte dal
Parlamento che si riunisce in sessione di emergenza domenica.
Ieri sembrava che si fosse aperto uno spiraglio per la soluzione della crisi yemenita, con l’accordo raggiunto tra Hadi e gli Houthi che circondano il palazzo presidenziale e, da stanotte, anche quello del Parlamento.
L’accordo raggiunto prevede di modificare la Costituzione, in fase di
redazione, per includere i ribelli sciiti nelle istituzioni statali. Ma Hadi, alleato degli Stati Uniti nel contrasto ai qaedisti, ha poi deciso di mollare.
Nella sua lettera di dimissioni, ha spiegato di non poter mantenere la
sua carica nella situazione di “totale stallo” in cui versa lo Yemen.
“Credo di non essere stato in grado di raggiungere gli obiettivi che
prevede la mia carica”, ha detto, aggiungendo che i politici yemeniti
non sono riusciti “a traghettare il Paese verso acque più calme”.
Secondo la Costituzione, l’incarico presidenziale ad interim spetta al presidente del Parlamento Yahia al-Rai,
un uomo vicino all’ex presidente Abi Abdullah Saleh, deposto da una
sommossa popolare tre anni fa. Una rivolta innescata dalle primavere
arabe e conclusasi con un accordo di élite avvallato dagli Usa e dal
Consiglio di cooperazione del Golfo, sorta di Nato dominato dall’Arabia
Saudita.
Gli Houthi si sono affrettati a precisare che le dimissioni del presidente devono essere accettate dal Parlamento con una
maggioranza assoluta. “Se così non fosse”, si legge in un comunicato,
“le dimissioni restano in sospeso”. Hanno poi esortato la popolazione a
scendere in strada oggi pomeriggio per manifestare.
Per quanto riguarda Bahah, insediatosi poco meno di tre mesi fa in
base a un’intesa con gli Houthi mediata dall’Onu, ha usato Facebook per
spiegare che non vuole prendere parte al collasso del Paese.
L’uscita di scena di Hadi rischia di far precipitare il Paese, il più povero del Medio Oriente, nel baratro.
Gli analisti agitano scenari somali per descrivere il caos che potrebbe
scatenarsi in Yemen, spesso soprannominato il “paradiso dei qaedisti”.
Le regioni meridionali sono la roccaforte della potente Al Qaeda nella
Penisola Arabica, il braccio yemenita e saudita della rete terroristica
internazionale, considerato l’affiliato più pericoloso che starebbe
dietro gli attentati di Parigi. Il governo di Sana’a ha
consentito che gli Usa impiegassero i droni sul suo territorio per
annientare Aqpa, ma sinora le operazioni militari statunitensi non
sembrano aver fiaccato le milizie qaediste.
Ma sulla scena yemenita da mesi hanno fatto irruzione gli sciiti
Houthi che dalle loro roccaforti nel Nord del Paese sono arrivati a
occupare la capitale. Un’ascesa che per molti è foraggiata
dall’Iran, intenzionato a potenziare la propria influenza nella Penisola
Arabica per fronteggiare in casa propria i rivali sauditi, con cui si
contende la supremazia regionale. Così lo Yemen rischia di diventare
terreno di battaglia tra Teheran e Riad, e sarebbe anche nel mirino
dell’Isis. È in questo Paese, infatti, che si addestrano e sono
reclutati i combattenti della jihad in Afghanistan, Siria e Iraq.
Interessi regionali e internazionali che si giocano sulla pelle degli yemeniti, fa notare Oxfam. Secondo la Ong l’emergenza umanitaria è grave:
oltre la metà della popolazione ha bisogno di aiuti. Circa dieci
milioni di yemeniti patiscono la carenza di cibo e sono 850mila i
bambini che soffrono di malnutrizione. Acqua e servizi sanitari scarseggiano. Un’emergenza che rischia di aggravarsi.
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