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26/01/2015

Analisi - Il campo di battaglia yemenita

di Francesca La Bella

Lo Yemen è tornato ad occupare le cronache con quello che è stato internazionalmente e frettolosamente giudicato un “colpo di Stato” della minoranza Houthi (sciita, zaidi) contro il governo di Abd Rabbo Mansur Hadi. La realtà è, però, ben più complessa di quello che sembra leggendo le notizie di questi giorni. La presa del palazzo presidenziale, lo stato di “arresto domiciliare” del presidente e il controllo militare della capitale da parte delle milizie sciite è, infatti, frutto di un processo che dura ormai da quasi quattro anni e che ha visto alternarsi fasi di tensione a fasi di mediazione politica. Più che di “colpo di Stato” si potrebbe, quindi, parlare di pressione manu militari sulle decisioni del governo in modo da dar corso a mutamenti di segno inclusivo concordati democraticamente tra i diversi attori nazionali.

Nonostante questo, secondo le ultime notizie, si sarebbe chiusa anche la fase di dialogo che sembrava essersi aperta e il presidente avrebbe scelto di dimettersi insieme agli altri membri del governo. Se anche così non fosse stato, la legittimità del governo sarebbe risultata comunque incrinata sia a causa di fattori e dissidi interni sia a causa di ingerenze e interessi internazionali. Per quanto riguarda il piano interno, le divisioni hanno un carattere sia geografico sia etnico-religioso. Se il nord è quasi esclusivamente occupato dalle milizie Houthi andando a conformarsi come una striscia a maggioranza sciita lungo il confine con l’Arabia Saudita, il sud risulta sempre più sotto controllo di gruppi sunniti radicali legati principalmente ad AQAP (Al Quaeda nella Penisola Araba), ma anche, in maniera crescente, all’IS (Stato Islamico). Solo la capitale ed alcune province centrali sarebbero, almeno parzialmente, controllate dal Governo.

E’ in questo contesto che possiamo leggere il forte interesse dei vicini d’area nelle questioni interne yemenite. Per quanto mai ufficialmente provato, la minoranza Houthi sarebbe sostenuta e finanziata dall’Iran in funzione contenitiva rispetto alla capacità di influenza sul Paese dell’Arabia Saudita. Dal punto di vista della monarchia saudita, invece, il rapporto di sostegno-dipendenza con il governo ufficiale garantirebbe loro di avere un alleato tanto solido da non creare tensioni ai confini, ma abbastanza debole da essere incapace di emanciparsi dall’aiuto dell’ingombrante vicino. Quella che da molti è stata definita la “guerra fredda” tra Iran e Arabia Saudita trova, così, un ulteriore campo di battaglia in Yemen, un Paese tanto povero quanto strategico dal punto di vista geografico.

Il lungo confine in comune con l’Arabia Saudita, il controllo del Golfo di Aden e l’affaccio sul Mar Rosso, oltre alle ingenti riserve petrolifere, sono aspetti da tenere ben presenti nel valutare le scelte strategiche degli attori regionali. Se lo Yemen, fino agli anni Novanta diviso in due distinte entità nazionali, dovesse nuovamente frantumarsi, le due parti potrebbero prendere direzioni politiche differenti e questo potrebbe risultare un fattore di tensione significativo, soprattutto per Riyad che condividerebbe il confine con l’entità a lei più ostile. La debolezza istituzionale del governo ufficiale, negli ultimi mesi, è risultata, però, preoccupante anche per l’Iran. Per quanto un governo debole potesse significare minore influenza saudita sul Paese e maggiore spazio per l’iniziativa Houthi, significava altresì l’avanzata di milizie sunnite legate ad Al Quaeda e all’IS, entrambe entità invise al governo persiano e alle quali Teheran è opposta su molti fronti (Siria, Iraq e Libano in particolare).

A tutto questo si aggiunga il fattore Stati Uniti. Grande è l’interesse statunitense per il territorio yemenita e, soprattutto, per la parte che, sostanzialmente controllata da AQAP, costituisce un territorio di “confine” con il problematico Corno d’Africa. Venendo considerato strategico per la sicurezza mondiale, il destino politico dello Yemen è, così, costantemente monitorato da Washington e le fluttuazioni nei rapporti con i due contendenti d’area, induce un diverso livello di intervento dell’amministrazione Usa. A lungo la dinastia Saud è stata considerata l’alleato arabo principale degli Stati Uniti in Medio Oriente, mentre l’Iran poteva essere identificato, semplificando, come il primo nemico. Ad oggi la situazione è, però, in mutamento. L’elezione di Hassan Rohani, l’impegno iraniano in Iraq in funzione anti-IS e i colloqui tra Teheran e il gruppo dei 5+1 per quanto riguarda il nucleare (il nucleare iraniano sarà oggi e domani - 23 e 24 gennaio - al centro di colloqui che si svolgeranno a Zurigo tra la negoziatrice statunitense, Wendy Sherman, e il viceministro degli esteri dell’Iran, Abbas Araqchi) hanno portato a una maggiore capacità di relazione tra l’amministrazione Obama e il governo persiano. Il rapporto Usa-Arabia Saudita sembra avere avuto, invece, alcune oscillazioni negli ultimi anni e la morte di re Abdallah potrebbe essere, nonostante il fratello abbia dichiarato che ne porterà avanti le politiche, un nuovo fattore di instabilità.

A fronte di questo panorama, possiamo affermare che molta attenzione dovrebbe essere rivolta ai mutamenti interni yemeniti. Se il governo dovesse passare dal controllo sunnita al controllo sciita, questo avrebbe effetti che travalicano i confini del Paese. Sembra doveroso, a tal proposito, sottolineare come la crescita dello Stato Islamico nel Paese, favorita da un eventuale vittoria Houthi che escluderebbe dal governo la maggioranza sunnita (la popolazione yemenita è al 60% sunnita e al 40% sciita), potrebbe sia costituire un ulteriore fattore di scontro, in quanto l’IS andrebbe a contendere la leadership di AQAP nel sud, sia rafforzare il movimento nel suo progetto di espansione. Sul campo yemenita, la geometria delle future alleanze potrebbe, dunque, cambiare molto e questo potrebbe, in una certa misura, indurre un riallineamento delle alleanze a livello d’area con conseguenze di grande portata.

Aggiornamento – Proteste anti-Houthi a Sana’a

In migliaia sono scesi in strada oggi nella capitale yemenita per contestare il movimento sciita Houthi. Si tratta della più grande manifestazione anti-Houthi da quando il gruppo occupa Sana’a, organizzata dal Rejection Movement, nato di recente nelle zone provinciali del Paese.

Secondo l’agenzia AFP, i sostenitori del movimento sciita hanno provato a fermare i dimostranti, provocando tafferugli, prima di ritirarsi. Il corteo si è radunato nella piazza del Cambiamento, nei pressi dell’Università, e poi ha proseguito verso il palazzo della Repubblica, residenza del primo ministro dimissionario Khalid Bahah, che è partito per una destinazione sconosciuta dopo che l’edificio era stato occupato per due giorni dai miliziani Houthi.

I manifestanti sono sfilati dietro lo slogan “Basta con il potere degli Houthi”, rigettando le dimissioni del presidente Abdrabuh Mansur Hadi, rassegnate a causa del “totale stallo” politico in cui si trova lo Yemen, dopo aver ricevuto nelle sue mani quelle del premier. Secondo quanto riferito dagli organizzatori della manifestazione all’AFP, i dimostranti chiedono al presidente di “imporre l’autorità dello Stato”.

Sempre secondo gli organizzatori, altre manifestazioni si sono tenute a Taez, Ibb e Hudaida.

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