di Francesca La Bella
Lo Yemen è tornato ad
occupare le cronache con quello che è stato internazionalmente e
frettolosamente giudicato un “colpo di Stato” della minoranza Houthi
(sciita, zaidi) contro il governo di Abd Rabbo Mansur Hadi.
La realtà è, però, ben più complessa di quello che sembra leggendo le
notizie di questi giorni. La presa del palazzo presidenziale, lo stato
di “arresto domiciliare” del presidente e il controllo militare della
capitale da parte delle milizie sciite è, infatti, frutto di un processo
che dura ormai da quasi quattro anni e che ha visto alternarsi fasi di
tensione a fasi di mediazione politica. Più che di “colpo di Stato” si potrebbe, quindi, parlare di pressione manu militari
sulle decisioni del governo in modo da dar corso a mutamenti di segno
inclusivo concordati democraticamente tra i diversi attori nazionali.
Nonostante questo, secondo le ultime notizie, si sarebbe chiusa anche
la fase di dialogo che sembrava essersi aperta e il presidente avrebbe
scelto di dimettersi insieme agli altri membri del governo. Se anche
così non fosse stato, la legittimità del governo sarebbe risultata
comunque incrinata sia a causa di fattori e dissidi interni sia a causa
di ingerenze e interessi internazionali. Per quanto riguarda il piano
interno, le divisioni hanno un carattere sia geografico sia
etnico-religioso. Se il nord è quasi esclusivamente occupato
dalle milizie Houthi andando a conformarsi come una striscia a
maggioranza sciita lungo il confine con l’Arabia Saudita, il sud risulta
sempre più sotto controllo di gruppi sunniti radicali legati
principalmente ad AQAP (Al Quaeda nella Penisola Araba), ma anche, in
maniera crescente, all’IS (Stato Islamico). Solo la capitale ed alcune
province centrali sarebbero, almeno parzialmente, controllate dal
Governo.
E’ in questo contesto che possiamo leggere il forte interesse dei vicini d’area nelle questioni interne yemenite. Per
quanto mai ufficialmente provato, la minoranza Houthi sarebbe sostenuta e
finanziata dall’Iran in funzione contenitiva rispetto alla capacità di
influenza sul Paese dell’Arabia Saudita. Dal punto di vista
della monarchia saudita, invece, il rapporto di sostegno-dipendenza con
il governo ufficiale garantirebbe loro di avere un alleato tanto solido
da non creare tensioni ai confini, ma abbastanza debole da essere
incapace di emanciparsi dall’aiuto dell’ingombrante vicino. Quella
che da molti è stata definita la “guerra fredda” tra Iran e Arabia
Saudita trova, così, un ulteriore campo di battaglia in Yemen, un Paese
tanto povero quanto strategico dal punto di vista geografico.
Il lungo confine in comune con l’Arabia Saudita, il controllo del
Golfo di Aden e l’affaccio sul Mar Rosso, oltre alle ingenti riserve
petrolifere, sono aspetti da tenere ben presenti nel valutare le scelte
strategiche degli attori regionali. Se lo Yemen, fino agli anni Novanta
diviso in due distinte entità nazionali, dovesse nuovamente frantumarsi,
le due parti potrebbero prendere direzioni politiche differenti e
questo potrebbe risultare un fattore di tensione significativo,
soprattutto per Riyad che condividerebbe il confine con l’entità a lei
più ostile. La debolezza istituzionale del governo ufficiale, negli
ultimi mesi, è risultata, però, preoccupante anche per l’Iran. Per
quanto un governo debole potesse significare minore influenza saudita
sul Paese e maggiore spazio per l’iniziativa Houthi, significava altresì
l’avanzata di milizie sunnite legate ad Al Quaeda e all’IS, entrambe
entità invise al governo persiano e alle quali Teheran è opposta su
molti fronti (Siria, Iraq e Libano in particolare).
A tutto questo si aggiunga il fattore Stati Uniti. Grande è
l’interesse statunitense per il territorio yemenita e, soprattutto, per
la parte che, sostanzialmente controllata da AQAP, costituisce un
territorio di “confine” con il problematico Corno d’Africa.
Venendo considerato strategico per la sicurezza mondiale, il destino
politico dello Yemen è, così, costantemente monitorato da Washington e
le fluttuazioni nei rapporti con i due contendenti d’area, induce un
diverso livello di intervento dell’amministrazione Usa. A lungo
la dinastia Saud è stata considerata l’alleato arabo principale degli
Stati Uniti in Medio Oriente, mentre l’Iran poteva essere identificato,
semplificando, come il primo nemico. Ad oggi la situazione è, però, in
mutamento. L’elezione di Hassan Rohani, l’impegno iraniano in
Iraq in funzione anti-IS e i colloqui tra Teheran e il gruppo dei 5+1
per quanto riguarda il nucleare (il nucleare iraniano sarà oggi e domani
- 23 e 24 gennaio - al centro di colloqui che si svolgeranno a Zurigo tra
la negoziatrice statunitense, Wendy Sherman, e il viceministro degli
esteri dell’Iran, Abbas Araqchi) hanno portato a una maggiore capacità
di relazione tra l’amministrazione Obama e il governo persiano.
Il rapporto Usa-Arabia Saudita sembra avere avuto, invece, alcune
oscillazioni negli ultimi anni e la morte di re Abdallah potrebbe
essere, nonostante il fratello abbia dichiarato che ne porterà avanti le
politiche, un nuovo fattore di instabilità.
A fronte di questo panorama, possiamo affermare che molta attenzione
dovrebbe essere rivolta ai mutamenti interni yemeniti. Se il governo
dovesse passare dal controllo sunnita al controllo sciita, questo
avrebbe effetti che travalicano i confini del Paese. Sembra doveroso, a
tal proposito, sottolineare come la crescita dello Stato Islamico nel
Paese, favorita da un eventuale vittoria Houthi che escluderebbe dal
governo la maggioranza sunnita (la popolazione yemenita è al 60% sunnita
e al 40% sciita), potrebbe sia costituire un ulteriore fattore di
scontro, in quanto l’IS andrebbe a contendere la leadership di AQAP nel
sud, sia rafforzare il movimento nel suo progetto di espansione. Sul
campo yemenita, la geometria delle future alleanze potrebbe, dunque,
cambiare molto e questo potrebbe, in una certa misura, indurre un
riallineamento delle alleanze a livello d’area con conseguenze di grande
portata.
Aggiornamento – Proteste anti-Houthi a Sana’a
In migliaia sono scesi
in strada oggi nella capitale yemenita per contestare il movimento
sciita Houthi. Si tratta della più grande manifestazione anti-Houthi da
quando il gruppo occupa Sana’a, organizzata dal Rejection Movement, nato di recente nelle zone provinciali del Paese.
Secondo l’agenzia AFP, i sostenitori del movimento sciita
hanno provato a fermare i dimostranti, provocando tafferugli, prima di
ritirarsi. Il corteo si è radunato nella piazza del Cambiamento, nei
pressi dell’Università, e poi ha proseguito verso il palazzo della
Repubblica, residenza del primo ministro dimissionario Khalid Bahah, che è partito per una destinazione sconosciuta dopo che l’edificio era stato occupato per due giorni dai miliziani Houthi.
I manifestanti sono sfilati dietro lo slogan “Basta con il potere degli Houthi”, rigettando le dimissioni del presidente Abdrabuh Mansur Hadi,
rassegnate a causa del “totale stallo” politico in cui si trova lo
Yemen, dopo aver ricevuto nelle sue mani quelle del premier. Secondo
quanto riferito dagli organizzatori della manifestazione all’AFP, i dimostranti chiedono al presidente di “imporre l’autorità dello Stato”.
Sempre secondo gli organizzatori, altre manifestazioni si sono tenute a Taez, Ibb e Hudaida.
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