Molto è stato scritto sulle
ragioni che hanno determinato una simile caduta del prezzo del greggio.
L’elemento più importante da evidenziare è certamente una forte
alterazione del rapporto tra domanda ed offerta. L’entrata in
pieno servizio dei numerosi pozzi aperti all’inizio degli anni duemila,
sommandosi all’imprevedibile autonomia energetica (solamente temporanea,
secondo qualcuno) che gli Stati Uniti hanno raggiunto grazie ai nuovi e
pericolosissimi metodi di estrazione (nostro articolo, qui)
ha determinato, al tempo stesso, uno straordinario aumento sul lato
dell’offerta ed un indebolimento della domanda. Quest’ultima risente
infatti non solamente del venir meno dello storico acquirente a stelle e
strisce, ma anche della prolungata fase di debolezza causata dalla
perdurante crisi economica che flagella le cosiddette economie mature, e
non solo loro, dall’ormai lontano 2008.
Nelle settimane che hanno preceduto
l’incontro dei principali paesi esportatori di petrolio molti analisti
attendevano un cospicuo taglio nell’estrazione giornaliera di greggio,
con la precisa finalità di aiutare la risalita di un prezzo (eravamo
attorno agli 80 dollari in quella fase) considerato eccessivamente basso
sia per i profitti da realizzare sia per la tenuta sociale e politica
di numerosi paesi. In realtà, il 27 novembre scorso l’OPEC ha deciso, nel segreto delle sue stanze, di lasciare invariata la quantità di petrolio estratto.
L’assenza di unanimità, come recita il regolamento dell’organizzazione,
determina infatti il perpetrarsi della disposizioni assunte in
precedenza. Al riguardo, la posizione di intransigenza assunta dai
sauditi, ha certamente avuto un peso determinante, a fronte di altri
paesi probabilmente desiderosi di favorire la risalita del prezzo
del petrolio sui mercati internazionali. Cosa abbia spinto Riad su questa strada rimane materia dibattuta.
Secondo molti, i sauditi starebbero aiutando gli storici alleati
americani, desiderosi di mettere alle corde numerosi nemici di lunga
data. Tra questi figurano certamente tre paesi che fanno ampio
affidamento per la loro tenuta interna sull’esportazione di petrolio e
gas: la Russia di Vladimir Putin, l’Iran post-Khomeinista, ed il
traballante Venezuela del presidente Maduro.
A nostro giudizio però questa
spiegazione è incorretta perché sopravvaluta la forza delle relazioni
tra Washington e Riad, non prendendo in considerazione molti
elementi di rilievo. Per prima cosa, i sauditi godono di uno
straordinario vantaggio competitivo. L’estrazione del greggio nel
deserto è infatti estremamente conveniente (5-6 dollari al barile),
soprattutto quando confrontata con quella nel Mare del Nord (oltre 25
dollari), oppure quella ottenuta da scisti (attorno all’esorbitante
cifra di 70 dollari al barile). Secondariamente, i sauditi
sembrano interessati non solamente al prezzo di vendita, ma anche e
soprattutto alla difesa delle quote di mercato. La decisione di
non tagliare la produzione si basa sulla presunzione che in un mercato
sempre più affollato di produttori e nel quale l’OPEC gioca un ruolo
meno decisivo rispetto al recente passato, il taglio della produzione
poteva rivelarsi in un vero e proprio boomerang per i paesi facenti
parte dell’organizzazione: ovvero, perdita di quote di mercato a fronte
di una non inversione nel caduta verticale del prezzo del petrolio.
Il terzo ed ultimo tassello del mosaico è il più complicato, ma anche
il più interessante. Come giustamente faceva notare alcune settime fa
Manlio Dinucci in un interessante articolo uscito sul quotidiano il Manifesto è
lecito domandarsi come mai il boom dell’estrazione con metodi non
convenzionali prosegua negli Stati Uniti ed in Canada. La ragione è che
l’amministrazione Obama ha destinato miliardi di dollari a questo
settore, rendendo così remunerativo per le imprese operanti estrare
anche con margini di profitto minimi, oppure in evidente perdita. La
ragione di questa attenzione è da attribuire a quel vasto tentativo di
re-industrializzazione che gli Stati Uniti perseguono con la finalità di
combattere lo strapotere cinese nel comparto manifatturiero. La
strategia di Washington si basa su tre presupposti: a) basso costo del
lavoro; b) risibile tassazione delle imprese; e c) minimo costo
dell’energia (per approfondire, qui).
Questo ultimo aspetto è strettamente legato all’estrazione non
convenzionale di petrolio. La logica domanda che sorge è ovviamente
capire fino a dove Washington sarà disposto a spingersi. Il persistere di un prezzo del barile sotto la soglia dei 50 dollari avvicina ovviamente il punto di rottura. Cosa che a Riad non sfugge certamente. Come
ci ha ricordato il ministro saudita del petrolio riferendosi agli
americani: “si feriranno prima che noi possiamo sentire alcun dolore” (per ulteriori stralci dell’intervista, qui). La verità è che non esiste alcun asse Washington-Riad che si contrappone a Mosca-Teheran-Caracas. Oggi
vi è semplicemente un’eccedenza di produzione calcolata in 1,5-2
milioni di barili. I sauditi pensano che il ribilanciamento tra offerta e
domanda si possa raggiungere mettendo fuorigioco chi estrae a prezzi
più alti, accettando meno profitti oggi e scommettendo su un rimbalzo
domani. E visto che loro estraggono ad uno dei prezzi più
convenienti al mondo e dispongono di risorse stimate nel valore di circa
400 miliardi di dollari, hanno grandi possibilità di riuscire nel loro
tentativo.
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