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25/01/2015

Spesa militare, furto colossale

Siamo costantemente polemici verso i giornali mainstream. Non per partito preso, ma per l'evidente, insopportabile, continuativa, entusiasta funzione di “costruttori del falso”. Ovvero di quel blob chiamato informazione utile soltanto a impedire all'”opinione pubblica” di formarsi un'opinione seria su quel che accade. E magari muoversi per cambiare le cose.

Così, speriamo di non sorprendere eccessivamente i nostri lettori se per una volta diciamo grazie a un giornalista di successo, proiettato nell'empireo dei fabbricanti della neolingua per aver scritto il bestseller La casta.

Per una volta infatti Sergio Rizzo, firma di prestigio del Corriere della Sera, ha smesso di occuparsi di falsi ciechi, falsi invalidi, lavoratori pubblici nella pausa bar, piccoli parassiti della spesa pubblica... insomma la piccola umanità di chi vive senza fatica alle spalle del prossimo, raccattando briciole di benessere prodotto da altri.

Questa volta è andato a ficcare il suo raffinatissimo naso da segugio nei bilanci militari. E ha scoperto cose che non riuscivamo ad immaginare neanche spingendo ai limiti della fantascienza la nostra più fervida fantasia.

Pensavamo infatti che i vertici militari, proprio in virtù del loro essere fidelizzati al comando e alle direttive della Nato anziché a quelle del Parlamento italiano, fossero un tantino meno affette dalle tare peggiori della classe dirigente di questo paese. Non che li pensassimo davvero “poveri ma onesti”, cioè gente che vive soltanto del proprio (non indifferente) stipendio. Ma, insomma, che esistessero dei limiti alle ruberie, allo spreco. Ripetiamo: più per controllo dall'alto (la Nato, i servizi statunitensi, ecc.) che per virtù propria. Del resto molte storie avevano incrinato parecchio quell'immagine mitologica. Per esempio, il caso delle mazzette pagate da sottufficiali (nell'esercito professionale il “soldato semplice” non esiste più) ad alti ufficiali pur di essere inseriti nelle liste dei partecipanti alle “missioni di pace” all'estero, dove lo stipendio base poteva essere moltiplicato per tre o quattro volte.

Sbagliavamo alla grande. E ci viene da pensare con autentica compassione a quei disgraziati reazionari che, ogni volta che c'è uno scandalo, vorrebbero le Forze Armate pronte a sostituire quei ladri di politici (sembra l'Alemanno imitato da Guzzanti, "chiamo esercito?"). Per loro, articoli come questo, dovrebbero valere come una dimostrazione scientifica dell'inesistenza di qualsiasi dio. Per questo, probabilmente, si rifiuteranno di leggerlo.

Cosa c'è di notevole? Andiamo in ordine inverso rispetto all'esposizione di Rizzo, sempre ingolosito dai dettagli (non è una critica: il “bravo giornalista” deve essere così, perché conosce il suo pubblico), perché a noi preme di più il dato strutturale, l'architettura dei poteri, la logica del comando sulle classi subordinate.

a) Il Parlamento italiano non ha mai avuto alcun potere di controllo sulle forze armate di questo paese; neanche dal punto di vista delle decisioni di spesa. La sorpresa, su questo punto, è davvero minima. L'avevamo sempre pensato, ma – appunto – attribuendo questa situazione al perfido imperialismo Usa (che è certamente perfido, anche dal punto di vista della spesa, ma non è l'unico colpevole di questa storia). Invece no: non c'è controllo e basta. Gli stati maggiori compilano l'elenco delle spese da effettuare e il parlamento approva. Il governo, quando va bene, media.

b) La logica degli acquisti di armamenti non ha nulla a che fare con la “difesa della patria”, e men che meno con l'efficienza della stessa. I vari corpi (esercito, marina, aeronautica, carabinieri) concorrono tra loro per avere l'ultimo modello di certi sistemi d'arma, un po' come i figli degli industriali di una certa città che devono far vedere di avere l'auto (o la moto, o la droga, ecc.) più fica del momento. Non lo diciamo noi, ma un'indagine della Commissione Difesa: «L’assenza di un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti ne circoscrive le valutazioni all’interno di un circuito chiuso rappresentato dai vertici industriali e dai vertici militari. L’autoreferenzialità è accentuata dal fenomeno ricorrente costituito dalla presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della difesa». Traduzione minima: i generali e gli ammiragli che più hanno deciso di spendere finiscono la loro gloriosa carriera nei consigli d'amministrazione delle aziende da cui hanno costretto lo Stato a comprare sistemi d'arma. Non sappiamo perché, ma questo “sistema circolatorio” – dal ruolo pubblico a quello privato e viceversa – ci suona per alcuni versi molto statunitense (do you remember Dick Cheney, John Paulson, Condoleeza Rice, e altri mille come loro?), per un altro molto “italiano”. Anzi: “capitale”

c) Fulminante l'esempio dei cacciabombardieri (il sistema d'arma più costoso, per un paese come il nostro). L'Italia “deve” comprare gli F35 americani (Napolitano aveva presieduto da par suo un apposito “consiglio superiore della difesa” in cui aveva sentenziato che il Parlamento non ci doveva mettere bocca) e contemporaneamente partecipare al “progetto europeo” degli Eurofighter. Un doppione? Per la logica sì, per il bilancio no. I primi vengono pagati con il budget del ministero della Difesa, i secondi con quelli del ministero dello Sviluppo.

d) Per ultimo ci sono naturalmente anche le banche, che in queste vicende non possono mai mancare. Nemmeno Sergio Rizzo è riuscito a sapere chi fosse il genio contabile che aveva previsto di spendere 1,6 miliardi per “interessi sul mutuo” acceso per il rinnovo della flotta della Marina Militare. Va da sé che lo Stato, quando decide di spendere in armamenti, non fa mutui con banche private. Vi immaginate che possa essere accesa un'ipoteca su una squadra di cacciatorpediniere? Poi la banca, eventualmente, cosa ci fa? Le mette all'asta? Però è interessante come dimostrazione del genio italico.

Chiudiamo invitandovi a riflettere bene sulle cifre di questo giro. Miliardi, percentuali non indifferenti di Pil, buttati letteralmente nelle tasche di banchieri, costruttori d'armamenti, generali e ammiragli, più qualche politico che deve mettere le firme necessarie senza far domande (sennò ti sparano, visto che sono armati?). Il ministro Pinotti, diciamo così, non ci fa una gran figura. Del resto, non basta essere donne per avere un'altra visione della politica.

“Sprechi” di dimensioni tali da cancellare in un solo colpo – una sola firma – venti anni di pause caffè indebitamente prolungate da tutti i dipendenti pubblici di mezza Europa...

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Il mutuo per navi da guerra con gli interessi al 30 per cento

Per la flotta soldi in bilancio ci sono, ma per l’acquisto si era immaginato un finanziamento. L’impegno per i caccia F-35 e quello per gli Eurofighter

di Sergio Rizzo

A chi strepita quando si paventano tagli agli armamenti suggeriamo di andare a vedere che cosa è successo alle 8,30 di martedì 20 gennaio alla commissione Difesa della Camera. Dove si è accertato che quasi un terzo del costo previsto per il rinnovo della flotta della Marina militare sarebbe servito a coprire gli interessi sui mutui per finanziare il tutto: 1,6 miliardi su 5,4. Ossia il 29,7 per cento. Lo 0,1 per cento del pil, e solo per ripagare il costo del denaro necessario a comprare sei pattugliatori e una nave d’altura dalla Fincantieri. Spesa inutile, dato che i soldi in bilancio ci sono. E ancora più inutile se è vero che l’ipotesi del finanziamento bancario era già improvvisamente svanita in commissione Bilancio quando qualcuno aveva avanzato la fatidica domanda: «Quale banca?». Ragion per cui si stabilisce in Parlamento che tutti quei soldi non si spenderanno per gli interessi ma semmai per altri investimenti. E pazienza se qualcuno mastica amaro.

Dice tutto, questa vicenda, su quanto grasso ci sia in certe commesse militari. Ne sa qualcosa pure l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, secondo cui le nostre spese per la Difesa sono di 3,2 miliardi superiori al «benchmark», ovvero il punto di riferimento ideale europeo. Il che consentirebbe, diceva la sua proposta, di risparmiare almeno due miliardi e mezzo entro il 2016. Ipotesi che non aveva certo aumentato la popolarità di Cottarelli presso generali e ammiragli. E forse non solo.
Ma la storia del programma navale che abbiamo appena raccontato spiega pure l’origine dei contrasti crescenti fra le alte sfere militari, la burocrazia del ministero e un pezzo del Parlamento. Con riflessi non trascurabili dentro lo stesso Pd, che esprime il ministro della Difesa. Due anni fa, durante il governo Monti, passa una legge che prescrive per la prima volta il parere vincolante del Parlamento sui programmi militari. Relatore è l’attuale capogruppo del Pd in commissione Difesa, Gian Piero Scanu, che non si dev’essere fatto molti amici negli Stati maggiori. Ed è qui che si rompe il giocattolo. Come dimostra il caso del programma navale.

Non per questo le lobby militari si danno per vinte. Ma almeno adesso c’è l’obbligo di far vedere tutte le carte. Prima di quella norma deputati e senatori si dovevano accontentare di dare una sbirciatina al dépliant di un carro armato senza conoscerne la reale utilità, né il reale valore rispetto ai costi. E dicevano sempre sì. Il loro parere era semplicemente consultivo e il ministero, cioè i vertici militari, potevano benissimo non tenerne conto. Nel corso degli anni si sono così accumulati ben 86 programmi di armamenti: talvolta dettati soltanto da una sconsiderata logica di concorrenza fra le varie Forze armate, senza serie valutazioni economiche.

L’indagine conoscitiva di 1.024 pagine sfornata a maggio scorso della commissione Difesa della Camera dice che si tratta di una partita giocata tutta dentro gli apparati, in perfetta sintonia con gli interessi delle industrie. Con il ruolo della politica ridotto a quello di semplice spettatore. Per dirne una, mentre manteniamo l’impegno a comprare 90 caccia F35 dall’americana Lockheed Martin continuiamo a partecipare al programma del caccia europeo Eurofighter, anche se con fondi non della Difesa, ma del ministero dello Sviluppo. Ecco che cosa c’è scritto nell’indagine: «L’assenza di un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti ne circoscrive le valutazioni all’interno di un circuito chiuso rappresentato dai vertici industriali e dai vertici militari. L’autoreferenzialità è accentuata dal fenomeno ricorrente costituito dalla presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della difesa». Più chiaro di così?

Da questo si capisce perché quella legge che impone il parere vincolante del Parlamento sia tanto indigesta. E lo è ancora di più per un altro principio che viene affermato lì dentro: quello secondo cui le spese militari dovranno essere ripartite al 50% per il personale e al 25% rispettivamente per l’esercizio e gli armamenti. Quote che oggi sono ancora ben lontane dall’essere rispettate. Se si considera l’ammontare totale degli stanziamenti, nel 2014 sono stati destinati ai sistemi d’arma 5 miliardi e 650 milioni, cioè 2,1 miliardi più dei 3,5 che rappresenterebbero il 25% del bilancio della Difesa. E senza garanzie, stando all’indagine parlamentare, su qualità, costo e soprattutto logica degli investimenti. Le sovrapposizioni fra le varie Forze armate, per esempio. Che a dispetto dei propositi non ci sia nessuna voglia di razionalizzazione, si capisce da piccoli ma significativi dettagli.

Basta dare un’occhiata al sito internet del ministero della Difesa, che espone un monumentale organigramma degli uffici di diretta collaborazione del ministro Roberta Pinotti, la quale nel precedente governo di Enrico Letta aveva l’incarico di sottosegretario. Una struttura che allude alla presenza forse di centinaia di collaboratori, dove il capo di gabinetto ha ben quattro vice: uno per la Marina, uno per l’Esercito, uno per l’Aeronautica e uno per i Carabinieri. C’è poi un aiutante di campo per l’Esercito, uno per i Carabinieri, un aiutante di volo e un aiutante «di bandiera». Tutti generali, ammiragli e alti ufficiali a presidiare con il bilancino il campo di gioco.

La legge di stabilità ha ora previsto una riduzione del 20% degli sterminati organici del gabinetto della Difesa. Anche se, forse per bilanciare quel modesto sacrificio, la medesima legge ha stabilito l’ampliamento dei margini di manovra di una società per azioni controllata dal ministero proprio nel momento in cui dovrebbe partire la grande operazione di cessione di immobili e alloggi militari. Si chiama «Difesa servizi» e gestisce alcune attività collaterali, dai panelli fotovoltaici sui tetti delle caserme alla valorizzazione dei marchi delle Forze armate. La sua nascita, fortemente voluta dall’ex ministro del centrodestra Ignazio La Russa, era stata impallinata dal Pd.

Roberta Pinotti, all’epoca ministro ombra del partito, c’era andata giù pesantissima, definendola una iniziativa «grave e inaccettabile», tesa a «stravolgere completamente il funzionamento del ministero» con un «blitz per costituire una società privata per la gestione dei beni del demanio militare e per controllare gli appalti del settore». Ma una volta ministro deve aver cambiato radicalmente opinione. Al punto da nominare amministratore delegato della società un ex deputato del Pd rimasto senza seggio, già capo della sua segreteria: Pier Fausto Recchia.

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