L’attesissima decisione della Bce – un quantitative easing da oltre 1.000 miliardi – ha lasciato un retrogusto amaro nelle fauci affamate degli squali della finanza internazionale.
La prima parte del discorso con cui Mario Draghi ha presentato, in conferenza stampa, il meccanismo operativo di questa grande iniezione di liquidità li aveva addirittura estasiati: 60 miliardi al mese, per 18 mesi consecutivi, saranno destinati all’acquisto di titoli di stato in euro emessi da paesi membri dell’eurozona. Milleottanta miliardi in un anno e mezzo, quasi il doppio di quanto atteso (almeno 500 miliardi). Un regalo mostruoso per quegli investitori istituzionali (banche, fondi di investimento, assicurazioni, ecc.) che da anni sono costretti a tenere in cassaforte titoli che ben difficilmente avrebbero trovato – al prezzo nominale attuale – un acquirente sul mercato. Detta brutalmente: una gigantesca operazione di derattizzazione nei bilanci della finanza globale, soprattutto europea. Dalla quale, questa la speranza esplicita, potrebbe discendere una maggiore propensione di quegli stessi istituti a concedere prestiti a imprese e famiglie, rilanciando così investimenti e consumi nell’economia reale.
Al tempo stesso, una misura “espansiva” mirata a risollevare l’inflazione attesa – quella “fisiologica” – ai suoi livelli naturali (il 2% annuo), bloccando la spirale deflazionistica ormai visibile persino nella potente Germania.
La seconda parte è stata molto meno gradevole, per le stesse orecchie. E riguarda l’annosa domanda: chi paga questa regalia? Se la Bce avesse accettato di accollarsi per intero il costo (e il rischio) dell’operazione, questo avrebbe significato un accordo politico tra i partner europei (per il tramite delle rispettive banche centrali) sulla “mutualizzazione” del debito continentale. Un passo avanti deciso verso l’unificazione non solo delle politiche monetarie e di bilancio, di sicurezza e militari, ma anche del lato sgradevole dell’unione: condividere i debiti.
Ma così non è.
La Germania non vuole accettare per intero questa mutualizzazione, temendo – non senza robuste ragioni – che i paesi Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, più Cipro) che tale garanzia comunitaria possa attenuare il “rigore” della riforme strutturali in corso di realizzazione nei diversi paesi, con difficoltà e resistenze popolari più o meno grandi.
La Bce, quindi, si accollerà “solo” l’80% del rischio, mentre il residuo 20% resterà in capo alle banche centrali nazionali. In più un ulteriore limite: la Bce non acquisterà più del 33%, al massimo, del debito totale di ciascun paese o più del 25% di ciascuna emissione. In pratica, due limiti che escludono il salvataggio pieno di ogni singolo paese, visto che la quota largamente maggioritaria resterà comunque sul mercato.
Il rischio ora “accomunato” è alto (la Germania ha provato a limitare il danno sulla quota del 50%, invece dell’80; ma è risultata sconfitta, su questo punto), ma nessuna banca centrale potrà sentirsi sollevata da impegni ferrei.
Come previsto, l’euro ha proseguito la sua discesa, attestandosi subito intorno a cambio di 1,15 nei confronti del dollaro e di 0,99 rispetto al franco svizzero. Idem per lo spread tra titoli di stato italiani e tedeschi, sceso a 108 punti.
La borsa ha festeggiato, sia pur più moderatamente del previsto (+2,5% per Milano), con le banche a fare la parte del leone (sono loro, soprattutto, le beneficiarie principali della scelta della Bce).
Ma domani è un altro giorno. E non mancheranno, probabilmente, altri chiarimenti su aspetti o codicilli “limitativi” suggeriti – o imposti – dalla teutonica Bundebank.
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