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27/01/2015

Il regime del salario 8. La supposta novità: l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione

Il nuovo che avanza in Italia ha decisamente un gusto vintage e, purtroppo no, non stiamo parlando di moda. Se stessimo parlando di moda, potremmo dire che il nostro premier non si è presentato con l’ultimo modello di automobile a idrogeno e sfoggiando un paio di luccicanti Google glass, bensì arrancando su un velocipede e vestito con larghe camicie da boscaiolo già viste in molti video dei Nirvana. Cose che forse avrebbe potuto apprezzare un giovane Neet dei primi 2000 in quel di Williamsburg, noi molto meno.

L’introduzione di una nuova Agenzia Nazionale per l’Occupazione è passata piuttosto in sordina rispetto ad altri aspetti del Jobs Act. Si tratta però di un importante tassello del nuovo regime del salario secondo cui il passaggio tra un lavoro e l’altro va amministrato nel segno della disponibilità ad accettare qualsiasi condizione di lavoro. Se l’abolizione dell’articolo 18 può essere paragonata allo sfoggio del velocipede, ossia ha un tocco vintage ed elitario che trova sempre riscontro nella nostrana classe dirigente nostalgica della belle époque dei signori del vapore, la presunta novità dell’introduzione di nuove politiche attive sul lavoro ci suona come il grunge: sporco e anzi sudicio.

L’A.N.O. diventerà il passaggio obbligato per accedere agli ammortizzatori sociali e sarà un tramite decisivo nel transito da un lavoro a un altro. Le diverse componenti del nuovo ente servono per assicurare che all’offerta di qualsiasi opportunità o beneficio corrisponda sempre, in maniera efficiente, la sua possibile negazione se non si soddisfano determinate condizioni. Se i dettagli su come sarà organizzata sono ancora incerti e fumosi – uno dei nodi cruciali riguarda lo scontro di competenze tra Stato e regioni – è importante iniziare a guardarci prima che sia troppo tardi.

Una riorganizzazione amministrativa pare essere una positiva novità secondo il verbo dell’efficienza e della semplificazione. Secondo i progetti iniziali, l’A.N.O. doveva essere formata dal patchwork dei seguenti enti già esistenti:
  1. La rete dei centri per l’impiego, miseri eredi dei tempi che furono e attualmente conosciuti dai più come il posto dove andare a dire che si è disoccupati.
  2. L’ISFOL, l’ente che si occupa di competenze e formazione.
  3. Le camere di commercio, in altre parole l’ente pubblico delle imprese.
  4. Italia Lavoro, una società per azioni sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze nata nel 1997 con la missione di creare occupazione su tutto il territorio nazionale. Per essere fedele al suo nome, i dipendenti che ci lavorano sono quasi tutti precari.
  5. Una parte dell’INPS, ossia quella che si occupa attualmente di politiche sociali e ammortizzatori sociali.
  6. Il CNEL, Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che attualmente esprime pareri. L’opinionista del gruppo insomma.
Degno di nota è il fatto che di Isfol, Camere di Commercio e Cnel, nella furia semplificatrice e un po’ random del governo, sia già stato proposto lo scioglimento in quanto superflui, mentre la rete dei centri per l’impiego è nel pieno caos delle province in via d’estinzione.

Per comprendere questa operazione, è comunque utile fare un passo indietro. Nel 1993 l’Italia è stata obbligata a smantellare l’enorme apparato burocratico degli uffici di collocamento, sotto pressione dall’Europa. Il monopolio statale in merito alle politiche attive sul lavoro finì, aprendo la strada a intermediari come le agenzie interinali. Il libro bianco su «Crescita, competitività, occupazione», pubblicato nello stesso anno dalla Comunità Europea iniziava a fornire a grandi linee quella traccia che portava dalle politiche di welfare a quelle cosiddette di workfare, per cui anche le prestazioni di welfare non paiono più spettare di diritto ma devono essere ottenute a certe condizioni e se si è disponibili a farsi formare, a farsi ricollocare, demansionare e quant’altro, pena la perdita delle indennità. Così, se le prestazioni assistenziali, come quelle sanitarie, devono essere sempre più acquistate, quelle che riguardano il lavoro devono essere sempre più «guadagnate», accettando e seguendo senza lamentarsi i percorsi comandati. Il Jobs Act si muove precisamente su questi binari, tentando di portare a compimento in Italia questo processo. Non si tratta dunque né di un’assoluta novità, né di una trovata estemporanea: si pensi, ad esempio, al piano d’azione dal titolo Welfare to Work basato sull’Accordo tra Stato, Regioni, Province Autonome sugli ammortizzatori sociali in deroga e le politiche attive terminato alla fine dello scorso anno.

Mentre l’operazione appare come un tentativo dello Stato di riprendere in mano la regia delle politiche attive del lavoro, la sua copertura finanziaria è tutt’altro che chiara. Nelle sue roboanti dichiarazioni, il nostro premier ha affermato che tutto ciò sarà fatto a costo zero. L’unico problema è che per poter utilizzare gli inglesismi tanto cari al boy scout bisogna aver studiato non solo l’inglese, ma anche a far di conto. Per essere a costo zero, una ristrutturazione amministrativa di tal genere non può che prevedere un massiccio taglio netto del numero di dipendenti pubblici, cosa che potrebbe essere resa possibile dalla riforma del pubblico impiego, con conseguente riduzione dei servizi per i cittadini. È indicativo in questo senso che la legge di stabilità preveda un taglio – che attraverso un emendamento è stato ridotto da 150 a 75 per poi arrivare a 35 e differenziato in maniera inversamente proporzionale alla grandezza dell’ente in questione – alla quota di contributi destinata ai patronati attraverso i quali passa attualmente circa l’85% delle domande online di prestazioni previdenziali e assistenziali. Al di là dell’attacco indiretto ai sindacati, che in questi anni hanno fatto dei servizi patronali la loro missione (quasi) unica, un effetto sicuro dei tagli è la riduzione del welfare erogato: la sua fruizione costerà più tempo, fatica e soldi, se di fronte a difficoltà nell’ottenimento delle indennità ci si troverà a pagare altri intermediari privati. Se, d’altra parte, paragoniamo l’investimento pro capite – di cui già qualcuno lamenta lo spreco – effettuato nelle politiche attive del lavoro tra il nostro paese e quello dei paesi dove la flexicurity si è affermata c’è da impallidire. Mentre qui parliamo di 8000 euro spesi in media per ogni disoccupato che si è riusciti a far riassumere, in paesi come Olanda e Danimarca ci avviciniamo ai 50.000 euro, una cifra non di molto superiore alla spesa per ogni posto di lavoro creato l’anno scorso nel contesto della Garanzia Giovani in Italia. Per quel prezzo a noi ci possono vendere al massimo la flexi. Un altro punto degno di nota è che c’è già qualcuno che si frega le mani. Moody’s prevede un futuro di grandi profitti (qualcuno l’ha definita una miniera d’oro) per i maggiori fornitori di lavoro interinale, Adecco e Manpower: lo scenario che si profila, dunque, non è quello di un nuovo protagonismo del pubblico nella gestione della forza lavoro, ma un’inedita sinergia tra pubblico e privato.

Si dice che se in una partita a poker non sei riuscito a individuare il pollo da spennare tra i giocatori, vuol dire che il pollo sei tu. Hai individuato il pollo?

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