L’introduzione di una nuova Agenzia Nazionale per l’Occupazione è passata piuttosto in sordina rispetto ad altri aspetti del Jobs Act. Si tratta però di un
importante tassello del nuovo regime del salario secondo cui il
passaggio tra un lavoro e l’altro va amministrato nel segno della
disponibilità ad accettare qualsiasi condizione di lavoro. Se
l’abolizione dell’articolo 18 può essere paragonata allo sfoggio del
velocipede, ossia ha un tocco vintage ed elitario che trova sempre
riscontro nella nostrana classe dirigente nostalgica della belle époque
dei signori del vapore, la presunta novità dell’introduzione di nuove
politiche attive sul lavoro ci suona come il grunge: sporco e anzi
sudicio.
L’A.N.O. diventerà il passaggio
obbligato per accedere agli ammortizzatori sociali e sarà un tramite
decisivo nel transito da un lavoro a un altro. Le diverse componenti del
nuovo ente servono per assicurare che all’offerta di qualsiasi
opportunità o beneficio corrisponda sempre, in maniera efficiente, la
sua possibile negazione se non si soddisfano determinate condizioni. Se
i dettagli su come sarà organizzata sono ancora incerti e fumosi – uno
dei nodi cruciali riguarda lo scontro di competenze tra Stato e regioni –
è importante iniziare a guardarci prima che sia troppo tardi.
Una riorganizzazione amministrativa pare
essere una positiva novità secondo il verbo dell’efficienza e della
semplificazione. Secondo i progetti iniziali, l’A.N.O. doveva essere
formata dal patchwork dei seguenti enti già esistenti:
- La rete dei centri per l’impiego, miseri eredi dei tempi che furono e attualmente conosciuti dai più come il posto dove andare a dire che si è disoccupati.
- L’ISFOL, l’ente che si occupa di competenze e formazione.
- Le camere di commercio, in altre parole l’ente pubblico delle imprese.
- Italia Lavoro, una società per azioni sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze nata nel 1997 con la missione di creare occupazione su tutto il territorio nazionale. Per essere fedele al suo nome, i dipendenti che ci lavorano sono quasi tutti precari.
- Una parte dell’INPS, ossia quella che si occupa attualmente di politiche sociali e ammortizzatori sociali.
- Il CNEL, Comitato Nazionale dell’Economia e del Lavoro, che attualmente esprime pareri. L’opinionista del gruppo insomma.
Degno di nota è il fatto che di Isfol, Camere di Commercio e Cnel, nella furia semplificatrice e un po’ random del
governo, sia già stato proposto lo scioglimento in quanto superflui,
mentre la rete dei centri per l’impiego è nel pieno caos delle province
in via d’estinzione.
Per comprendere questa operazione, è
comunque utile fare un passo indietro. Nel 1993 l’Italia è stata
obbligata a smantellare l’enorme apparato burocratico degli uffici di
collocamento, sotto pressione dall’Europa. Il monopolio statale in
merito alle politiche attive sul lavoro finì, aprendo la strada a
intermediari come le agenzie interinali. Il libro bianco su «Crescita,
competitività, occupazione», pubblicato nello stesso anno dalla Comunità
Europea iniziava a fornire a grandi linee quella traccia che portava
dalle politiche di welfare a quelle cosiddette di workfare, per
cui anche le prestazioni di welfare non paiono più spettare di diritto
ma devono essere ottenute a certe condizioni e se si è disponibili a
farsi formare, a farsi ricollocare, demansionare e quant’altro, pena la
perdita delle indennità. Così, se le prestazioni assistenziali,
come quelle sanitarie, devono essere sempre più acquistate, quelle che
riguardano il lavoro devono essere sempre più «guadagnate», accettando e seguendo senza lamentarsi i percorsi comandati. Il Jobs Act si
muove precisamente su questi binari, tentando di portare a compimento
in Italia questo processo. Non si tratta dunque né di un’assoluta
novità, né di una trovata estemporanea: si pensi, ad esempio, al piano
d’azione dal titolo Welfare to Work basato sull’Accordo tra Stato, Regioni, Province Autonome sugli ammortizzatori sociali in deroga e le politiche attive terminato alla fine dello scorso anno.
Mentre l’operazione appare come
un tentativo dello Stato di riprendere in mano la regia delle politiche
attive del lavoro, la sua copertura finanziaria è tutt’altro che chiara.
Nelle sue roboanti dichiarazioni, il nostro premier ha affermato che
tutto ciò sarà fatto a costo zero. L’unico problema è che per poter
utilizzare gli inglesismi tanto cari al boy scout bisogna aver studiato non solo l’inglese, ma anche a far di conto. Per
essere a costo zero, una ristrutturazione amministrativa di tal genere
non può che prevedere un massiccio taglio netto del numero di dipendenti
pubblici, cosa che potrebbe essere resa possibile dalla riforma del pubblico impiego,
con conseguente riduzione dei servizi per i cittadini. È indicativo in
questo senso che la legge di stabilità preveda un taglio – che
attraverso un emendamento è stato ridotto da 150 a 75 per poi arrivare a
35 e differenziato in maniera inversamente proporzionale alla grandezza
dell’ente in questione – alla quota di contributi destinata ai
patronati attraverso i quali passa attualmente circa l’85% delle domande
online di prestazioni previdenziali e assistenziali. Al di là
dell’attacco indiretto ai sindacati, che in questi anni hanno fatto dei
servizi patronali la loro missione (quasi) unica, un effetto sicuro dei
tagli è la riduzione del welfare erogato: la sua fruizione
costerà più tempo, fatica e soldi, se di fronte a difficoltà
nell’ottenimento delle indennità ci si troverà a pagare altri
intermediari privati. Se, d’altra parte, paragoniamo l’investimento pro
capite – di cui già qualcuno lamenta lo spreco – effettuato nelle
politiche attive del lavoro tra il nostro paese e quello dei paesi dove
la flexicurity si è affermata c’è da impallidire. Mentre qui
parliamo di 8000 euro spesi in media per ogni disoccupato che si è
riusciti a far riassumere, in paesi come Olanda e Danimarca ci
avviciniamo ai 50.000 euro, una cifra non di molto superiore alla spesa
per ogni posto di lavoro creato l’anno scorso nel contesto della
Garanzia Giovani in Italia. Per quel prezzo a noi ci possono vendere al
massimo la flexi. Un altro punto degno di nota è che c’è già qualcuno che si frega le mani. Moody’s
prevede un futuro di grandi profitti (qualcuno l’ha definita una
miniera d’oro) per i maggiori fornitori di lavoro interinale,
Adecco e Manpower: lo scenario che si profila, dunque, non è quello di
un nuovo protagonismo del pubblico nella gestione della forza lavoro, ma
un’inedita sinergia tra pubblico e privato.
Si dice che se in una partita a
poker non sei riuscito a individuare il pollo da spennare tra i
giocatori, vuol dire che il pollo sei tu. Hai individuato il pollo?
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