Obama svolta a sinistra, annuncia Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 22 gennaio. Il riferimento è a quelle parti del discorso sullo Stato dell’Unione in cui il presidente americano ha annunciato
di voler imporre nuove tasse sui super ricchi – anche colpendo i
capital gain di banche e società finanziarie – e di offrire crediti
fiscali alle classi medie martoriate dalla crisi. Peccato
che, come lo stesso Gaggi ricorda, le dimensioni degli interventi
ipotizzati siano modeste (riporterebbero la situazione ai tempi di
Reagan, tamponando in minima parte i disastri provocati da trent’anni di
neoliberismo); e peccato che fra il dire e il fare ci sia di mezzo il
mare, nel senso che i propositi di Obama si scontreranno con un
Congresso dominato dai Repubblicani. Del resto, Obama è sempre stato
propenso alle mediazioni (spesso al ribasso) più che allo scontro con
gli “avversari” politici; tanto è vero che i suoi compagni di partito lo
stanno incalzando, chiedendogli di essere più determinato nel sostenere
gli interessi dei lavoratori, a partire dalla reintroduzione
dell’obbligo per i padroni di pagare gli straordinari.
Per quanto timida, la mossa di Obama è tuttavia fra i sintomi del
mutamento del clima di opinione che investe anche le élites politiche e
finanziarie mondiali, a partire dal manipolo di “cacicchi” da poco
radunatisi a Davos, preoccupate sull’impatto potenzialmente
destabilizzante di disuguaglianze sempre più intollerabili (secondo una ricerca pubblicata dal Guardian
l’1% dei super ricchi controllerebbe ormai più della metà della
ricchezza globale). Nemmeno gli annunci trionfalisti in merito al fatto
che la crisi, dopo aver toccato il suo acme, starebbe lasciando spazio
alla ripresa suonano rassicuranti, visto che, anche laddove
l’occupazione è tornata a crescere, non si vede alcun segno di aumento
dei redditi delle classi subalterne.
Persino il Fmi, dopo avere invocato per decenni tagli radicali alla
spesa pubblica, comincia a criticare la linea rigorista della Ue (o
meglio della Germania che ne detiene l’incontrastata leadership) e
sollecita una svolta espansiva. Per farla breve: paura dei conflitti
sociali innescati dall’immiserimento delle classi medie, necessità di
rilanciare i consumi, rapida ascesa dei populismi di destra e di
sinistra: è possibile che questi fattori possano dischiudere la strada a
una svolta neokeynesiana nelle politiche economiche dei centri di
comando dell’economia mondiale?
È quanto sperano i movimenti politici nati dalle rovine di una
sinistra europea in avanzato stato di decomposizione, da Syriza a
Podemos. Ed è quanto sperano, qui in Italia, i resti di quella parte di
sinistra antagonista che ancora si riconosce nei “cespugli”
postcomunisti e che, dopo l’avventura della lista Tsipras, ripone grandi
aspettative nella secessione di un PD renziano sempre più proiettato
verso l’abbraccio centrista con Forza Italia. Un’aspettativa talmente
spasmodica da indurre Landini a salutare il “gran rifiuto” di Cofferati
come la possibile nascita di uno Tsipras italiano, cancellando con un
colpo di spugna le pesanti responsabilità di Cofferati nell’involuzione
della Cgil e la sua poco felice prova come sindaco di Bologna (ruolo in
cui si è dimostrato più sensibile alle esigenze di sicurezza dei ceti
medi che agli interessi degli ultimi e degli esclusi).
Tuttavia, a parte simili abbagli, che pure non fanno ben sperare
sulla radicalità della formazione che potrebbe nascere da un ipotetico
rimescolamento di carte alla sinistra del PD, la vera illusione è quella
relativa alla possibilità di un ritorno a politiche economiche
keynesiane classiche e alla convivenza pacifica fra capitale e lavoro
del “trentennio glorioso”. Il capitalismo contemporaneo ha subito una
mutazione genetica irreversibile, adottando un modello di accumulazione
finanziarizzato che non conta più sulla contrattazione fra capitale e
lavoro e su consumi di massa sostenuti da alti salari e politiche
sociali per garantirsi elevati tassi di profitto.
Le chiacchiere sulla crescita e sul riequilibrio delle disuguaglianze
non sono preludio a una reale inversione di tendenza, ma il sintomo
della consapevolezza che, per evitare rivolte sociali, occorre elargire
qualche briciola che riempia le pance svuotate dal crollo dei redditi e
dai tagli a welfare. Prima ce ne renderemo conto e meglio sarà, se
vogliamo costruire progetti meno fragili e velleitari di riaggregazione a
sinistra.
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