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27/01/2015

Le briciole di Obama e le illusioni neokeynesiane

Obama svolta a sinistra, annuncia Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 22 gennaio. Il riferimento è a quelle parti del discorso sullo Stato dell’Unione in cui il presidente americano ha annunciato di voler imporre nuove tasse sui super ricchi – anche colpendo i capital gain di banche e società finanziarie – e di offrire crediti fiscali alle classi medie martoriate dalla crisi. Peccato che, come lo stesso Gaggi ricorda, le dimensioni degli interventi ipotizzati siano modeste (riporterebbero la situazione ai tempi di Reagan, tamponando in minima parte i disastri provocati da trent’anni di neoliberismo); e peccato che fra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare, nel senso che i propositi di Obama si scontreranno con un Congresso dominato dai Repubblicani. Del resto, Obama è sempre stato propenso alle mediazioni (spesso al ribasso) più che allo scontro con gli “avversari” politici; tanto è vero che i suoi compagni di partito lo stanno incalzando, chiedendogli di essere più determinato nel sostenere gli interessi dei lavoratori, a partire dalla reintroduzione dell’obbligo per i padroni di pagare gli straordinari.

Per quanto timida, la mossa di Obama è tuttavia fra i sintomi del mutamento del clima di opinione che investe anche le élites politiche e finanziarie mondiali, a partire dal manipolo di “cacicchi” da poco radunatisi a Davos, preoccupate sull’impatto potenzialmente destabilizzante di disuguaglianze sempre più intollerabili (secondo una ricerca pubblicata dal Guardian l’1% dei super ricchi controllerebbe ormai più della metà della ricchezza globale). Nemmeno gli annunci trionfalisti in merito al fatto che la crisi, dopo aver toccato il suo acme, starebbe lasciando spazio alla ripresa suonano rassicuranti, visto che, anche laddove l’occupazione è tornata a crescere, non si vede alcun segno di aumento dei redditi delle classi subalterne.

Persino il Fmi, dopo avere invocato per decenni tagli radicali alla spesa pubblica, comincia a criticare la linea rigorista della Ue (o meglio della Germania che ne detiene l’incontrastata leadership) e sollecita una svolta espansiva. Per farla breve: paura dei conflitti sociali innescati dall’immiserimento delle classi medie, necessità di rilanciare i consumi, rapida ascesa dei populismi di destra e di sinistra: è possibile che questi fattori possano dischiudere la strada a una svolta neokeynesiana nelle politiche economiche dei centri di comando dell’economia mondiale?

È quanto sperano i movimenti politici nati dalle rovine di una sinistra europea in avanzato stato di decomposizione, da Syriza a Podemos. Ed è quanto sperano, qui in Italia, i resti di quella parte di sinistra antagonista che ancora si riconosce nei “cespugli” postcomunisti e che, dopo l’avventura della lista Tsipras, ripone grandi aspettative nella secessione di un PD renziano sempre più proiettato verso l’abbraccio centrista con Forza Italia. Un’aspettativa talmente spasmodica da indurre Landini a salutare il “gran rifiuto” di Cofferati come la possibile nascita di uno Tsipras italiano, cancellando con un colpo di spugna le pesanti responsabilità di Cofferati nell’involuzione della Cgil e la sua poco felice prova come sindaco di Bologna (ruolo in cui si è dimostrato più sensibile alle esigenze di sicurezza dei ceti medi che agli interessi degli ultimi e degli esclusi).

Tuttavia, a parte simili abbagli, che pure non fanno ben sperare sulla radicalità della formazione che potrebbe nascere da un ipotetico rimescolamento di carte alla sinistra del PD, la vera illusione è quella relativa alla possibilità di un ritorno a politiche economiche keynesiane classiche e alla convivenza pacifica fra capitale e lavoro del “trentennio glorioso”. Il capitalismo contemporaneo ha subito una mutazione genetica irreversibile, adottando un modello di accumulazione finanziarizzato che non conta più sulla contrattazione fra capitale e lavoro e su consumi di massa sostenuti da alti salari e politiche sociali per garantirsi elevati tassi di profitto.

Le chiacchiere sulla crescita e sul riequilibrio delle disuguaglianze non sono preludio a una reale inversione di tendenza, ma il sintomo della consapevolezza che, per evitare rivolte sociali, occorre elargire qualche briciola che riempia le pance svuotate dal crollo dei redditi e dai tagli a welfare. Prima ce ne renderemo conto e meglio sarà, se vogliamo costruire progetti meno fragili e velleitari di riaggregazione a sinistra.

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