Onorevole, perché avete deciso di solidarizzare col Pkk?
Nei molti viaggi svolti fra la Turchia orientale e la Siria settentrionale ho conosciuto il Pkk e il suo partito fratello Pyd, impegnati in un’originale prospettiva di emancipazione in Medio Oriente che va oltre i movimenti classici di liberazione nazionale. Anche in Germania, il Pkk è la forza dominante fra le kurde e i kurdi politicizzati. Inoltre, in quanto esperta di politica interna, dovevo occuparmi dell’ostracismo politico che il Pkk subisce nei nostri Land e solidarizzare con gli attivisti perseguitati per quel divieto.
E’ una scelta dell’intero gruppo parlamentare Die Linke o di alcuni di voi?
Ora dell’intero gruppo. A lungo solo un manipolo di deputati, che sono stati osservatori durante le elezioni nei territori kurdi della Turchia o che hanno molti residenti kurdi nella loro circoscrizione, s’interessava al tema. Altri deputati Die Linke lo evitavano perché temevano d’essere assimilati ai “terroristi”. Il quadro è cambiato dopo che, nell’estate 2014, il Pkk nel nord dell’Iraq ha salvato la vita di decine di migliaia di yazidi e cristiani soggetti agli attacchi dello Stato Islamico e dopo che le milizie kurde hanno opposto un’accanita resistenza a Kobanê. A quel punto tutti i parlamentari Die Linke hanno deciso di presentare la richiesta di abolizione del divieto del Pkk al Bundestag e d’invitare il governo federale a rimuovere questo partito dall’elenco delle organizzazioni considerate terroriste dall’Ue.
Cosa pensate delle liste di proscrizione stilate da Stati Uniti e Unione Europea?
Die Linke ha sempre rifiutato questi elenchi che considera estranei ai principi del diritto internazionale. Ci impegniamo per l’abolizione degli elenchi indipendentemente da come valutiamo i gruppi citati. Sono sicura che anche quei nostri deputati che in passato si mostravano scettici sul Pkk e sui i suoi metodi non lo consideravano un organismo terrorista. Die Linke e, precedentemente, il Pds, si sono sempre battuti per i diritti dei kurdi e una soluzione politica della loro questione.
In Europa molti hanno espresso solidarietà a Kobanȇ e ai kurdi con manifestazioni e missioni, ma nella sinistra europea non ci sono partiti che hanno compiuto una scelta simile alla vostra. L’internazionalismo è scomparso?
Non proprio. La Sinistra Europea in quanto federazione di numerosi partiti, socialisti e comunisti, ha deciso di fare una campagna contro la presenza del Pkk nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Anche altri membri della Sinistra Europea, come i comunisti francesi, sono stati molto attivi solidarizzando col movimento di liberazione kurdo. In Germania gruppi della sinistra extraparlamentare s’interessano al Kurdistan; raccolgono anche denaro per armi destinate alle Unità di difesa popolare e di Difesa delle donne del Rojava. Non credo che l’internazionalismo sia scomparso, penso che viviamo un ritorno di solidarietà e Rojava ne è un esempio. Ricordo il 1° novembre 2014, quando si è giunti a manifestazioni mondiali per Kobanê. Dobbiamo considerare che in altri Paesi europei – forse con l’eccezione della Francia – non è in atto una persecuzione tanto dura del Pkk e del movimento di liberazione kurdo come in Germania.
Ancora sull’internazionalismo: in due nazioni dalla grande tradizione di sinistra – Italia e Francia – la carenza d’un intervento ufficiale ha motivi organizzativi o c’è una perdita di valori solidali nella leadership e fra i militanti?
In entrambi i Paesi esistono gruppi solidali con le lotte di lavoratori, con gli sfruttati e i popoli oppressi. Non parlerei di mancanza d’internazionalismo. Naturalmente ancora quindici anni fa i comunisti italiani erano molto più attivi nella solidarietà al Kurdistan. Per un certo tempo, durante la sua fuga, Abdullah Öcalan ha soggiornato in Italia attirando l’attenzione sul problema kurdo. La questione principale mi sembra il declino e la frammentazione dei comunisti italiani. Negli ultimi tempi la sinistra italiana s’è occupata anzitutto di sé stessa. Per un internazionalismo efficace è necessaria una certa influenza e una forza nel proprio Paese, altrimenti quell’impegno resta un gesto simbolico pieno di buone intenzioni, ma senza efficacia.
Una solidarietà attiva esiste fra i kurdi, però solo l’assedio di Kobanȇ ha condotto i peshmerga a difendere quella città. Cosa pensate del governo Barzani e del ruolo del Kurdistan iracheno nella più grande questione kurda?
Barzani persegue un progetto politico del tutto diverso dal Pkk e dal Pyd. Il suo obiettivo è uno Stato nazionale kurdo nel nord iracheno. Dubito che un simile Kurdistan indipendente darà ai suoi abitanti più sicurezza e più libertà. Già oggi la regione autonoma kurda è uno Stato mafioso governato alla maniera feudale da due o tre partiti, dove regnano corruzione e nepotismo, dove le forze di sicurezza sparano sui dimostranti che contestano il regime, dove i giornalisti critici vengono assassinati e le violenze e gli assassini sulle donne sono enormemente aumentati. Economicamente la regione kurda in Iraq è totalmente dipendente da Ankara, possiamo parlare perfino di un protettorato turco. Il margine d’azione di Barzani è stretto e si aggiunge una debolezza militare. Davanti all’attacco dell’Is ai territori kurdi, in particolare nella regione degli Yazidi, Sengal, i peshmerga sono fuggiti. Evidentemente costoro, poco più che mercenari mal pagati, non avevano il morale per combattere, a differenza dei volontari del Pkk e del Ypg che non sono intervenuti solo per proteggere gli yazidi, ma l’intera regione autonoma kurda. Mentre la reputazione di Barzani, del suo Partito democratico del Kurdistan e dei peshmerga sono finite in sofferenza, il prestigio del Pkk è molto aumentato fra la gente e gli ambienti politici kurdo-iracheni. Dopo che la maggioranza del parlamento iracheno s’è dichiarata favorevole al riconoscimento dei cantoni del Rojava, soggetti finora a un embargo anche da parte del governo di Barzani, questi è stato costretto a spedire a Kobanê gruppi di peshmerga con armi pesanti. Se Barzani rinunciasse al suo atteggiamento negativo nei confronti del Rojava si compirebbe un passo in avanti. Tuttavia non si tratta di lotte per la leadership fra Barzani e Öcalan o lotte di partito fra Kdp, Pkk e Pyd. In ballo ci sono visioni politiche e modalità di sistema. A differenza del Kdp, il Pkk e il Pyd mirano a soluzioni di democrazia di base non nazionaliste, puntano a collegare tutti i gruppi di popolazione che vivono nella regione, considerano centrali i diritti delle donne e tentano di intraprendere un percorso di sviluppo non capitalista.
Abbiamo sotto gli occhi un altro “internazionalismo”, quello dei giovani islamici d’Europa che diventano jihadisti. L’Islam fondamentalista può offrire un modello di società più avvincente del mondo globalizzato?
La sinistra in Europa deve accettare di confrontarsi con un’emarginazione sociale frutto dell’immigrazione musulmana, se non lo fa si chiude una porta in faccia. Questa sinistra non sta offrendo una prospettiva alla massa dei giovani migranti. In Germania, Francia, Italia è, con poche eccezioni, indigena e bianca. I jihadisti s’inseriscono in questa breccia. Per loro non fa differenza se si è di origine tedesca o migranti, neri o bianchi, o a quale religione si è appartenuti in precedenza. Sono decisive l’accettazione delle convinzioni jihadiste e la disponibilità a lottare per esse. Inoltre l’estremismo islamico sembra in grado di offrire soluzioni semplici perfino a problemi primari come l’istruzione, la ricerca di posti di lavoro, il rapporto coi genitori riguardo a una visione religiosa e spirituale.
Il progetto federalista di Öcalan ha possibilità di realizzarsi? Come può essere aiutato dalla politica internazionalista?
Questo progetto ha maggiori possibilità di successo dell’idea d’un Grande Kurdistan unito e indipendente sognato ancora da alcuni kurdi. La scorsa estate, nel Rojava, ho sperimentato io stessa quanto l’idea di auto amministrazione con uguali diritti entusiasmi le persone – kurdi, arabi, assiri/aramei – che vogliono costruire una nuova società. Ma a Kobanê abbiamo anche sperimentato la vulnerabilità di questo modello. Senza l’intervento dei peshmerga con le armi pesanti e senza gli attacchi aerei Usa Kobanê sarebbe caduta. Lo dico malvolentieri, ma è la realtà. Il futuro dirà quanto sarà alto il prezzo politico da pagare per il processo di emancipazione. Possiamo sostenere praticamente Rojava e il movimento dei comuni kurdi nella Turchia orientale con aiuti in denaro e materiali. Facendo conoscere a livello internazionale l’esempio che lì viene dato. Facendo affluire per un certo tempo in quelle aree, in nome dell’internazionalismo, medici e ingegneri che collaborino a costruire progetti autonomi. E naturalmente nei nostri Paesi dobbiamo opporci all’invio dall’Europa di armi ai nemici di questo modello sociale: Turchia e Arabia Saudita.
La doppiezza della linea di Erdoğan e delle petro-monarchie attorno al jihadismo è evidente, ma gli interessi economici condurranno le nazioni occidentali ad abbandonare a se stessa la questione kurda?
Forse, però potrebbe accadere anche il contrario. Proprio per interessi economici e per aver accesso alle gigantesche risorse di petrolio e gas nel nord dell’Iraq kurdo, i Paesi occidentali tendono a inserirsi nella regione. Se la Germania fornisce armi ai peshmerga, non è certo per combattere l’Is. Se questa fosse l’intenzione le darebbe soprattutto a Pkk e Ypg che combattono con successo lo Stato Islamico, non ai peshmerga che inizialmente davanti ai jiahadisti si sono ritirati. Con simili equipaggiamenti la Repubblica Federale vuole comprare i favori di Barzani per partecipare in futuro al business dell’energia. Per la Turchia è esatto dire che gli interessi economici vengono prima dei diritti umani, non possiamo farci illusioni. Una Turchia stabile che ha risolto in modo democratico la sua questione kurda, anche grazie all’imprevedibile politica di Erdoğan, attira gli investimenti stranieri più d’un Paese sull’orlo della guerra.
Quale ruolo viene ad assumere la Germania nell’attuale crisi geopolitica in Medio Oriente e nell’Europa dell’est? Angela Merkel sarà come Helmut Kohl per l’ex Jugoslavia?
Il governo tedesco intende introdursi in Medio Oriente. Ma, a differenza delle ex potenze coloniali francese, britannica e degli Usa, il suo impegno militare nella regione è ancora relativamente piccolo, seppure ci sono batterie di Patriot in Turchia e la Marina federale è davanti al Libano. La Germania manda consiglieri militari nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo è avere un ruolo molto più attivo nell’area per non essere tagliati fuori dalla nuova ripartizione del mondo. Tutto ciò vale anche per l’Ucraina, dove la Germania appoggia unilateralmente, secondo gli interessi statunitensi, il governo di Kiev, sostenuto notoriamente anche da fascisti. Dall’altra parte la Merkel tenta un riequilibrio con Putin, perché l’economia tedesca dipende in parte dalla Russia. A differenza della Jugoslavia, nella cui distruzione la Germania diretta da Kohl e Genscher aveva un ruolo preminente, in Europa orientale il governo federale è costretto a cercare una via di mezzo fra la sua subordinazione politica agli Usa, anche in ambito Nato, e gli interessi della propria economia.
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Ringraziamo la deputata Ulla Jelpke per l’intervista. Giustinianio Rossi e Jürgen Stottko per la traduzione dal tedesco
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