Se la politica istituzionale italiana
fosse un film starebbe in un genere horror-demenziale. Ad alto budget,
costo quasi la ricchezza di un paese, ed in fondo con poche idee.
L’alleanza Renzi-Berlusconi che cannibalizza i resti dei rispettivi
partiti che, ancora oggi, credono di essere reciprocamente alternativi.
Una elezione del presidente della Repubblica che, comunque vada,
produrrà una persona inadeguata e commissariata dall’esterno. E si parla
di una entità esterna che non sa assolutamente che cosa fare, altro che
le invasioni di They Live di Carpenter o i Visitors. Non a caso da
giorni i tg mainstream vivono di emergenza terrorismo islamico visto che
ogni altro argomento (come la serissima vicenda dello sganciamento
euro-franco svizzero con crollo borsa di Zurigo) diventa politicamente
ingestibile e neanche raccontabile.
Renzi da Davos ha offerto, ad una platea
mondiale che sta cercando la ricetta di un capitalismo che esce dalla
crisi (che è un po’ come l’assassino che si mette sulle tracce del
colpevole dell’omicidio che ha commesso), addirittura le riforme
elettorali ed istituzionali. Insomma, il mantra di ogni numero
domenicale di Repubblica o del Corriere da oltre trent’anni rivenduto
con hashtag lavoltabuona. Ma forse quella delle “riforme” è la
volta buona davvero. In ogni caso, non nel senso sperato da una
opinione pubblica fuori dal tempo e dallo spazio globali. E qui bisogna
capirsi: quando, a ridosso delle elezioni 2013 come dell’insediamento
del governo Renzi, le previsioni più demenziali sul pil fioccavano sui
maggiori giornali la realtà sembrava essersi eclissata. Dal marketing a
favore di Monti a quello, ancora più sfacciato, per Renzi i media
italiani, a reti unificate, hanno sparato previsioni di Pil pazzesche se
solo le magiche “riforme” fossero entrate in essere. La realtà,
guardando le previsioni di Citigroup (rivelatesi fondate), si incarica
invece di raccontare non un film ma i fatti: investimenti in declino
entro un pil globale in frenata significava inesorabilmente almeno tre
anni di recessione (l’ultimo, il 2014, visto pudicamente da Citigroup a
0,0 ed andato ben peggio).
Queste previsioni si basavano su una
analisi fatta recentemente, e a nostro avviso correttamente, anche dal
sito walkingdebt: l’Italia è stata travolta da una prima ondata di crisi (quella successiva a Lehman) tutta fatta di cause esterne; poi da una seconda,
(quella contemporanea alla crisi debito sovrano), dove invece le
difficoltà dell’economia interna si sono fatte sentire con forza. In
entrambi i casi, per quanto oggi investire non significhi creare
automaticamente un saldo positivo di posti di lavoro, gli investimenti
pubblici e privati si sono significativamente ridotti. Quelli privati a
causa della crisi; quelli pubblici, che dovrebbero contrastare la crisi
di quelli privati, a causa del doppio modo di rispondere alle prime due
ondate di disgregazione del capitalismo italiano: tagliando i bilanci
pubblici in un primo momento (Lehmann), aumentando le tasse in un
secondo (Crisi del debito sovrano). In entrambi i casi sono mancati i
fondi per gli investimenti. I tre anni di recessione consecutiva
sembrano aver seminato poco.
Ed adesso di fronte ad una terza ondata di crisi, con la stima del rallentamento della crescita globale?
Ecco quindi il ruolo delle riforme
renziane: costruire istituzioni che favoriscano la deflazione da lavoro,
di cui il Jobs Act sarebbe solo un passo, recuperando competitività
facendola pagare ai lavoratori. Oppure per recuperare investimenti
stornando, senza difficoltà formali, dal welfare direttamente ai
privati. E’ la via del downgrade italiano, fino ad un punto di
immiserimento tale da rendere il paese competitivo sul costo del lavoro.
Mentre l’un per cento degli italiani, assieme agli investitori esteri,
applaude, fa applaudire alle proprie tv ed incassa i dividendi delle
“riforme”.
La salvezza italiana, comunque piena di
impressionanti difficoltà e pericoli, passa dall’appoggio convinto alla
Grecia. Pur conoscendo difficoltà e contraddizioni di Syriza. Perché la
Grecia può mettere in difficoltà l’ordine materiale su cui si basano le
politiche del downgrade alla Renzi. Il resto è chiacchiera sulla competitività, l’efficienza e chissà qualche altro lemma del lessico delle
conversazioni da vacanze estive, peraltro sempre più brevi, quando
capita di parlare della crisi del paese. Lessico elevato a catalogo
delle categorie del politico, del resto i tempi non sembrano offrire di
meglio. Per adesso. Nel novero di queste chiacchiere ci sono anche
quelle sulla possibile svolta della Bce di Draghi nell’acquisto di
titoli. Ma qui il bluff dovrebbe uscir fuori persino prima di quello
messo in campo dal premier di Rignano.
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