Con il falso intento di non
scontentare nessuno si procede, da una lato, sferrando colpi bassi a
lavoratori e lavoratrici, consegnandoli alla furia divoratrice di Kronos
e, dall’altro, concedendo alle aziende l’ormai rituale aiutino.
In questo caso, se faranno le brave e assumeranno personale con
contratti indeterminati a tutele crescenti, otterranno il meritato
premio, ovvero gli ormai noti sgravi fiscali. Ci potremmo addirittura
abituare e considerare questi sconti alle aziende sulle spalle dei
lavoratori come una proposta risolutiva della crisi, dal momento che
questo ci è stato ripetuto fino alla nausea. Invece, ci troviamo a
ribadire una fondamentale questione: togliere contributi alle aziende
non produrrà certo più lavoro. Togliere diritti e impoverire lavoratori e
lavoratrici è, piuttosto, un modo per aumentare il tasso di rendimento
dello sfruttamento ed è questo ciò che serve per «far ripartire il
mercato». Si tratta di un utilizzo «di parte» del tempo altrui,
sia per gestire le ore dei precari che si vogliono sempre disponibili e
occupabili sia per procrastinare la previdenza che serve a produrre una
forza lavoro just in time, sempre a disposizione a qualsiasi condizione.
Insomma, le tutele crescenti sono per le aziende e più che risolvere la
crisi ne normalizzano gli effetti. In altri termini mentre il tempo di
chi lavora si contrae, perché il regime del salario lo costringe a
lavorare a salario decrescente e senza nessun controllo sul suo tempo di
lavoro e di vita, il tempo delle imprese si allunga e diviene
crescentemente comodo.
La riforma sembra viaggiare a gonfie
vele verso la riduzione dei contratti precari e verso la semplificazione
delle forme contrattuali. Ma non è sufficiente eliminare dalla lista
nera alcune forme contrattuali, se la nuova proposta in gioco produce e favorisce altrettanta precarietà. A essere semplificata è così la possibilità di sfruttare.
Il lavoratore neoassunto con il contratto a tutele crescenti non avrà
immediatamente diritto a quelle tutele previdenziali che vengono
applicate ai contratti standard, ma le guadagnerà nel tempo. L’azienda,
invece, guadagnerà nell’immediato presente: per un primo periodo – la
determinazione della durata esatta di questo periodo è rimandata ai
decreti attuativi – non dovrà versare i contributi per il lavoratore! È
vero che le aziende dovranno pagare piena contribuzione allo Stato se
risolveranno il rapporto di lavoro prima di tre anni, ma è altrettanto
vero che saranno libere di licenziare senza remore, pagando
semplicemente un’indennità crescente in base agli anni di lavoro ai
lavoratori liquidati. L’articolo 18, infatti, verrà applicato solo per i
licenziamenti discriminatori. Tutto ciò in linea con la
retorica del governo secondo cui l’articolo 18 sarebbe responsabile
della precarietà e della disoccupazione giovanile, in cambio del quale
si propone la generalizzazione della precarietà. Taglia, sfrutta, licenzia: è questa la ricetta di stabilità del governo.
L’intenzione dichiarata è quella di
eliminare i vari contratti intermittenti e precari come le
collaborazioni a progetto al fine di proporre quelli a tempo
indeterminato a tutele crescenti come forma «prevalente» e il contratto a
tempo determinato come forma «eccezionale». È chiaro però che gli
effetti del contratto a tutele crescenti cambieranno di molto se, come è
probabile, continuerà a coesistere con altri contratti precari. In
questo caso, si tratterebbe in sostanza di un contratto a termine con la
differenza che non c’è la data di scadenza ufficiale. Stiamo
parlando di un contratto che prevede un periodo di prova eccessivamente
lungo dove tutele garanzie e previdenza scompaiono magicamente e solo
col tempo, forse, ricompariranno. Se le piccole tutele crescono, lo
sfruttamento intenso è costante. Insomma, la legge non fa altro che rendere precario il vecchio contratto a tempo indeterminato.
Quel che è certo, per esempio, è che l’utilizzo dei voucher non sarà eliminato.
Come già sappiamo i voucher sono gli strumenti ideali per dirigere
manovalanza intermittente, nella piena legalità, ora più che mai,
considerato che il loro utilizzo verrà esteso a nuovi settori di
produzione. A questo proposito si prevede un aumento del tetto dei 2000
euro per lavoratore da pagare con voucher per committente, senza che
venga però toccato il tetto di 5000 euro annui totali per ciascun
lavoratore. Eh già, si dovrà pur lasciare un margine a queste
aziende in crisi, visto che la produzione non si riprenderà certo
dall’oggi al domani e la manodopera occasionale è come una droga e dà
assuefazione: una volta conosciuta è una bella comodità,
difficile da abbandonare. Infatti, i lavoratori soccorrono giorno per
giorno le aziende che non sono in grado di gestire la propria economia
nel lungo periodo per colpa della crisi. Grazie ai voucher e all’assenza
di un contratto, le suddette aziende ripiegano comodamente sul
dipendente del giorno, pronto alla chiamata dell’ultimo minuto perché
messo nella condizione di accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi forma
di retribuzione o di contratto.
Come insegna il gioco delle tre carte,
se non sta qua e non sta là, indovina un po’ dove sta. Solo che qui il
trucco si vede benissimo. Non è sufficiente chiamarlo contratto a
tempo indeterminato se in realtà è svuotato di tutte le sue tutele,
trasformato di fatto in un contratto a tempo determinato. Non
si può continuare a lasciare alle aziende un tale margine di decisione
riguardo alle forme contrattuali e retributive. Ai lavoratori e alle
lavoratrici nuoce gravemente la discrezionalità aziendale e non servono
le buone azioni che alleggeriscono le aziende. A loro serve piuttosto un
salario minimo europeo e non l’illusione di un aumento di salario forse
un giorno, come potrebbe accadere con la richiesta di avere il Tfr in busta paga. Il
quadro già instabile del lavoro e delle forme contrattuali sta per
essere reso del tutto instabile in nome di una stabilità futura affidata
al tempo e alla discrezionalità dei padroni. Tutele e diritti
sembrano diventare sempre più privilegi accessori che sotto il regime
del salario e con il governo della mobilità vengono eliminati del tutto o
capitalizzati dalle aziende, come le tutele crescenti che
distribuiscono i diritti col contagocce, garantiscono alle imprese e
allo Stato un guadagno netto immediato e futuro e garantiscono la
riproducibilità all’infinito di una forza lavoro just in time.
Oggi, nel giorno
dell’approvazione della legge al Senato, è importante che chi non crede
alle menzogne del governo e chi sa che il prezzo della ripresa è
l’aumento del tasso di sfruttamento, si faccia sentire. Il
segnale chiaro che migranti, precarie, operai e studenti manderanno è
che non ci stanno a essere solo numeri e variabili nei bilanci delle
aziende e che per loro batte il tempo dello sciopero sociale. Sappiamo
però che questo tempo non segue le scadenze dell’agenda istituzionale. La vera battaglia, se vogliamo tornare a vincere qualcosa e non essere semplicemente un fastidioso controcanto, si
gioca piuttosto nei luoghi di lavoro dove gli effetti di questa legge
si faranno sentire sulla pelle di milioni di lavoratori e lavoratrici.
Si giocherà dove la parola d’ordine dello sciopero riuscirà a diventare
non solo uno slogan ma una possibilità pratica di organizzazione per
chi può scioperare, ma è da anni costretto a giocare battaglie difensive
e per chi non può scioperare perché la condizione di precarietà sembra
impedirglielo. Il Jobs Act ha la pretesa di essere una riforma
complessiva del tempo, stabilendo chi ne è il padrone, chi lo può
estendere e intensificare a proprio favore, chi può legalmente
espropriare il tempo altrui. La risposta non può quindi essere
la lotta di un singolo momento, l’interruzione clamorosa che dura un
attimo. La posta in gioco è la possibilità di interrompere il corso di
questo tempo, di rovesciarlo durevolmente e in massa.
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