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26/01/2015

Il regime del salario 7. Jobs Act: le tutele crescenti e la riforma del tempo

Oggi, il 3 dicembre, al senato viene votato il Jobs Act. Si prevede che la nuova legge sul lavoro entri in vigore a gennaio e che venga completata progressivamente da una serie di decreti attuativi. Il primo di essi dovrebbe riguardare l’introduzione del contratto a tutele crescenti, grazie al quale i lavoratori e lavoratrici potranno sperimentare un nuovo «vantaggioso» contratto a tempo indeterminato che di stabile ha però solo il nome che porta. Il ministro Poletti sostiene che con la legge delega il lavoro acquisirà più certezze e sarà sempre meno precario, mentre l’abbassamento del costo del lavoro aiuterà le aziende ad avere un margine economico e una possibilità in più per investire in vista della famosa ripesa. Sembra invece che si sia lavorato nell’ottica di assestare il quadro della riforma del lavoro, dando un colpo alla botte e uno al cerchio. Eh già, perché se la botte non è perfetta, le tecniche per sistemarla non potranno che essere rudimentali. Wilma, passami la clava.

Con il falso intento di non scontentare nessuno si procede, da una lato, sferrando colpi bassi a lavoratori e lavoratrici, consegnandoli alla furia divoratrice di Kronos e, dall’altro, concedendo alle aziende l’ormai rituale aiutino. In questo caso, se faranno le brave e assumeranno personale con contratti indeterminati a tutele crescenti, otterranno il meritato premio, ovvero gli ormai noti sgravi fiscali. Ci potremmo addirittura abituare e considerare questi sconti alle aziende sulle spalle dei lavoratori come una proposta risolutiva della crisi, dal momento che questo ci è stato ripetuto fino alla nausea. Invece, ci troviamo a ribadire una fondamentale questione: togliere contributi alle aziende non produrrà certo più lavoro. Togliere diritti e impoverire lavoratori e lavoratrici è, piuttosto, un modo per aumentare il tasso di rendimento dello sfruttamento ed è questo ciò che serve per «far ripartire il mercato». Si tratta di un utilizzo «di parte» del tempo altrui, sia per gestire le ore dei precari che si vogliono sempre disponibili e occupabili sia per procrastinare la previdenza che serve a produrre una forza lavoro just in time, sempre a disposizione a qualsiasi condizione. Insomma, le tutele crescenti sono per le aziende e più che risolvere la crisi ne normalizzano gli effetti. In altri termini mentre il tempo di chi lavora si contrae, perché il regime del salario lo costringe a lavorare a salario decrescente e senza nessun controllo sul suo tempo di lavoro e di vita, il tempo delle imprese si allunga e diviene crescentemente comodo.

La riforma sembra viaggiare a gonfie vele verso la riduzione dei contratti precari e verso la semplificazione delle forme contrattuali. Ma non è sufficiente eliminare dalla lista nera alcune forme contrattuali, se la nuova proposta in gioco produce e favorisce altrettanta precarietà. A essere semplificata è così la possibilità di sfruttare. Il lavoratore neoassunto con il contratto a tutele crescenti non avrà immediatamente diritto a quelle tutele previdenziali che vengono applicate ai contratti standard, ma le guadagnerà nel tempo. L’azienda, invece, guadagnerà nell’immediato presente: per un primo periodo – la determinazione della durata esatta di questo periodo è rimandata ai decreti attuativi – non dovrà versare i contributi per il lavoratore! È vero che le aziende dovranno pagare piena contribuzione allo Stato se risolveranno il rapporto di lavoro prima di tre anni, ma è altrettanto vero che saranno libere di licenziare senza remore, pagando semplicemente un’indennità crescente in base agli anni di lavoro ai lavoratori liquidati. L’articolo 18, infatti, verrà applicato solo per i licenziamenti discriminatori. Tutto ciò in linea con la retorica del governo secondo cui l’articolo 18 sarebbe responsabile della precarietà e della disoccupazione giovanile, in cambio del quale si propone la generalizzazione della precarietà. Taglia, sfrutta, licenzia: è questa la ricetta di stabilità del governo.

L’intenzione dichiarata è quella di eliminare i vari contratti intermittenti e precari come le collaborazioni a progetto al fine di proporre quelli a tempo indeterminato a tutele crescenti come forma «prevalente» e il contratto a tempo determinato come forma «eccezionale». È chiaro però che gli effetti del contratto a tutele crescenti cambieranno di molto se, come è probabile, continuerà a coesistere con altri contratti precari. In questo caso, si tratterebbe in sostanza di un contratto a termine con la differenza che non c’è la data di scadenza ufficiale. Stiamo parlando di un contratto che prevede un periodo di prova eccessivamente lungo dove tutele garanzie e previdenza scompaiono magicamente e solo col tempo, forse, ricompariranno. Se le piccole tutele crescono, lo sfruttamento intenso è costante. Insomma, la legge non fa altro che rendere precario il vecchio contratto a tempo indeterminato.

Quel che è certo, per esempio, è che l’utilizzo dei voucher non sarà eliminato. Come già sappiamo i voucher sono gli strumenti ideali per dirigere manovalanza intermittente, nella piena legalità, ora più che mai, considerato che il loro utilizzo verrà esteso a nuovi settori di produzione. A questo proposito si prevede un aumento del tetto dei 2000 euro per lavoratore da pagare con voucher per committente, senza che venga però toccato il tetto di 5000 euro annui totali per ciascun lavoratore. Eh già, si dovrà pur lasciare un margine a queste aziende in crisi, visto che la produzione non si riprenderà certo dall’oggi al domani e la manodopera occasionale è come una droga e dà assuefazione: una volta conosciuta è una bella comodità, difficile da abbandonare. Infatti, i lavoratori soccorrono giorno per giorno le aziende che non sono in grado di gestire la propria economia nel lungo periodo per colpa della crisi. Grazie ai voucher e all’assenza di un contratto, le suddette aziende ripiegano comodamente sul dipendente del giorno, pronto alla chiamata dell’ultimo minuto perché messo nella condizione di accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi forma di retribuzione o di contratto.

Come insegna il gioco delle tre carte, se non sta qua e non sta là, indovina un po’ dove sta. Solo che qui il trucco si vede benissimo. Non è sufficiente chiamarlo contratto a tempo indeterminato se in realtà è svuotato di tutte le sue tutele, trasformato di fatto in un contratto a tempo determinato. Non si può continuare a lasciare alle aziende un tale margine di decisione riguardo alle forme contrattuali e retributive. Ai lavoratori e alle lavoratrici nuoce gravemente la discrezionalità aziendale e non servono le buone azioni che alleggeriscono le aziende. A loro serve piuttosto un salario minimo europeo e non l’illusione di un aumento di salario forse un giorno, come potrebbe accadere con la richiesta di avere il Tfr in busta paga. Il quadro già instabile del lavoro e delle forme contrattuali sta per essere reso del tutto instabile in nome di una stabilità futura affidata al tempo e alla discrezionalità dei padroni. Tutele e diritti sembrano diventare sempre più privilegi accessori che sotto il regime del salario e con il governo della mobilità vengono eliminati del tutto o capitalizzati dalle aziende, come le tutele crescenti che distribuiscono i diritti col contagocce, garantiscono alle imprese e allo Stato un guadagno netto immediato e futuro e garantiscono la riproducibilità all’infinito di una forza lavoro just in time.

Oggi, nel giorno dell’approvazione della legge al Senato, è importante che chi non crede alle menzogne del governo e chi sa che il prezzo della ripresa è l’aumento del tasso di sfruttamento, si faccia sentire. Il segnale chiaro che migranti, precarie, operai e studenti manderanno è che non ci stanno a essere solo numeri e variabili nei bilanci delle aziende e che per loro batte il tempo dello sciopero sociale. Sappiamo però che questo tempo non segue le scadenze dell’agenda istituzionale. La vera battaglia, se vogliamo tornare a vincere qualcosa e non essere semplicemente un fastidioso controcanto, si gioca piuttosto nei luoghi di lavoro dove gli effetti di questa legge si faranno sentire sulla pelle di milioni di lavoratori e lavoratrici. Si giocherà dove la parola d’ordine dello sciopero riuscirà a diventare non solo uno slogan ma una possibilità pratica di organizzazione per chi può scioperare, ma è da anni costretto a giocare battaglie difensive e per chi non può scioperare perché la condizione di precarietà sembra impedirglielo. Il Jobs Act ha la pretesa di essere una riforma complessiva del tempo, stabilendo chi ne è il padrone, chi lo può estendere e intensificare a proprio favore, chi può legalmente espropriare il tempo altrui. La risposta non può quindi essere la lotta di un singolo momento, l’interruzione clamorosa che dura un attimo. La posta in gioco è la possibilità di interrompere il corso di questo tempo, di rovesciarlo durevolmente e in massa.

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