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24/01/2015

Le imprese temono ormai più Weidmann che Tsipras

Fa sempre impressione vedere gente sicuramente molto intelligente e con grandi competenze comportarsi da ottuso. In chi li osserva fanno sorgere il dubbio amletico “c'è o ci fa?”. Nel caso del presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, il dilemma viene declinato in modo differente, ma con lo stesso significato: dice le stupidaggini che dice perché è abbagliato dall'ideologia neoliberista che predica austerità anche mentre stai morendo di fame oppure difende interessi (nazionali, finanziari, multinazionali) che non si riesce a vedere bene?

Noi propendiamo decisamente per la seconda ipotesi, avrete notato. L'ideologia va bene per distillare frasi da ammannire a giornalisti di bocca buona, ma un governatore di banca centrale – della più potente d'Europa, peraltro – non può crederci sul serio.

Identificare gli interessi, inoltre, non è poi così difficile. L'austerità imposta ai partner europeri e in parte minore anche alla popolazione tedesca ha grandemente favorito lo stato e le imprese nazionali. Sul primo fronte, infatti, consente da anni a Berlino di finanziare il proprio debito pubblico a costo zero o addirittura guadagnandoci sopra (i tassi di interesse pagati sui Bund, anche prima di detrarre l'inflazione, sono per molti titoli negativi). Sul fronte imprenditoriale, lo strangolamento della concorrenza continentale ha spinto decisamente verso la subordinazione di buona parte della produzione industriale dell'”Europa a 28” alle filiere che fanno capo a imprese tedesche. Poi ci sarebbe da calcolare tutto il vantaggio così maturato per il sistema bancario di Berlino, e in generale per la non piccola quota di capitale multinazionale che tramite i varchi tedeschi si è aggirato per l'Europa.

Che Weidmann abbia deciso, a 24 ore dalla decisione della Bce di impugnare il bazooka, di “raffreddare gli entusiasmi” esternando i propri “timori” sulle possibili conseguenze indesiderate della manovra espansiva di Francoforte (“non vorrei che ci fosse una minore pressione sui governi di Italia e Francia perché facciano le riforme”), è apparso a molti una provocazione intollerabile. Ma come?! Hai votato anche tu per il quantitative easing, dopo aver ottenuto che la “condivisione del rischio” fosse ridotta ad appena il 20% della manovra proposta da Draghi (in realtà soltanto l'8%), e il giorno dopo te ne esci così?! Roba da convincere anche i sordi sul fatto che di “unione” non si potrà mai davvero parlare, con gravi ricadute depressive sulla “fiducia” che state cercando di insufflare...

Di certo non è andata giù a Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia, quindi il più consapevole di tutti che a rischiare saranno fondamentalmente le banche centrali dei paesi già a rischio. Banalmente. Se la “condivisione” collettiva è rimasta assai bassa, la maggior parte (l'80%) viene scaricata su quel groppone lì. E quindi si è messo a spiegare a tutti i presenti al Forum di Davos – la platea di quelli che fanno e disfano “i mercati” – che "La minore incertezza che deriverà dal Qe porrà le basi per rendere meno costosa la realizzazione delle riforme, attualmente frenate dalle condizioni cicliche avverse". L'esatto opposto del teorema di Weidmann.

Impossibile, per tecnico di alto livello come lui, non ammettere che avrebbe preferito "una piena condivisione dei rischi, coerentemente con l'obiettivo di ridurre ulteriormente la frammentazione finanziaria dell'area. La rilevanza della questione della condivisione dei rischi è comunque ridotta dalle scelte compiute sulla notevole ampiezza della manovra e sulla sua immediata attuazione". Ma in ogni caso "non bisogna dimenticare che l'operazione è open-ended", di durata imprecisata, finché "l'inflazione non sarà in linea con l'obiettivo".

Pone quasi incidentalmente il nodo politico vero: "Tutti sanno che alla fine dovremo condividere i rischi, perché siamo un'Unione Europea e dobbiamo avere fiducia, dobbiamo costruire questa fiducia. Il problema è che non siamo ancora un'unione fiscale". Anatema, per le orecchie tedesche...

Quanto alle “riforme da fare”, Visco non poteva che tagliare corto, ponendo anche qui un altro problema politico gigantesco in forma molto soft: in Italia le riforme "stanno andando avanti e noi lo consideriamo positivamente", ma "il problema in Italia è quello di attuarle e su quello il governo sarà giudicato". Non ha spiegato “da chi”, e non è un aspetto secondario. Di sicuro non si riferiva alla popolazione di questo paese, che un proprio giudizio molto negativo se lo sta facendo; non resta dunque che guardare ai “mercati”, che saranno certamente molto più impietosi se valuteranno “deludenti” o “poco coraggiose” le riforme strutturali che pretendono.

Poi c'è il solito caos di interpretazioni sui dettagli del quantitative easing della Bce, con Zingales – economista-opinionista tra i più prolifici – che toppa clamorosamente sulla possibilità di acquisto dei titoli di stato italiani (secondo la sua versione non verrebbero comprati se il rating scende ulteriormente) e si becca la smentita in diretta da parte di Visco. Per ricordarvi: non fidatevi di quel che scrivono sui giornali certi “esperti”...

Alla fine, quando cala la polvere, si fanno scoperte sorprendenti. Addirittura si vede il quotidiano di Confindustria tifare per la vittoria di Tsipras:
Dopo sei anni di crisi che non passa, con l’Eurozona stremata da una crescita al lumicino regolarmente ridimensionata dalla varie previsioni internazionali, da una disoccupazione che investe 26 milioni di persone eguagliando la somma della popolazione di Belgio e Olanda, dalla deflazione con la caduta media dei prezzi dello 0,2% in dicembre per la prima volta dal 2009, dall’euroscetticismo che avanza dovunque minando la tenuta dei partiti tradizionali e la stabilità dei Governi.

Dopo questa lunga prova provata che la politica fin qui seguita ha abbattuto il deficit medio (2,3%) ma non il debito (95%) penalizzando comunque seriamente lo sviluppo, non è affatto escluso che proprio dalle imminenti elezioni ad Atene arrivi lo shock politico capace di imprimere una sterzata costruttiva alla governance europea, oggi in mezzo al guado.
Tutto vero, per carità, specie se si guarda ai dati prodotti da cinque anni di applicazione dei diktat provenienti da Bce, Fmi, Unione Europea e in specifico da Berlino:
La troika ne ha applicato le direttive diventando l’incubo dell’Eurozona, il moloch anti-democratico da combattere e distruggere. I dati dicono che in 5 anni la Grecia ha perso il 25% del Pil, ha visto salire i disoccupati al 25%, i giovani al 55% insieme alla fuga massiccia di cervelli (150.000 persone). Però il debito, che doveva scendere, è schizzato dal 125 a quasi il 180%. «Nemmeno dopo la guerra avevamo vissuto una simile recessione» denuncia Dimitrios Papadimoulis, sinistra radicale, vicepresidente dell’Europarlamento.

Per questo di fatto è l’Europa il grande elettore di Syriza, l’Europa che ha sconfitto l’attuale Governo di centro-destra negandogli le concessioni che presto sarà costretto a fare al suo successore. Il partito di Alexis Tsipras, in testa ai sondaggi promettendo la fine dell’austerità e il rinegoziato sul debito, è il figlio naturale di questi errori molto più che la creatura riuscita di un abile populista.
Il giro è completo: la forza delle cose (economiche) conduce il giornale delle imprese a sperare che sia “il sovversivo” a realizzare il miracolo che a loro proprio non è riuscito: mettere la governance europea davanti al fallimento di una politica che produce l'opposto di quel che promette. Altro che eterogenesi dei fini...

Paradossalmente, infatti, la minaccia più consistente per l'edificio unitario ha preso le sembianze del conservatorismo di destra, con forti venature fasciste, nazionaliste, xenofobe. E l'unico modo di conservare l'edificio – questo il senso dell'argomentazione di Adriana Cerretelli – è di cambiare politica sull'onda del quantitative easing, permettendo quella “flessibilità sui bilanci nazionali” che i trattati (a cominciare dal Fiscal Compact, ormai teoricamente in vigore) vietano esplicitamente.

Si fa insomma strada un “riformismo padronale” che cerca di avvantaggiarsi delle possibili vittorie del “riformismo popolare” (Syriza, Podemos) per ridurre la pressione del “conservatorismo stupido” alimentato – per somma contraddizione – proprio da quei “guardiani dell'ortodossia” neoliberista che siedono nei centri di comando continentali.

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