Una buona notizia dall’Egitto: uno
dei giornalisti di Al Jazeera detenuti dal dicembre 2013, Peter Greste,
è stato liberato ieri e deportato in Australia. La brutta notizia è che
i due colleghi, Mohamed Fadel Fahmy e Baher Mohamed, restano dietro le
sbarre. Tutti e tre erano stati condannati più di un anno fa
alla prigione con l’accusa di sostenere i Fratelli Musulmani, contro i
quali il presidente al-Sisi ha lanciato una vera e propria crociata.
La campagna anti-islamista lanciata dopo il golpe del 3 luglio 2013,
che ha deposto il presidente eletto Morsi (ancora in prigione) prosegue
spedita, accompagnata dalla dura repressione delle voci critiche da
parte del Cairo. Secondo un nuovo rapporto di Amnesty
International pubblicato ieri, le autorità egiziane sono colpevoli di
intimidazioni e insabbiamento delle prove contro le forze di sicurezza
responsabili dell’uccisione in tre giorni di 27 manifestanti durante l’anniversario della rivoluzione, lo scorso 25 gennaio.
La polizia, scrive Amnesty, ha usato forza eccessiva per disperdere
le manifestazioni, provocando la morte – tra gli altri – della nota
attivista Shaimaa el-Sabbagh, di una 17enne e di un bambino di soli 10
anni. Basandosi sulle testimonianze dei presenti, su foto e video girati
durante gli scontri, Amnesty accusa il Cairo di aver aperto il
fuoco “indiscriminatamente contro folle di manifestanti che non
rappresentavano alcuna minaccia”. Centinaia di manifestanti
sono stati arrestati e non hanno avuto accesso ai propri legali per
oltre 24 ore, una violazione della stessa legge egiziana.
Alle repressioni interne si aggiunge la campagna anti-islamista
fuori: dopo aver preso una serie di dure misure restrittive contro la
Striscia di Gaza (dalla distruzione dei tunnel sotterranei alla chiusura
del valico di Rafah, fino alla creazione di una zona cuscinetto), sabato
scorso la corte egiziana del Cairo ha inserito Hamas – braccio
palestinese della Fratellanza Musulmana – e le Brigate al Qassam nella
lista delle organizzazioni terroristiche. “Rigettiamo la
decisione della corte – ha commentato il portavoce di Hamas, Sami Abu
Zuhri – Una decisione politica e pericolosa che aiuta l’occupazione
sionista”.
Al-Sisi reputa Hamas tra i responsabili della grave instabilità che
da anni regna nella Penisola del Sinai, seppure il movimento palestinese
abbia sempre rigettato le accuse. Una fonte vicina alla
leadership di Hamas ha fatto sapere che, dopo la sentenza della corte,
“l’Egitto non può più essere considerato un mediatore legittimo in
merito alla questione israelo-palestinese”. Un ruolo che al-Sisi ha
saputo sfruttare a proprio favore, durante l’ultimo sanguinoso attacco
israeliano contro la Striscia di Gaza: a differenza del
predecessore Morsi, l’ex generale ha costretto Hamas ad accettare un
cessate il fuoco fine a se stesso, senza ottenere in cambio nessun tipo
di alleviamento dell’assedio.
A favore della campagna di al-Sisi, che trova sempre maggiore
consenso tra i media e l’opinione pubblica egiziani, le ripetute azioni
compiute da miliziani islamisti in Sinai. L’ultimo si è verificato
giovedì notte, quando una serie di attacchi ha colpito diverse città
della regione, uccidendo 32 membri delle forze militari egiziane. A
rivendicare l’attacco è stata l’organizzazione Ansar Beit al-Maqdis, da
poco affiliatasi all’Isis di al-Baghdadi. Ieri gli scontri sono ripresi: tre donne sono morte a Rafah,
due colpite dall’esplosione di una granata, lanciata da miliziani
contro un checkpoint militare, e una terza uccisa durante un confronto a
fuoco tra islamisti e esercito egiziano.
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