Alla fine Ilan Pappé ha parlato. Scavalcando la cancellazione della
conferenza «Europa e Medio Oriente oltre gli identitarismi», che avrebbe
dovuto essere ospitata dall’Università di Roma Tre, il professore
dell’Università di Exter, uno dei più noti storici israeliani, ha
incontrato il pubblico romano lunedì al Centro Congressi Frentani su
iniziativa di AssoPace.
Lo abbiamo incontrato e discusso con lui del concetto di identità e del suo utilizzo da parte occidentale e israeliana.
L’avanzata dello Stato Islamico viene strumentalizzata in
Occidente per dare fondamento al cosiddetto scontro di civiltà, in
chiave neo-colonialista. Israele, Stato nato come bastione occidentale
in Medio Oriente, otterrà maggiore supporto a scapito delle aspirazioni
palestinesi?
Assolutamente sì. Lo Stato Islamico è la miglior cosa che potesse
capitare a Israele. Con il califfato si risolleva la voce di coloro per
i quali esiste un solo Stato illuminato in Medio Oriente, Israele,
baluardo contro l’avanzata dell’estremismo islamico. Spero che in
Occidente la gente non cada in un trucco tanto meschino: non si tratta
affatto di uno scontro di civiltà, ma di giustizia sociale e modelli
democratici di integrazione. Basta guardare a come l’Isis attira giovani
musulmani europei andando a pescare tra i gruppi più oppressi e
marginalizzati. Non stiamo parlando di una questione culturale e
religiosa, ma sociale ed economica: se in Europa si assistesse ad una
trasformazione democratica, se si impedisse a ideologie razziste e
pratiche capitaliste di determinare l’esistenza della gente, gruppi come
l’Isis non troverebbero spazio. L’Isis non ha terreno fertile dove la
gente si sente integrata, dove è uguale a livello sociale ed economico.
Per questo è necessaria un’analisi approfondita dell’imperialismo
occidentale e del movimento sionista per combattere le simpatie che i
musulmani europei accordano a gruppi radicali. Se sei un marginalizzato o
un escluso trovi nell’identità musulmana lo strumento per migliorare la
tua esistenza. La stragrande maggioranza degli oppressi non reagisce
così, ma alcuni individui optano per la violenza, in ogni caso minima
rispetto a quella dell’oppressore. Così si allarga lo Stato Islamico,
questo mostro che l’Occidente ha fabbricato, novello Frankenstein che si
ribella al suo creatore.
La prolungata occupazione della Palestina e di un simbolo
religioso e identitario come Gerusalemme rappresenta un mezzo di
radicamento di gruppi come lo Stato Islamico? Che ruolo ha nella
propaganda islamista la Palestina?
Se il conflitto israelo-palestinese venisse risolto in modo giusto,
il Medio Oriente cambierebbe faccia. L’occupazione della Palestina è
una delle principali giustificazioni per chi ha simpatie islamiste,
perché è il simbolo del doppio standard che l’Occidente applica a chi
viola i diritti umani fondamentali. Un cambiamento dell’approccio
europeo verso il popolo palestinese intaccherebbe il potere della
propaganda islamista. Senza Palestina la giustificazione dell’esistenza
dell’Isis non sarebbe tanto forte.
Il premier israeliano Netanyahu ha messo sul tavolo 46
milioni di dollari per spingere ebrei di Francia, Danimarca e Ucraina a
immigrare in Israele, sfruttando i recenti attacchi e la guerra a Kiev.
Un nuovo video per la campagna elettorale del Likud usa la minaccia Isis
per accaparrarsi voti. Un chiaro utilizzo dell’identità in contrasto
per rafforzarsi all’interno?
Netanyahu è un cinico, sfrutta tali eventi in chiave elettorale per
costringere la sua opinione pubblica a focalizzare l’attenzione sul
nemico esterno, invece che sulle questioni economiche e sociali. È ovvio
che il messaggio non è diretto agli ebrei europei, ma all’interno, ai
cittadini israeliani. Purtroppo può funzionare: Netanyahu ha deluso
buona parte del suo elettorato storico, ma è probabilmente l’unico in
grado di guidare una coalizione composta da tanti partitini. Forse non
subito, ma poco dopo le elezioni sarà scelto di nuovo come premier.
Il sionismo, da prima la nascita di Israele, punta
sull’identità ebraica per cancellare quella palestinese ma anche per
tenere insieme una società frammentata. Quali sono oggi le
caratteristiche della società israeliana?
Ciò che è cambiato rispetto al passato è che le caratteristiche più
profonde della società israeliana, che prima erano meno palesi, oggi
sono uscite allo scoperto: razzismo e polarizzazione economica e sociale
sono cresciuti come mai prima. Il gap socio-economico è il terreno
migliore per ideologie estremiste. I gruppi più marginalizzati, in
particolare gli ebrei originari del Medio Oriente e dell’Africa, sono
più facilmente reclutabili dalla destra. Ed infatti cuore del dibattito
elettorale non è la questione sociale e economica, ma lo scontro tra
identità. La società è più razzista, più estremista, priva di
solidarietà interna anche verso altri ebrei, fondata sull’odio verso il
diverso. È un veleno per le future generazioni.
Lei ha definito l’ultimo attacco contro Gaza «genocidio
incrementale». Perché Israele colpisce Gaza, enclave impoverita, terra
che Israele non vuole annettere? Volontà di spezzare la resistenza o
mero strumento di caccia al consenso tramite la paura?
Se la gente di Gaza accettasse di vivere in un ghetto, Israele la
dimenticherebbe. Ma Gaza resiste e quando Israele decide che è tempo di
reagire a tale resistenza mette in campo la forza militare, che in
un’enclave come la Striscia significa genocidio. In secondo luogo, c’è
l’immenso business dell’industria militare, con Gaza a fare da
laboratorio per le armi da vendere fuori. Terzo, la convinzione
dell’esercito israeliano per cui il mondo arabo non prende sul serio la
macchina da guerra di Tel Aviv: attaccando Gaza Israele manda un
messaggio a Iran, Siria, Hezbollah.
Qual era l’obiettivo dell’attacco israeliano a Hezbollah nel
sud della Siria il 18 gennaio? Aprire un nuovo fronte o inviare,
appunto, un messaggio all’asse sciita, che sta – con l’esercito di
Damasco, pasdaran e Hezbollah – avanzando a sud e con l’Iran che
intreccia nuove relazioni con Hamas?
Il governo ha camminato lungo quella linea rossa, sottilissima, che
separa la guerra dalla non guerra. Ha finto di voler attaccare, sapendo
benissimo di non volerlo fare. Netanyahu punta sulla paura della guerra,
non sulla guerra: la prima fa prendere voti, la seconda no. Israele non
ha il potere di sradicare Hezbollah dal Libano, intende solo alzare la
tensione, togliere l’attenzione dal prezzo delle case, del latte, della
vita.
Pare che l’Università di Roma Tre abbia annullato l’incontro
di lunedì dietro presunte pressioni della comunità ebraica. La censura è
lo strumento di chi teme il confronto: perché si ha paura di parlare
della questione israelo-palestinese?
Sospettiamo che ci sia stata una pressione, seppure non abbiamo prove
dirette. In Europa ci si sente ancora responsabili dell’Olocausto e i
palestinesi ne pagano il prezzo. Il sionismo ha offerto all’Europa la
migliore soluzione: invece di aprire una discussione sincera sulla
questione ebraica, si è preferito puntare sul progetto sionista e la
colonizzazione della Palestina. Inoltre la lobby ebraica è potente: non
si parla di Palestina per timore di perdere aiuti economici o politici.
C’è però un elemento positivo: la società civile italiana e europea
ha modificato l’approccio alla questione, distanziandosi dalle élite
politiche. Molti sanno cosa accade in Palestina e sostengono la sua
causa perché si tratta di una causa semplice: lotta al colonialismo e
difesa dei diritti umani.
Un approccio che manca invece all’interno di buona parte della sinistra italiana e europea.
La sinistra in Francia, Italia e Germania è sionista perché non
intende affrontare – seppur ne abbia il dovere – la questione ebraica.
Avendo paura di farlo, preferisce nascondersi sotto l’ala confortevole
del sionismo, ergerlo a soluzione negando i diritti del popolo
palestinese, per loro sacrificabili. È vero anche che la sinistra si
scopre razzista quando affronta culture non europee, per cui è meglio
l’ebraismo del mondo arabo o dell’Islam. Eppure oggi centrale non è il
giudaismo, ma l’islamofobia, ovvero la paura di popoli che l’Europa ha
oppresso e colonizzato per secoli. Affrontare tale dibattito,
all’interno di un contesto di sano multiculturalismo, non è un processo
facile ma va fatto. Ed invece no, si continua sul sentiero del
colonialismo. Con altri mezzi.
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