Sono passati pochi giorni dalla vittoria di Syriza e all'entusiasmo iniziale si è sostituito un clima di attesa. In molti, specie nell'Europa del sud, sono immediatamente saltati sul carro del vincitore, con i trasformisti italiani ovviamente in prima fila. Non che questi abbiano qualcosa a che spartire con Tsipras e compagni, ma tutti sperano di poter ottenere qualcosa dal punto di vista dell'allentamento delle misure asfissianti imposte da Bruxelles (di cui sono stati spesso pronti esecutori), che stanno velocemente stroncando la loro popolarità. E poi si sa, il clima trionfalistico della vittoria porta sempre sorrisi e buon umore. In Francia ha esultato addirittura Marine Le Pen, tralasciando completamente qualunque considerazione sull'ideologia che anima Syriza, diametralmente opposta alla sua.
A Bruxelles e a Berlino, invece, la notizia non è ovviamente piaciuta per nulla, e molte voci si sono levate a ribadire che gli impegni già presi vanno rispettati.
Ciò che stupisce è il semi-silenzio con cui la notizia è stata accolta nel Regno Unito. Sono passati pochi mesi da quando tutto l'establishment dominante si era mobilitato contro la possibilità dell'indipendenza scozzese, similmente a come si sono mobilitati i falchi dell'UE contro la (allora solo possibile) vittoria di Tsipras. In quell'occasione, con minacce costanti e con il supporto della stessa UE, che aveva messo in discussione un possibile ingresso nell'Unione di una Scozia indipendente, avevano centrato l'obiettivo. Nelle settimane precedenti le elezioni greche e nei giorni successivi invece non vi sono state particolari azioni/reazioni.
Il presidente Cameron si è limitato ad affermare in un tweet (anche loro hanno questa “malattia”) che le elezioni greche aumenteranno l'incertezza all'interno dell'Europa. Molto tiepida anche la reazione del leader laburista Miliband, il cui prolungato silenzio dopo le elezioni cominciava a farsi piuttosto rumoroso. Alla fine si è limitato ad un generico richiamo al diritto del popolo a scegliere la propria strada per affrontare i problemi sociali ed economici, senza dispensare alcun complimento o le ordinarie congratulazioni al vincitore. Ciò risulta più chiaro se si considera che il Green Party, dato ora intorno al 10%, sta rubando consensi ai laburisti proprio grazie al suo messaggio anti-austerità; e infatti, in una dichiarazione congiunta, Taylor e Scott Cato (membri per l'appunto del Green Party) hanno accolto con entusiasmo la vittoria di Tsipras.
Se tali reazioni sono piuttosto comprensibili, considerando che a maggio vi saranno le elezioni, e quindi le mosse dei principali politici vanno lette soprattutto in chiave elettoralistica, ciò che più stupisce sono le esternazioni di Mark Carney, presidente della Banca d'Inghilterra.
Dopo il Financial Times ed Il Sole 24 Ore, un esponente padronale si ritrova ad attaccare le politiche di austerità dell'eurozona ed a congratularsi con Syriza (qui l'articolo del Guardian).
Carney ha attaccato frontalmente le politiche di austerità dell'UE, ha criticato la mancata integrazione fiscale e del mercato dei capitali; in seguito alla costruzione di una moneta unica bisognava, a suo avviso, procedere sulla strada dell'integrazione dei singoli sistemi nazionali. Dure anche le parole sul programma di sviluppo della competitività tramite la svalutazione interna, che ha il solo effetto di riallocare la domanda all'interno della zona euro, ma non di rilanciare la domanda aggregata; giudizio negativo anche per l'incapacità di utilizzare, a fronte di un tasso di disoccupazione dell'11,5%, lo strumento del deficit fiscale.
Cerchiamo di provare a comprendere queste reazioni in sordina e l'attacco di Carney.
Innanzitutto bisogna considerare che l'Inghilterra non è tra i creditori esposti verso il debito greco. Essa infatti non fa parte dell'ESM, il cosiddetto fondo salva-stati, dato che non ha adottato la moneta unica; situazione completamente opposta a quella di Germania, Francia, Italia, Spagna e Olanda, che sono, nell'ordine, i creditori più esposti.
Ma l'elemento determinante per valutare le reazioni di Londra, così come quello degli altri paesi dell'Unione, è quello della strategia politica. L'Inghilterra, in virtù della sua partecipazione ibrida all'UE, resta a lato della partita che si sta giocando ora sul futuro indirizzo politico dell'Unione. In primo luogo in Inghilterra la crisi si manifesta in maniera meno accentuata che negli altri paesi o, meglio, i settori popolari sono stati già pesantemente massacrati negli anni '80 dalle “riforme” della Thatcher e sono da allora costretti a standard di vita molto bassi e ad un welfare molto limitato (il tasso di persone sotto la soglia della povertà supera il 20%). In altre parole, la visione neoliberale, di cui l'Inghilterra è stato fulcro di elaborazione ed attuazione, è già da tempo inverata nella realtà quotidiana e non è messa in discussione da settori consistenti del panorama politico.
Se la costruzione dell'Unione Europea, specie da Maastricht in poi, ha spostato il centro del comando, specie nell'Europa continentale, sull'asse Bruxelles-Berlino, imponendo la distruzione del "modello sociale" europeo e il dominio di politiche neoliberali, veicolate come necessarie e sacralizzate nei ferrei vincoli dei Trattati, in Inghilterra tali misure erano state prese da più di un decennio. Riassumendo, la sfida lanciata da Tsipras all'austerità e al neoliberismo si radica soprattutto all'interno del contesto dell'Europa continentale. A rafforzamento di tale ipotesi, si ricordi che da almeno un anno Cameron discute di una possibile uscita dall'UE (il conflitto riguarda soprattutto l'immigrazione di lavoratori dagli altri stati europei).
Infine vogliamo sottolineare che le parole del presidente della Banca d'Inghilterra sono da interpretare con attenzione: la critica che si rivolge alle politiche dell'UE non incitano a politiche favorevoli alle classi subalterne, ma soprattutto ad una maggiore integrazione dei sistemi fiscali e del mercato dei capitali, seguendo il modello del Regno Unito e degli Stati Uniti, propagandati come sistemi che hanno saputo superare la crisi e che funzionano correttamente. La partita è quella che si gioca nell'UE da trent'anni sull'integrazione del mercato dei capitali e sulle caratteristiche del modello di economia di mercato (lo scontro ventennale sulla direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto è un buon esempio di tale "battaglia"). Ma su questo punto gli stati continentali e soprattutto la Germania si sono dimostrati piuttosto refrattari. Allargando la visuale, la questione si può leggere nell'ottica della costruzione del polo imperialista europeo, delle sue caratteristiche e della relazione di collaborazione/competizione con quello statunitense: il ruolo e la posizione del Regno Unito non è ancora determinata chiaramente.
Come nota finale segnaliamo che ieri Varoufakis è volato a Londra per incontrare il politico conservatore Osborne e alcuni banchieri della City. Mentre l'immaginario piccolo borghese dei media mainstream continua ad essere solleticato dalla camicia fuori dai pantaloni, è utile riportare che Osborne ha definito il debito greco come “il più grosso rischio per l'economia globale”; ha invitato Varoufakis ad “agire responsabilmente”, ma, al tempo stesso, ha affermato che l'eurozona “deve avere un piano migliore per crescita e occupazione” poiché la situazione del'UE “è una crescente minaccia per la Gran Bretagna”. Le sue parole seguono dunque il solco tracciato da Barack Obama. Nelle prossime settimane vedremo cosa decideranno nelle stanze del potere di Berlino e Bruxelles e se la reazione di Atene sarà all’altezza della sfida lanciata alla Troika.
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