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14/05/2015

Egitto: deriva autoritaria e disparità economiche

Di Wael Eskandar-Daily News Egypt *
(traduzione di Romana Rubeo)

Se analizzata a fondo, la situazione egiziana presenta più di qualche caratteristica allarmante. Sulle prime, infatti, lo schiacciante consenso ottenuto dal Presidente Abdel Fattah Al-Sisi aveva fatto sperare gli osservatori in un futuro caratterizzato da una sostanziale stabilità, nella convinzione che gli egiziani fossero disposti a sopportare le drammatiche condizioni economiche e a riporre la loro fiducia nella giunta militare che governa il Paese. In realtà, questa previsione si è rivelata piuttosto miope, e i segnali di cedimento emergono con sempre maggiore chiarezza, giorno dopo giorno.

Al momento, tutte le politiche sono indirizzate a questioni economiche di ordine generale, mentre l’attenzione dovrebbe spostarsi sulla disparità sociale in Egitto, che ha contribuito in misura determinante alle proteste di massa che si sono scatenate. L’aggettivo “sociale” non si riferisce solo alla disparità economica, ma ai tanti privilegi concessi a pochi e da cui la maggioranza è esclusa. La disuguaglianza di reddito non è che la punta dell’iceberg. Le disparità riguardano l’istruzione, il salario, le opportunità professionali, le cariche governative, le opportunità di fare impresa, l’equo processo e la visibilità sui media: l’accesso ai diritti varia enormemente in base al genere, alla classe sociale, alla provenienza geografica, alla religione, al colore della pelle, alle relazioni familiari e alle convinzioni politiche.

Data la situazione attuale, è difficile prevedere un miglioramento nel prossimo futuro. Se si tralasciano le complicate teorie che sono alla base delle politiche attuali e ci si basa su un punto di vista più pragmatico, si vedrà che nessuna delle politiche economiche attuate finora, in Egitto come in altri Paesi con un contesto simile, ha realmente favorito i diritti sociali o contribuito alla riduzione delle diseguaglianze economiche, in larga misura responsabili della tensione sociale nel Paese.

È innegabile che la disoccupazione sia molto diffusa e che non esistano vere opportunità professionali. Pur non volendo considerare la qualità dell’offerta, il mercato del lavoro non garantisce posizioni adeguate ai livelli d'istruzione dei candidati. Se questa situazione dovesse permanere, il malcontento si diffonderebbe e la popolazione, composta in larga parte da giovani e stanca di credere in generiche promesse di miglioramento, potrebbe avere una forte reazione collettiva.

È ragionevole sostenere che la Rivoluzione del 25 gennaio sia stata causata dalla disparità sociale fin qui descritta, ma il suo esito aveva consentito alla classe media istruita di imporre una sua retorica e costruire il sogno utopistico al motto di “pane, libertà, giustizia sociale e dignità umana”. Era proprio la dignità umana il motore principale delle proteste; unita agli altri fattori, aveva determinato proteste responsabili, anche molto dure contro l’oppressore, ma con un senso di collettività teso all’individuazione del bene comune di una nuova comunità che si andava formando. In quel contesto, i giovani hanno saputo elaborare un forte senso della morale, e per un certo lasso di tempo sono riusciti a piegare la retorica fallace dell’oppressore.

Ma attualmente, le cose sono molto diverse. La vecchia narrazione è ancora in piedi e il dissenso è punito con metodi ancora più brutali. Le istituzioni statali agiscono in preda a un desiderio di vendetta e sembrano intenzionate a distruggere il sogno di un Egitto democratico e libero dalla corruzione. Purtroppo, i tentativi di colpire quel sogno sembrano efficaci, e ai giovani resta davvero un ridotto margine di manovra.

Si assiste a una spinta verso la glorificazione dello stato e all’accettazione dell’idea di un cittadino egiziano privato della sua dignità. L’attenzione si è spostata sul “pane” e sulla crescita economica: libertà e dignità umana sono ormai del tutto marginali. Il pericolo è che le nuove forme di opposizione non tengano conto degli ideali più nobili: le proteste come forma di cambiamento pacifico, un uso della forza legittimo e limitato solo alle istituzioni preposte, la libertà di espressione, il diritto a un processo equo e a una giustizia di transizione.

Solo invocando la dignità e la giustizia per tutti si potrà orientare il cambiamento nella giusta direzione. Il vero pericolo del tramonto del sogno rivoluzionario è la creazione di un’opposizione più autoreferenziale, più incline ad accettare violenze e spargimenti di sangue, meno interessata alla giustizia e ispirata a un forte desiderio di vendetta. Tutti elementi che riscontriamo in alcuni gruppi Islamisti, che non trovano spazio nel campo delle forme pacifiche di protesta e radicalizzano le loro posizioni in risposta alle ingiustizie di cui sono vittime. Allo stesso modo, i maltrattamenti, le umiliazioni e la deportazione dei cittadini del Sinai del Nord da parte dello Stato Egiziano sta favorendo la diffusione del fondamentalismo in quella regione.

Non è da escludere che a breve, la popolazione si mobiliterà con meccanismi simili, non abbracciando il fondamentalismo islamico, ma sotto forma di bande criminali, per commettere atti di violenza.

Vista la decadenza dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, è improbabile che tali fenomeni possano essere contenuti o dominati. Se lo Stato vuole sopravvivere, deve necessariamente procedere a una riforma istituzionale. Finora, questo processo è stato ritardato creando un nemico esterno, o anche ventilando ipotesi di possibili scenari di guerra. Ma questo è solo un contentino, che non basterà a contenere la rabbia che esploderà se non si cambia drasticamente rotta.

Quando l’Afghanistan si è ribellato, con il sostegno degli Stati Uniti, ed è riuscito a respingere le truppe sovietiche, gli Americani non hanno investito nella scuola per sanare i danni causati dalla guerra. Questo ha portato a una cultura marcatamente jihadista e ha contribuito alla creazione di gruppi terroristici, che poi hanno dato filo da torcere agli Stati Uniti. Sicuramente, la situazione egiziana non è così drammatica, ma si dovrebbe trarre un insegnamento da quell’esperienza. Se l’unico flusso di denaro è legato alle armi e i grandi progetti non sono tesi a creare una cultura di giustizia, formazione e rimozione degli ostacoli che non permettono la piena eguaglianza sociale, le società andranno inevitabilmente incontro a un peggioramento.

L’Egitto attuale potrebbe trasformarsi in una terra di illegalità, in cui le istituzioni gestirebbero la loro personale mafia e i cittadini comuni farebbero altrettanto, mettendosi gli uni contro gli altri per accaparrarsi le risorse, invece di organizzarsi per redistribuirle. Gli investitori dovrebbero sborsare ingenti somme ai governi corrotti e avrebbero bisogno di intrecciare rapporti con gruppi di potere locali per proteggere le loro imprese. L’arma della legge potrebbe essere usata contro i cittadini, gli imprenditori e gli studenti e diventerebbe solo uno strumento punitivo e non un sistema di tutela dei diritti. I cittadini, non sentendosi protetti dalla legge, cercherebbero di organizzarsi in modo informale, con canali di sicurezza parastatali.

Sono queste le problematiche legate al restringimento degli spazi aperti dall’esplosione del 25 gennaio 2011 e basta avere un minimo di lungimiranza per cogliere appieno i pericoli che si nascondono dietro queste tendenze. Lasciando che all’interno della società egiziana prevalgano le disuguaglianze, l’attuale regime sta determinando una situazione di maggiore instabilità, che può assumere risvolti anche molto pericolosi.

Chi ha il potere di cambiare le cose sta invece incoraggiando i guadagni economici a breve termine mettendo a rischio la stabilità e il futuro dell’Egitto. Tra questi soggetti, ci sono i governi della comunità internazionale che sostengono un regime che uccide, incarcera e compie gesti intimidatori nei confronti di chi invoca un cambiamento pacifico.

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