Di Wael Eskandar-Daily News Egypt *
(traduzione di Romana Rubeo)
Se analizzata a fondo, la situazione egiziana presenta più di qualche
caratteristica allarmante. Sulle prime, infatti, lo schiacciante
consenso ottenuto dal Presidente Abdel Fattah Al-Sisi
aveva fatto sperare gli osservatori in un futuro caratterizzato da una
sostanziale stabilità, nella convinzione che gli egiziani fossero
disposti a sopportare le drammatiche condizioni economiche e a riporre
la loro fiducia nella giunta militare che governa il Paese. In realtà,
questa previsione si è rivelata piuttosto miope, e i segnali di
cedimento emergono con sempre maggiore chiarezza, giorno dopo giorno.
Al momento, tutte le politiche sono indirizzate a questioni
economiche di ordine generale, mentre l’attenzione dovrebbe spostarsi
sulla disparità sociale in Egitto, che ha contribuito in misura
determinante alle proteste di massa che si sono scatenate.
L’aggettivo “sociale” non si riferisce solo alla disparità economica, ma
ai tanti privilegi concessi a pochi e da cui la maggioranza è esclusa. La disuguaglianza di reddito non è che la punta dell’iceberg.
Le disparità riguardano l’istruzione, il salario, le opportunità
professionali, le cariche governative, le opportunità di fare impresa,
l’equo processo e la visibilità sui media: l’accesso ai diritti varia
enormemente in base al genere, alla classe sociale, alla provenienza
geografica, alla religione, al colore della pelle, alle relazioni
familiari e alle convinzioni politiche.
Data la situazione attuale, è difficile prevedere un miglioramento nel prossimo futuro.
Se si tralasciano le complicate teorie che sono alla base delle
politiche attuali e ci si basa su un punto di vista più pragmatico, si
vedrà che nessuna delle politiche economiche attuate finora, in Egitto
come in altri Paesi con un contesto simile, ha realmente favorito i
diritti sociali o contribuito alla riduzione delle diseguaglianze
economiche, in larga misura responsabili della tensione sociale nel
Paese.
È innegabile che la disoccupazione sia molto diffusa e che non esistano vere opportunità professionali.
Pur non volendo considerare la qualità dell’offerta, il mercato del
lavoro non garantisce posizioni adeguate ai livelli d'istruzione dei
candidati. Se questa situazione dovesse permanere, il malcontento si
diffonderebbe e la popolazione, composta in larga parte da giovani e
stanca di credere in generiche promesse di miglioramento, potrebbe avere
una forte reazione collettiva.
È ragionevole sostenere che la Rivoluzione del 25 gennaio sia
stata causata dalla disparità sociale fin qui descritta, ma il suo
esito aveva consentito alla classe media istruita di imporre una sua
retorica e costruire il sogno utopistico al motto di “pane, libertà,
giustizia sociale e dignità umana”. Era proprio la dignità
umana il motore principale delle proteste; unita agli altri fattori,
aveva determinato proteste responsabili, anche molto dure contro
l’oppressore, ma con un senso di collettività teso all’individuazione
del bene comune di una nuova comunità che si andava formando. In quel
contesto, i giovani hanno saputo elaborare un forte senso della morale, e
per un certo lasso di tempo sono riusciti a piegare la retorica fallace
dell’oppressore.
Ma attualmente, le cose sono molto diverse. La
vecchia narrazione è ancora in piedi e il dissenso è punito con metodi
ancora più brutali. Le istituzioni statali agiscono in preda a un
desiderio di vendetta e sembrano intenzionate a distruggere il sogno di
un Egitto democratico e libero dalla corruzione. Purtroppo, i tentativi
di colpire quel sogno sembrano efficaci, e ai giovani resta davvero un
ridotto margine di manovra.
Si assiste a una spinta verso la glorificazione dello stato e
all’accettazione dell’idea di un cittadino egiziano privato della sua
dignità. L’attenzione si è spostata sul “pane” e sulla crescita
economica: libertà e dignità umana sono ormai del tutto marginali. Il
pericolo è che le nuove forme di opposizione non tengano conto degli
ideali più nobili: le proteste come forma di cambiamento pacifico, un
uso della forza legittimo e limitato solo alle istituzioni preposte, la
libertà di espressione, il diritto a un processo equo e a una giustizia
di transizione.
Solo invocando la dignità e la giustizia per tutti si potrà orientare il cambiamento nella giusta direzione.
Il vero pericolo del tramonto del sogno rivoluzionario è la creazione
di un’opposizione più autoreferenziale, più incline ad accettare
violenze e spargimenti di sangue, meno interessata alla giustizia e
ispirata a un forte desiderio di vendetta. Tutti elementi che
riscontriamo in alcuni gruppi Islamisti, che non trovano spazio nel
campo delle forme pacifiche di protesta e radicalizzano le loro
posizioni in risposta alle ingiustizie di cui sono vittime. Allo stesso
modo, i maltrattamenti, le umiliazioni e la deportazione dei cittadini
del Sinai del Nord da parte dello Stato Egiziano sta favorendo la
diffusione del fondamentalismo in quella regione.
Non è da escludere che a breve, la popolazione si mobiliterà
con meccanismi simili, non abbracciando il fondamentalismo islamico, ma
sotto forma di bande criminali, per commettere atti di violenza.
Vista la decadenza dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, è
improbabile che tali fenomeni possano essere contenuti o dominati. Se
lo Stato vuole sopravvivere, deve necessariamente procedere a una
riforma istituzionale. Finora, questo processo è stato ritardato creando
un nemico esterno, o anche ventilando ipotesi di possibili scenari di
guerra. Ma questo è solo un contentino, che non basterà a contenere la
rabbia che esploderà se non si cambia drasticamente rotta.
Quando l’Afghanistan si è ribellato, con il sostegno degli Stati
Uniti, ed è riuscito a respingere le truppe sovietiche, gli Americani
non hanno investito nella scuola per sanare i danni causati dalla
guerra. Questo ha portato a una cultura marcatamente jihadista e ha
contribuito alla creazione di gruppi terroristici, che poi hanno dato
filo da torcere agli Stati Uniti. Sicuramente, la situazione egiziana
non è così drammatica, ma si dovrebbe trarre un insegnamento da
quell’esperienza. Se l’unico flusso di denaro è legato alle armi
e i grandi progetti non sono tesi a creare una cultura di giustizia,
formazione e rimozione degli ostacoli che non permettono la piena
eguaglianza sociale, le società andranno inevitabilmente incontro a un
peggioramento.
L’Egitto attuale potrebbe trasformarsi in una terra di illegalità, in cui le istituzioni gestirebbero la loro personale mafia
e i cittadini comuni farebbero altrettanto, mettendosi gli uni contro
gli altri per accaparrarsi le risorse, invece di organizzarsi per
redistribuirle. Gli investitori dovrebbero sborsare ingenti somme ai
governi corrotti e avrebbero bisogno di intrecciare rapporti con gruppi
di potere locali per proteggere le loro imprese. L’arma della legge
potrebbe essere usata contro i cittadini, gli imprenditori e gli
studenti e diventerebbe solo uno strumento punitivo e non un sistema di
tutela dei diritti. I cittadini, non sentendosi protetti dalla legge,
cercherebbero di organizzarsi in modo informale, con canali di sicurezza
parastatali.
Sono queste le problematiche legate al restringimento degli
spazi aperti dall’esplosione del 25 gennaio 2011 e basta avere un minimo
di lungimiranza per cogliere appieno i pericoli che si nascondono
dietro queste tendenze. Lasciando che all’interno della società
egiziana prevalgano le disuguaglianze, l’attuale regime sta
determinando una situazione di maggiore instabilità, che può assumere
risvolti anche molto pericolosi.
Chi ha il potere di cambiare le cose sta invece incoraggiando i
guadagni economici a breve termine mettendo a rischio la stabilità e il
futuro dell’Egitto. Tra questi soggetti, ci sono i governi della
comunità internazionale che sostengono un regime che uccide, incarcera e
compie gesti intimidatori nei confronti di chi invoca un cambiamento
pacifico.
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