di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Fiamme e fumo nero: ieri
a catturare per primi l’esplosione che ha colpito la capitale turca
Ankara sono stati i social network. In serata il bilancio era di
28 morti e 61 feriti: un'autobomba, dice il governatore di Ankara
Kiliçdar, è saltata in aria al passaggio di autobus con a bordo dei
militari nel centrale quartiere di Kizilay.
A pochissima distanza si ergono il quartier generale dell’esercito,
il parlamento e l’ufficio del primo ministro (in teoria la zona più
controllata di Ankara). Un colpo ai simboli istituzionali turchi, target
diversi da quelli colpiti un mese fa ad Istanbul, di fronte alla
Moschea Blu, quando nel mirino finirono turisti stranieri.
Subito il partito di governo, Akp, ha parlato di attentato e
imposto alla stampa di non riportare notizie se non riprendendo i
comunicati ufficiali, mentre Twitter veniva di nuovo bloccato. Ancora
nessun gruppo ha rivendicato l’attacco, ma funzionari dell’esercito
hanno puntato il dito contro il Pkk. Il presidente Erdogan non
dovrebbe tardare ad intervenire: per l’oggetto dell’azione, bus di
militari a 300 metri dalla sede dell’esercito, è probabile – a meno di
rivendicazioni – che la responsabilità sia attribuita a chi subisce una
brutale campagna militare, i kurdi, un’operazione che troverebbe
nell’attentato di Ankara la più facile delle giustificazioni.
La campagna in corso però non si limita al sud est della Turchia:
investe da mesi il nord dell’Iraq e da 4 giorni il nord della Siria. Qui
la cessazione delle ostilità decisa giovedì scorso a Monaco è destinata
a restare lettera morta: allo scontro ovvio tra fronti avversari si
aggiunge la faida interna alla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Pomo della discordia sono loro, i kurdi siriani. Accanto alle
prevedibili schermaglie tra Ankara e Washington sul ruolo delle Ypg
(unità di difesa popolari del Partito dell’Unione Democratica, Pyd),
terroriste per la prima, alleate per la seconda, si affianca la
rinnovata pressione turca per una “safe zone” in territorio siriano.
Ieri il vice premier turco Akdogan ha proposto la creazione di una “zona sicura” ,
larga 10 km e che includa anche la città di Azaz, principale via di
transito degli aiuti turchi alle opposizioni e target dei combattenti
kurdi. «Vogliamo un corridoio umanitario – ha detto Akdogan – per
impedire tentativi di cambiamento della struttura demografica». Ankara
la immagina “libera” da scontri armati, definizione che interesserebbe
solo i movimenti kurdi, visto che lo stesso Erdogan ha ribadito ieri
l’intenzione di proseguire con la campagna militare contro le Ypg.
La confusione è palpabile: il Consiglio di Sicurezza Onu,
martedì sera, non è riuscito ad accordarsi in merito ai raid turchi,
limitandosi a chiedere il rispetto del diritto internazionale, ma senza
emettere risoluzioni o dichiarazioni nette. A prendere
posizione è il governo di Damasco: l’ambasciatore siriano al Palazzo di
Vetro, al-Jaafari, ha annunciato il supporto del governo al Pyd. Un
passo mai compiuto in precedenza e che potrebbe aprire ad una collaborazione militare proprio
nelle zone “calde”, Azaz e Aleppo. A dar man forte è la Russia che
accusa la Turchia di «totale violazione del diritto internazionale», a
causa dei bombardamenti contro una delle poche forze in grado di
respingere l’Isis.
Una posizione simile, seppur più temperata, è quella della
Casa Bianca con il Dipartimento di Stato che ieri chiedeva all’alleato
di «cessare il fuoco». Immediata la replica di Erdogan: «Trovo
difficile comprendere gli Usa. Dicono: ‘Smettete di bombardare le Ypg’.
Senza offesa, ma se qualcuno spara una pallottola contro la Turchia, noi
risponderemo». Peccato che le Ypg di pallottole contro la Turchia non
ne abbiano mai sparate.
La verità è che nel nord della Siria ci si gioca molto. La
Turchia sa di dover usare ogni freccia al proprio arco e preme per
un’operazione via terra. Ma il consenso non c’è. Le autorità
turche ne sono consapevoli: «Alcuni Stati, noi, l’Arabia Saudita e
alcuni paesi europei hanno riconosciuto che un’operazione terrestre è
necessaria – ha detto ieri il ministro degli Esteri Çavusoğlu – Ma
aspettarselo solo da noi, dai sauditi e dal Qatar non è né giusto né
realistico. Se avverrà dovrà essere portata avanti congiuntamente, ma
finora nella coalizione non c’è stato un dibattito serio sulla
questione». Una richiesta che si scontra con la strategia militare degli
Stati Uniti che ripetono di non voler inviare i propri soldati in
Siria.
Consenso non c’è neppure sulla “safe zone”: dare vita unilateralmente
ad un corridoio palesemente volto a frenare l’avanzata governativa
incrementerebbe le tensioni tra Russia e Occidente, in particolare la
Nato che pare usare le ambizioni belliche turche per fare pressioni su
Mosca ma senza che si giunga ad un devastante scontro diretto.
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