Sergio Romano è una delle firme più intelligenti, oltre che prestigiose, del Corriere della Sera. Il suo maggior merito consiste nell’essere un esponente di quel realismo politico altoborghese che non si nasconde dietro un dito, allorché si tratta di affrontare temi che implicano l’analisi di interessi in conflitto e rapporti di forza, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. È, per intenderci, uno di quei liberali vecchio stile che non negano l’esistenza della lotta di classe e della competizione fra imperialismi e, invece di sproloquiare di principi e valori, “interesse generale” e altre motivazioni ideologiche, non nascondono la propria appartenenza di parte e spiegano come, al loro parere, tale parte dovrebbe agire per difendere e promuovere i propri interessi.
Così dopo il coro di sdegnate condanne, di ipocrite richieste di “fare piena luce”, di inviti a trovare e punire i colpevoli, ecc. che media e politici hanno intonato dopo l’assassinio di Giulio Regeni da parte della polizia del regime di Al Sisi, ecco finalmente qualcuno che dice la verità: sappiamo benissimo di chi è la responsabilità, ma i nomi dei colpevoli non li sapremo mai, né mai otterremo giustizia perché non è interesse del nostro Paese alzare troppo la voce nei confronti di un regime alleato qual è quello di Al Sisi. Abbiamo forse preteso che il governo britannico rendesse conto delle criminali violazioni dei diritti umani commesse nel corso della lotta al terrorismo irlandese? Abbiamo chiesto conto agli Stati Uniti dell’orrore di Guantánamo e delle torture della Cia dopo gli attentati alle Torri Gemelle?
La guerra, sembra dirci Romano parafrasando il presidente Mao, “non è un pranzo di gala”, tantomeno la guerra a un “nemico assoluto” (di questi tempi tornano non a caso di attualità le categorie di Carl Schmitt, pensatore che non fu certo un campione di democrazia) qual è il terrorismo. E in guerra, si sa, capita di dover arruolare alleati imbarazzanti. Al Sisi è un macellaio, ma è anche una diga contro l’estremismo islamico in Nord Africa (Erdogan, potremmo aggiungere, e certi regimi dell’Est Europa sono neofascisti, ma svolgono un importante ruolo antirusso).
E allora? Accetteremo quel che è successo senza fare nulla? Proprio così ci fa capire Romano, anche se, in coda all’articolo, non può esimersi dal tributare a sua volta un omaggio ai valori: “Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente (pensate alla sublime ironia di questo avverbio …) condonati. Oggi più che mai abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, sia pure contro il peggiore e il più crudele dei nemici, senza il sostegno dell’opinione pubblica. È una legge democratica a cui neppure l’Egitto può sottrarsi”.
Detto altrimenti: democrazia vuol dire salvare la forma e ottenere il consenso della pubblica opinione. Del resto gli “elitisti” del primo Novecento – Mosca, Pareto e Michels – e dopo di loro Ludwig von Mises, lo hanno chiarito da un pezzo: la democrazia non è un fine ma uno strumento per selezionare chi comanda.
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